“Your Sister’s Sister” di Lynn Shelton

(USA, 2011)

Ci sono film che riescono a toccare corde profonde con una delicatezza disarmante, e “Your Sister’s Sister” di Lynn Shelton (1965-2020) è uno di questi. Questo gioiellino indipendente, infatti, dimostra come la semplicità possa essere il veicolo ideale per esplorare le complessità delle relazioni umane, attraverso una narrazione intima e autentica.

La storia ruota attorno a Jack (Mark Duplass), un uomo ancora devastato dalla recente morte del fratello. La sua migliore amica, Iris (Emily Blunt), lo convince a prendersi una pausa dalla vita quotidiana, invitandolo a trascorrere qualche giorno di isolamento nella casa di famiglia su un’isola del Pacifico nord-occidentale. Quello che dovrebbe essere un rifugio tranquillo si trasforma in qualcosa di molto diverso quando Jack scopre che la casa è già occupata dalla sorella di Iris, Hannah (Rosemarie DeWitt), che si sta riprendendo dalla fine di una lunga relazione.

L’incontro tra Jack e Hannah dà il via a una serie di eventi imprevedibili che coinvolgono segreti, rivelazioni e dinamiche familiari complesse. Il film si snoda tra momenti di intenso dramma e situazioni di sottile umorismo, mantenendo sempre una tonalità sincera e profondamente umana. Shelton, che ha anche scritto la sceneggiatura, riesce a creare personaggi incredibilmente realistici, con dialoghi che sembrano emergere spontaneamente, come conversazioni reali tra persone che conosciamo da sempre.

Uno degli aspetti più affascinanti di “Your Sister’s Sister” è la sua capacità di esplorare le sfumature dell’intimità e del legame fraterno. La relazione tra Iris e Hannah è centrale al film, e l’alchimia tra Emily Blunt e Rosemarie DeWitt è palpabile, rendendo credibile ogni interazione. La loro dinamica è complicata, a tratti conflittuale, ma sempre intrisa di un profondo affetto, che risuona con una verità universale.

Mark Duplass, con la sua interpretazione naturale e non forzata, incarna perfettamente l’antieroe moderno: imperfetto, vulnerabile e, in fin dei conti, straordinariamente umano. Jack è un personaggio con cui è facile identificarsi, qualcuno che lotta con il dolore e la confusione, ma che trova anche momenti di leggerezza e conforto nelle connessioni che stabilisce.

La regia di Shelton è discreta, quasi invisibile, lasciando che siano i personaggi e la storia a guidare l’esperienza dello spettatore. Il film è stato girato con un budget modesto e con un approccio quasi documentaristico, il che contribuisce a creare un’atmosfera intima e immediata. I paesaggi dell’isola, fotografati con una luce naturale, aggiungono un ulteriore strato di bellezza e isolamento, rispecchiando lo stato d’animo dei personaggi.

“Your Sister’s Sister” è un film che non ha bisogno di grandi colpi di scena o di effetti speciali per catturare l’attenzione. È una storia semplice ma profondamente risonante, che parla di dolore, amore, e del complicato groviglio di emozioni che spesso accompagna le nostre relazioni più strette. È un’opera che lascia spazio alla riflessione e che invita lo spettatore a confrontarsi con le proprie esperienze e i propri sentimenti.

In un’epoca in cui il cinema sembra spesso puntare su spettacoli grandiosi e trame complesse, “Your Sister’s Sister” ci ricorda che la forza di un film può risiedere nella sua semplicità e nella sua capacità di raccontare storie che toccano il cuore. Lynn Shelton, con la sua sensibilità unica, ha creato una pellicola che rimane impressa nella memoria, offrendo un’esperienza cinematografica tanto intima quanto universale. Una volta, anche la nostra cinematografia, era capace di sfornare pietre preziose a basso costo come questa.

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“Harper” di Jack Smight

(USA, 1966)

Il 1966 ha regalato agli amanti del cinema noir un piccolo gioiello intitolato Harper, un film diretto con mano sapiente da Jack Smight e reso indimenticabile dalla straordinaria interpretazione di Paul Newman. In un’epoca in cui il cinema era popolato da eroi monolitici e investigatori dai metodi ortodossi, Harper emerge come un’opera che sfida le convenzioni del genere, portando sul grande schermo un detective dai tratti cinici, disillusi, ma anche incredibilmente affascinanti.

Il film è un adattamento del romanzo “The Moving Target” di Ross Macdonald, e vede Newman vestire i panni di Lew Harper, un investigatore privato che sembra uscito direttamente dalle pagine di Chandler o Hammett, ma con quel tocco di modernità che solo Newman poteva dare. Harper è un personaggio complesso, un uomo la cui vita personale è in rovina, ma che riesce a trovare un equilibrio instabile attraverso il suo lavoro, fatto di casi intricati e relazioni ambigue.

La trama segue Harper mentre indaga sulla scomparsa di un ricco magnate, un caso che lo porterà a confrontarsi con una Los Angeles decadente, piena di personaggi ambigui e situazioni al limite del legale. È qui che il talento di Smight emerge con prepotenza, riuscendo a creare un’atmosfera densa e opprimente, in cui ogni scena è intrisa di una tensione sottile ma persistente. La regia di Smight, pur non avendo il tocco autoriale dei più grandi, è funzionale e incisiva, capace di tenere lo spettatore costantemente sul filo del rasoio.

Ma il vero cuore pulsante di Harper è Paul Newman. Con la sua interpretazione, l’attore riesce a rendere il personaggio di Lew Harper non solo credibile, ma anche profondamente umano. Newman gioca con le sfumature, passando con naturalezza dal sarcasmo al dolore, dalla determinazione alla vulnerabilità. È una performance che cattura l’essenza stessa del detective noir: un uomo che non si ferma davanti a nulla, ma che è anche consapevole delle proprie fragilità.

Il cast di supporto non è da meno, con una brillante Lauren Bacall nel ruolo della moglie del magnate scomparso e un’ottima Janet Leigh che interpreta la moglie di Harper, una presenza costante che ci ricorda il lato più oscuro e malinconico della vita del protagonista.

Harper non è solo un film noir, ma anche un ritratto di un’epoca e di una città. La Los Angeles degli anni ’60 è rappresentata come una metropoli in cui il sogno americano sembra essersi infranto, lasciando spazio solo a illusioni e corruzione. Smight, attraverso la lente di Harper, ci mostra un mondo in cui il confine tra giusto e sbagliato è sempre più sfumato, e in cui i personaggi sono costretti a navigare in acque torbide, alla ricerca di una verità che, forse, non esiste.

In conclusione, Harper è un film che merita di essere riscoperto, non solo per la straordinaria interpretazione di Paul Newman, ma anche per la sua capacità di catturare lo spirito di un genere e di un’epoca. È un’opera che, nonostante i suoi quasi sessant’anni, riesce ancora a coinvolgere e a far riflettere, dimostrando come il noir, quando fatto con intelligenza e passione, possa ancora parlare al cuore e alla mente dello spettatore moderno.

Nel 1975 Stuart Rosenberg dirige il sequel “Detective Harper: acqua alla gola”, sempre tratto da un romanzo di Macdonald e sempre con un grande Paul Newman nei panni del protagonista.

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“Miss Violence” di Alexandros Avranas

(Grecia, 2013)

Alcuni film riescono a sconvolgere lo spettatore non tanto per ciò che mostrano esplicitamente, ma per il mondo oscuro che lasciano intravedere dietro le apparenze. “Miss Violence”, diretto da Alexandros Avranas e presentato alla 70ª Mostra del Cinema di Venezia, rientra a pieno titolo in questa categoria.

La pellicola si apre con una scena che toglie immediatamente il fiato: Angeliki, una ragazzina di undici anni, durante la sua festa di compleanno si getta dalla finestra di casa, con un sorriso ambiguo che segna l’inizio di una discesa negli abissi dell’animo umano. Da quel momento, Avranas costruisce un thriller psicologico cupo e soffocante, dove l’apparente normalità nasconde una realtà di abusi e violenze indicibili.

La forza del film sta nel suo impianto visivo e narrativo: Avranas sceglie di mantenere un approccio stilistico glaciale, quasi clinico. La casa dove si svolge gran parte della vicenda è immacolata, ordinata in maniera ossessiva, specchio di una famiglia che sembra, agli occhi del mondo, perfettamente in controllo. Ma proprio in questo controllo si annida il male, come il regista greco ci svela gradualmente con una regia fatta di inquadrature statiche e silenzi assordanti. Ogni sguardo, ogni gesto quotidiano è impregnato di tensione.

Il cast, guidato da un magistrale Themis Panou (che non a caso vince la Coppa Volpi per la sua interpretazione), è perfetto nel rendere l’atmosfera malsana e opprimente che pervade il film. Panou interpreta il patriarca con un’aura di calma autorità che nasconde una violenza subdola e totalizzante. I membri della famiglia sembrano pedine in un gioco malato, costretti a obbedire a regole non dette, ma ferree.

“Miss Violence” non fa sconti e non lascia spazio a vie di fuga, né per i personaggi né per chi guarda. La violenza non è mai spettacolarizzata, ma permea ogni scena in modo quasi invisibile, insinuandosi sotto la pelle dello spettatore, fino a rivelare una realtà agghiacciante e dolorosamente plausibile.

La critica alla società greca è evidente, ma Avranas – che vince anche il Leone d’Argento per la sua regia – riesce a creare un racconto universale: in qualsiasi contesto culturale, dietro l’apparente perfezione di certe famiglie possono celarsi dinamiche di controllo e sottomissione che difficilmente riusciamo a immaginare.

Non è un film facile da affrontare, né da dimenticare. La sua narrazione asciutta, priva di facili spiegazioni, lascia aperte domande che continuano a tormentare a lungo: fino a che punto possiamo davvero conoscere chi ci sta accanto? E quanto possiamo ignorare prima di ammettere che il male, a volte, è proprio dove meno ce lo aspettiamo?

“La ragazza del quartiere” di Robert Wise

(USA, 1962)

C’è una magia particolare nel cinema di Robert Wise, un equilibrio tra la profondità delle storie che racconta e la maestria con cui le mette in scena. “La ragazza del quartiere” – il cui titolo originale è “Two for the Seesaw”, dove Seesaw identifica l’altalena dei sentimenti di un rapporto irrisolto – con Robert Mitchum e Shirley MacLaine, è un esempio perfetto di questo suo talento.

Tratto dall’omonima opera teatrale di William Gibson (1914-2008) – che andò in scena per la prima volta nel gennaio del 1958 e vide l’esordio sul palcoscenico della giovane Anne Bancroft nei panni di Gittel, ruolo per il quale l’attrice vinse il suo primo Emmy, affiancata da Henry Fonda in quelli di Jerry – il film trasporta sullo schermo la complessità emotiva di una storia d’amore intensa e tormentata, resa indimenticabile dalle interpretazioni dei due protagonisti.

La trama segue l’incontro tra Jerry Ryan (Robert Mitchum), un avvocato divorziato, e Gittel Mosca (Shirley MacLaine), una ballerina di New York che lotta per sbarcare il lunario. Jerry, appena arrivato in città dopo aver lasciato Omaha, il Nebraska e un matrimonio fallito, si trova a navigare le acque turbolente di una nuova vita. Gittel, invece, è una giovane donna vivace ma fragile, il cui passato doloroso non smette di condizionarle il presente. L’incontro tra queste due anime ferite dà vita a una relazione tanto passionale quanto instabile, fatta di alti e bassi, di momenti di dolcezza e scontri dolorosi.

La scelta di Robert Mitchum come protagonista maschile potrebbe sembrare insolita, dato il suo passato cinematografico fatto di ruoli duri e impassibili, come nelle pietre miliari “Il tesoro di Vera Cruz”, “Le catene della colpa”, “La morte corre sul fiume” e “Odio implacabile”. Eppure, in “La ragazza del quartiere”, Mitchum dimostra una sorprendente vulnerabilità. Il suo Jerry è un uomo spezzato, alla ricerca di un senso di appartenenza che sembra sfuggirgli continuamente. Shirley MacLaine, invece, con la sua energia contagiosa e il suo sguardo malinconico, riesce a incarnare perfettamente il personaggio di Gittel, una donna che lotta per non soccombere alla solitudine e all’amarezza.

La splendida fotografia in bianco e nero di Ted McCord è un altro elemento che merita una menzione speciale. Il film sfrutta al meglio le ombre e i contrasti, creando un’atmosfera che amplifica la tensione emotiva tra i due protagonisti. New York, con i suoi appartamenti angusti e le sue strade affollate, diventa quasi un personaggio a sé stante, un luogo che rispecchia le emozioni turbolente di Jerry e Gittel.

Ma è la regia di Wise a fare davvero la differenza. Il regista sa quando lasciar respirare le scene, permettendo ai suoi attori di esplorare a fondo i loro personaggi, e quando invece intensificare il ritmo per sottolineare i momenti di conflitto. Il risultato è un film che, pur mantenendo le sue radici teatrali, riesce a sfruttare appieno le potenzialità del linguaggio cinematografico.

“La ragazza del quartiere” è un film che parla di amore e di perdita, di speranza e di disillusione, ma soprattutto di due persone che cercano disperatamente di trovare un posto nel mondo, anche se solo temporaneo. È un’opera toccante e profondamente umana, resa ancora più potente dalle performance straordinarie di Mitchum e MacLaine, e dalla regia impeccabile di Wise.

Se non l’avete ancora visto, vi consiglio caldamente di farlo. È uno di quei film che, una volta terminati, vi lasciano un segno profondo, facendovi riflettere sulle complessità delle relazioni umane e sulla fragilità dell’esistenza.

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“Fahrenheit 451” di François Truffaut

(UK,1966)

Questo è un film che, ad ogni sua visione, ci costringe a riflettere sulla natura umana e sul potere della conoscenza. Tratta dall’omonimo e bellissimo romanzo di Ray Bradbury, questa pellicola rappresenta un unicum nella carriera di François Truffaut, il maestro della “Nouvelle Vague”, che con questo lavoro si confronta per la prima volta con la fantascienza, con la lingua inglese e con il colore.

In un futuro distopico, i libri sono banditi e i pompieri, invece di spegnere incendi, li appiccano per distruggere ogni traccia di sapere e di pensiero critico. Il protagonista, Guy Montag, interpretato da un magnetico Oskar Werner, è un pompiere devoto al suo lavoro, finché un incontro fortuito con la vivace e curiosa Clarisse, portata sullo schermo da una straordinaria Julie Christie, lo spinge a mettere in dubbio tutto ciò in cui crede.

Truffaut ci regala un’opera visivamente ipnotica, dove il colore diventa protagonista tanto quanto i personaggi. L’uso del rosso, simbolo di distruzione ma anche di passione, domina la scena, sottolineando la tensione tra un mondo che brucia la cultura e la nascente consapevolezza di Montag. La scenografia è minimalista, quasi alienante, a sottolineare la sterilità emotiva di una società che ha sacrificato l’anima sull’altare della conformità.

Fondamentale è anche la colonna sonora firmata da Bernard Herrmann, musicista fra i preferiti del maestro Alfred Hitchcock, che Truffaut cita e omaggia in quasi ogni scena. La loro personale amicizia, nata da un’intervista che il cineasta francese gli fece per poi scrivere lo splendido “Il cinema secondo Hitchcock”, è parte integrante della storia del cinema.

Julie Christie offre una performance memorabile, incarnando sia Clarisse, l’elemento di disturbo che accende la scintilla del dubbio in Montag, sia Linda, la moglie apatica e sottomessa al sistema. Questo doppio ruolo non solo dimostra la versatilità dell’attrice, ma rafforza il contrasto tra la vita che Montag desidera e quella a cui è stato condannato.

La scelta di Truffaut di adattare “Fahrenheit 451” di Bradbury può apparire paradossale per un regista che ha costruito la sua carriera su storie intime e umane. Tuttavia, è proprio questa distanza dall’opera originale che permette a Truffaut di esplorare nuovi territori cinematografici, pur mantenendo la sua sensibilità poetica. Non è un film di fantascienza nel senso convenzionale del termine, ma piuttosto una riflessione sull’alienazione, sull’individualismo e sulla resistenza all’omologazione.

Ma sopratutto “Fahrenheit 451” è un inno immortale alla lettura e all’amore per i libri, libri che per lo stesso Truffaut furono, durante la sua difficile adolescenza, l’unico vero punto fermo e faro illuminante. Le semplificazioni narrative rispetto al romanzo di Bradbury non sono mancanze, ma scelte consapevoli che orientano il film verso una dimensione più simbolica che didascalica.

Se il ritmo del film può risultare lento per alcuni, questa lentezza è funzionale alla costruzione di un’atmosfera di crescente oppressione e disagio. Truffaut non cerca di catturare lo spettatore con effetti speciali o colpi di scena, ma lo invita a immergersi in un mondo in cui l’assenza di cultura diventa la vera minaccia, più inquietante di qualsiasi mostro fantascientifico.

In definitiva, “Fahrenheit 451” non è solo un adattamento di un romanzo celebre, ma un’opera d’arte a sé stante, che porta l’impronta inconfondibile del grande cineasta francese. Un film che sfida il pubblico a interrogarsi sul valore della cultura e della libertà in un’epoca di crescente conformismo. Truffaut dimostra che la fantascienza, nelle mani giuste, può essere uno strumento potente per esplorare le profondità dell’animo umano e per denunciare le derive della società contemporanea.

“Fahrenheit 451” è un film che va visto, non solo per la sua bellezza visiva o per le interpretazioni dei suoi attori, ma perché ci ricorda quanto sia importante difendere il diritto di pensare, di leggere, di sapere. Truffaut ci consegna un monito potente, un invito a non spegnere mai quella scintilla di curiosità e ribellione che ci rende veramente umani, un monito mai obsoleto e oggi, drammaticamente, tanto attuale.

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“Senza pelle” di Alessandro D’Alatri

(Italia, 1994)

Negli anni ’90 il cinema italiano ha prodotto piccoli capolavori che, purtroppo, non hanno ricevuto l’attenzione che meritavano. Tra questi c’è “Senza pelle“, un film che dimostra ancora una volta la maestria di Alessandro D’Alatri nel raccontare le sfumature dell’animo umano. Il regista, che scrive anche la sceneggiatura per la quale vince il David di Donatello, affronta il tema della diversità, della fragilità mentale e della solitudine in un contesto che oscilla tra il quotidiano e l’intimo, grazie anche a un cast di interpreti davvero eccezionali.

La storia ruota intorno a Gina (Anna Galiena, che per questa interpretazione vince il Golden Globe assegnato nel nostro Paese), compagna di Riccardo, un pacifico autista di autobus metropolitani che ha il volto di Massimo Ghini, con il quale ha un bambino di pochi anni. La loro esistenza, apparentemente ordinaria, viene stravolta dall’arrivo di Saverio (un bravissimo Kim Rossi Stuart), un giovane che vive ai margini della società e della propria stabilità mentale. Saverio, con la sua fragilità, entra ossessivamente nella vita di Gina, mettendo in luce le crepe sottili del suo rapporto col compagno e forse la sua stessa identità.

Il tema della malattia mentale viene trattato con rispetto, senza mai cadere in stereotipi o facili giudizi, e rappresenta il fulcro attorno al quale si sviluppa l’intera narrazione. Il titolo “Senza pelle” allude proprio a questa condizione di vulnerabilità estrema che affligge Saverio e che, in un certo senso, contagia anche gli altri personaggi, costringendoli a confrontarsi con le proprie paure e insicurezze.

Dall’altra parte c’è Gina, una donna che sente addosso il peso della sua invisibilità, sia come compagna che come persona appartenente ad una società che l’ha definitivamente e ipocritamente condannata per avere allacciato una relazione con un uomo sposato, com’era Riccardo quando lo ha conosciuto, e con il quale ha poi voluto avere anche un figlio, cosa per la quale ancora la biasima perfino sua madre.

La sua particolare relazione con Saverio, per quanto complicata e precaria, le dà un senso di esistenza che la vita col compagno forse non riesce più a offrirle. Anna Galiena, con la sua consueta raffinatezza, riesce a donare profondità a un personaggio che potrebbe sembrare superficiale, ma che in realtà non lo è affatto.

Non meno importante è l’ottima interpretazione di Massimo Ghini, che incarna un uomo apparentemente gretto e superficiale, ma che in realtà riesce a capire e amare veramente la sua compagna sostenendola anche nel particolare momento che lei sta vivendo. In piccoli ruoli appaiono anche Luca Zingaretti e Rocco Papaleo. Da ricordare anche il progetto musicale su cui si basa la colonna sonora firmato da Moni Ovadia.

Senza pelle” non è un film per tutti i palati, e forse anche per questo non ha avuto il successo che meritava. Ma proprio per questo è un’opera da riscoprire, capace di rimanere impressa per la sua umanità e la sua struggente dolcezza.

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“Il bacio della donna ragno” di Héctor Babenco

(Brasile/USA, 1985)

Héctor Babenco, con “Il bacio della donna ragno”, ci consegna un’opera di rara intensità emotiva, che travalica i confini del cinema politico per esplorare la condizione umana in tutta la sua complessità. Tratto dall’omonimo romanzo di Manuel Puig – ambientato nell’Argentina sotto la dittatura violenta e sanguinaria di Videla – e scritto per il grande schermo da Leonard Schrader, il film ci immerge nelle angosce e nelle speranze di due prigionieri, offrendo una narrazione che è al contempo intima e universale.

Ambientato in una prigione sudamericana durante un’epoca di repressione politica, il film mette in scena l’incontro tra Luis Molina (uno straordinario William Hurt), un omosessuale incarcerato per immoralità, e Valentín Arregui (Raúl Juliá), un rivoluzionario marxista. Molina, con la sua passione per i melodrammi cinematografici – la cui protagonista è sempre incarnata da Sonia Braga – diventa il narratore di storie che trasportano lui e Valentín lontano dalle mura della prigione. Attraverso questi racconti, Babenco esplora la potenza dell’immaginazione come strumento di evasione e di resistenza.

La regia di Babenco si distingue per la sua capacità di alternare sapientemente momenti di cruda realtà carceraria a sequenze oniriche e stilizzate, in cui le storie raccontate da Molina prendono vita. Questo dualismo conferisce al film una struttura narrativa complessa e affascinante, che cattura l’attenzione dello spettatore dall’inizio alla fine.

La performance di William Hurt è magistrale, meritatamente premiata con l’Oscar e con il Premio della Giuria al Festival di Cannes. L’attore riesce a incarnare con delicatezza e profondità un personaggio intrappolato tra la sua vulnerabilità e la sua forza interiore. Raul Julia, nel ruolo di Valentín, offre una prova altrettanto potente, rendendo palpabile la tensione tra il suo impegno politico e il legame che si sviluppa con Molina.

Uno degli elementi più riusciti del film è la colonna sonora, composta da John Neschling. La musica non è solo un accompagnamento, ma diventa un vero e proprio personaggio, capace di amplificare le emozioni e di sottolineare i momenti più significativi della narrazione.

“Il bacio della donna ragno” non è semplicemente un film sulla prigionia fisica, ma una riflessione profonda sulla libertà interiore e sulla capacità dell’essere umano di trovare consolazione nell’arte e nell’immaginazione. La pellicola invita lo spettatore a interrogarsi sui limiti e sulle possibilità della mente umana, offrendo uno spaccato di straordinaria intensità sul potere delle storie e quindi anche sul cinema stesso.

In conclusione, Héctor Babenco realizza un film che riesce a essere allo stesso tempo politico e poetico, un’opera che resta impressa nella memoria per la sua forza visiva ed emotiva. “Il bacio della donna ragno” è un capolavoro che merita di essere riscoperto e apprezzato per la sua capacità di parlare all’anima dello spettatore, ricordandoci il potere liberatorio dell’arte, quella vera.

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“Johnny Stecchino” di Roberto Benigni

(Italia, 1991)

Scritta insieme a Vincenzo Cerami, diretta e interpretata da Roberto Benigni, questa pellicola è una commedia che incarna perfettamente lo spirito irriverente e geniale del suo creatore. Con la sua consueta maestria, il cineasta toscano confeziona una storia che mescola satira, umorismo surreale e critica sociale, regalando al pubblico un film che diverte e fa riflettere, anche a distanza di decenni.

La trama ruota attorno a Dante, un ingenuo e bonario autista di scuolabus con una straordinaria somiglianza a Johnny Stecchino, un boss mafioso “pentito” e in fuga. La doppia identità di Dante lo trascina in una serie di situazioni esilaranti e pericolose, creando un vortice di equivoci che rappresenta il cuore comico del film.

Benigni, nella doppia veste di regista e protagonista, brilla con la sua interpretazione di Dante, caratterizzato da una dolce ingenuità e una comicità fisica che ricordano i grandi maestri del passato, come Charlie Chaplin, Buster Keaton e Groucho Marx (quest’ultimo dichiaratamente citato nella sequenza del falso specchio nella credenza in cucina, che richiama quella straordinaria interpretata da Groucho e suo fratello Harpo Marx ne “La guerra lampo dei fratelli Marx” del 1933). La sua capacità di passare dall’umorismo slapstick a momenti di sottile satira sociale è ciò che rende “Johnny Stecchino” un’opera unica nel panorama cinematografico italiano.

Accanto a Benigni, troviamo Nicoletta Braschi nel ruolo di Maria, la donna che architetta il piano per salvare il vero Johnny Stecchino utilizzando Dante come esca. La chimica tra Benigni e Braschi, non solo sullo schermo ma anche nella vita reale, aggiunge una dimensione di autenticità e tenerezza alla loro interazione.

Il film è ricco di scene memorabili e battute che sono entrate nell’immaginario collettivo italiano, come il famoso monologo di Dante sul “problema” che affligge Palermo e la Sicilia (ma la parola “mafia” non viene mai pronunciata), quello del costo delle banane nella città siciliana, o la sequenza in cui lui imita una scimmia. Ma oltre alla commedia, “Johnny Stecchino” offre anche una critica non troppo sottile alla società italiana dell’epoca, in particolare ai temi della criminalità organizzata e della corruzione. Benigni utilizza l’umorismo come strumento per denunciare e riflettere su queste problematiche, senza mai perdere di vista l’intrattenimento.

La colonna sonora di Evan Lurie accompagna perfettamente le vicende del film, sottolineando i momenti comici e quelli più riflessivi con un tocco musicale che arricchisce ulteriormente l’atmosfera surreale della pellicola.

“Johnny Stecchino” è un film che ha saputo conquistare il pubblico con la sua comicità irresistibile e il suo messaggio profondo, dimostrando ancora una volta il talento e la versatilità di Roberto Benigni come attore, regista e sceneggiatore. È una commedia che, a distanza di anni, continua a far ridere e a far pensare, confermandosi come un classico del cinema italiano.

Ridere non vuol dire necessariamente non pensare. La lungimiranza e l’avanguardia di Benigni e Cerami nello scrivere la sceneggiatura è la Storia che ce le conferma: solo qualche mese dopo l’uscita nelle nostre sale del film, il 23 maggio del 1992, cinquanta metri dell’autostrada che collega Palermo all’aeroporto di Punta Raisi, arteria viaria che appare più di una volta nel film, vennero fatti saltare in aria da Cosa nostra per uccidere il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta: Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.

Il 19 luglio dello stesso anno, in via D’Amelio, una Fiat 126 ricolma di tritolo venne fatta esplodere uccidendo il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

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“L’occhio che uccide” di Michael Powell

(UK, 1960)

In una carriera costellata di capolavori, Michael Powell, nel 1960 raggiunge una vetta assoluta con “L’occhio che uccide” – il cui titolo originale è “Peeping Tom”, che si può tradurre col termine “guardone” – un film che ha suscitato sdegno e disapprovazione alla sua uscita, ma che oggi possiamo ammirare come una straordinaria opera di avanguardia e introspezione psicologica. Questa pellicola, al pari delle opere di Alfred Hitchcock, sfida e ridefinisce i confini del thriller e dell’horror.

La narrazione segue Mark Lewis, interpretato con gelida precisione da Karlheinz Böhm, un cameraman ossessionato dall’idea di catturare il terrore puro. Armato di una cinepresa modificata con una lama nascosta, Mark filma i suoi omicidi, trasformando la morte in un’arte visiva. La cinepresa non è solo un mezzo per documentare, ma diventa un’estensione della sua psiche disturbata, una finestra sulla sua anima tormentata.

Powell, maestro nel manipolare il linguaggio cinematografico, ci costringe a diventare complici di Mark, immergendoci nel suo punto di vista distorto. L’uso della soggettiva, l’intensità dei colori e l’illuminazione espressionista creano un’atmosfera di costante tensione, un’esperienza visiva che non permette distrazioni o distacco emotivo. La cinepresa, nelle mani di Powell, diventa uno strumento di introspezione e, al contempo, di condanna.

La tematica del voyeurismo, già esplorata in maniera sublime dallo stesso Hitchcock in “La finestra sul cortile” del 1954, trova qui una rappresentazione ancora più diretta e inquietante. “L’occhio che uccide” non solo ci fa osservare, ma ci interroga sul nostro stesso desiderio di guardare, mettendo a nudo la nostra complicità nel consumo visivo della sofferenza altrui. Questo gioco metacinematografico è condotto con una precisione chirurgica, rivelando la natura predatoria dello sguardo cinematografico.

La performance di Karlheinz Böhm è fondamentale nell’alchimia del film. Il suo Mark Lewis è un personaggio di grande complessità, che evoca al tempo stesso profonda compassione e grande repulsione. Böhm riesce a catturare le sfumature di un uomo intrappolato tra il trauma della sua infanzia funestata dal padre, e la sua ossessione per la paura. Anche Anna Massey, nel ruolo di Helen, offre un’interpretazione di grande sensibilità, rappresentando una luce di speranza nell’oscurità che avvolge inesorabilmente Mark.

Alla sua uscita, “L’occhio che uccide” fu frainteso e aspramente criticato, ma oggi emerge come un’opera visionaria che anticipa temi e stili che diventeranno centrali nel cinema degli anni successivi. Powell ci offre un’esplorazione coraggiosa e senza compromessi della psiche umana, realizzando un film che è al contempo un thriller avvincente e una profonda riflessione sull’atto stesso del guardare, che è l’essenza stessa del cinema.

Questa pellicola merita di essere riscoperta e celebrata, perché è un’opera che sfida le convenzioni e invita lo spettatore a un confronto diretto con i propri demoni interiori, e Powell è un maestro nel manipolare la luce e il colore per creare un’atmosfera di crescente tensione.

Ogni inquadratura è studiata per mettere a disagio lo spettatore, per farlo sentire intrappolato nello stesso incubo di Mark. È un film che non si limita a mostrare il terrore, ma lo fa sentire, lo fa vivere sulla pelle. Michael Powell – che non a caso sceglie di impersonare il padre aguzzino del piccolo Mark – dimostra ancora una volta di essere un maestro del cinema, capace di spingersi oltre i limiti e di esplorare territori inesplorati con una visione artistica unica e inimitabile.

Se avete il coraggio di affrontare le vostre paure, questo è un film che non potete perdere. Ma ricordate: una volta che avrete guardato nell’abisso, come dice Nietzsche, l’abisso potrebbe iniziare a guardare voi…

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“Perfect Days” di Wim Wenders

(Giappone, 2023)

Con “Perfect Days”, Wim Wenders ci consegna un’opera che sembra distillata dall’essenza stessa del suo cinema: la capacità di catturare la bellezza della vita quotidiana con uno sguardo delicato e profondamente umano. In un’epoca cinematografica dominata dalla velocità e dal rumore, Wenders ci invita a rallentare, a soffermarci sui dettagli più minuti, sulle pieghe del tempo che si srotola in silenzio, offrendo uno sguardo inedito su Tokyo e sui suoi abitanti.

Il protagonista, Hirayama (interpretato magistralmente da Koji Yakusho), è un uomo che ha fatto della semplicità il suo regno. Addetto alla pulizia dei bagni pubblici della città, vive in un appartamento spartano, arredato con pochi, essenziali oggetti. La sua vita è scandita da rituali quotidiani: la cura delle piante, la lettura di libri, l’ascolto di musica su audiocassette. Wenders, con una regia che si fa discreta, quasi invisibile, trasforma questi gesti ordinari in momenti di contemplazione poetica.

“Perfect Days” – la cui sceneggiatura è firmata da Takuma Takasaki oltre che dallo stesso Wenders – non è un film che racconta una storia nel senso tradizionale del termine. Non c’è un conflitto centrale, non ci sono svolte narrative drammatiche. Eppure, c’è una profondità emotiva che si costruisce progressivamente, strato dopo strato, come una fotografia sviluppata lentamente. Wenders ci conduce in un viaggio intimo attraverso le giornate di Hirayama, dove ogni incontro, ogni scambio di sguardi, ogni suono della città diventa parte di un mosaico più grande, un ritratto di un uomo che ha trovato una sua forma di serenità.

La Tokyo di Wenders è lontana anni luce dalle rappresentazioni iperattive e futuristiche a cui siamo abituati. Qui, la città diventa uno spazio di quiete, di riflessione, quasi un personaggio a sé stante, con i suoi angoli nascosti e le sue strade secondarie che sembrano condurre fuori dal tempo, proprio come quella della serie “Midnight Diner – Tokyo Stories”. La fotografia limpida e cristallina curata da Franz Lustig, enfatizza questa dimensione sospesa, restituendo una Tokyo che è al contempo reale e trasfigurata, uno spazio in cui il tempo sembra rallentare per permettere allo spettatore di cogliere ogni sfumatura, ogni dettaglio.

In “Perfect Days”, Wenders riesce a toccare corde profonde senza mai ricorrere a facili sentimentalismi. Il film si costruisce attraverso un minimalismo narrativo che diventa il suo punto di forza. Ogni scena è un frammento di vita, un tassello che si inserisce in un mosaico più grande, quello della ricerca della bellezza nel quotidiano. Hirayama è un eroe del nostro tempo, un uomo che, nel suo silenzio, riesce a trovare una connessione profonda con il mondo che lo circonda, ricordandoci che la felicità non risiede negli eventi straordinari, ma nella capacità di apprezzare i piccoli momenti di cui è fatta la vita.

Wenders non ha paura di lasciare spazio al silenzio, di lasciare che siano i volti, gli sguardi, i movimenti lenti dei personaggi a raccontare la storia. È un cinema che richiede attenzione, che chiede allo spettatore di lasciarsi trasportare in un flusso di immagini e suoni che, pur nella loro apparente semplicità, costruiscono una narrazione ricca di sfumature.

Con “Perfect Days”, Wim Wenders ci consegna un’opera che è al tempo stesso un atto di resistenza e un omaggio all’essenzialità. È un film che parla di un mondo in cui il tempo è tornato ad avere un valore, in cui la bellezza si trova negli atti più semplici, nella ripetizione dei gesti quotidiani. Un’opera che, in definitiva, ci invita a riscoprire la poesia della vita ordinaria, facendoci sentire, almeno per un momento, parte di qualcosa di più grande, di più profondo.

Wenders, con la sua consueta maestria, ci ricorda che il cinema, come la vita, non ha bisogno di essere urlato per essere ascoltato. Basta saper guardare, saper ascoltare, per trovare in ogni giornata un “perfect day”.

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