“Fahrenheit 451” di François Truffaut

(UK,1966)

Questo è un film che, ad ogni sua visione, ci costringe a riflettere sulla natura umana e sul potere della conoscenza. Tratta dall’omonimo e bellissimo romanzo di Ray Bradbury, questa pellicola rappresenta un unicum nella carriera di François Truffaut, il maestro della “Nouvelle Vague”, che con questo lavoro si confronta per la prima volta con la fantascienza, con la lingua inglese e con il colore.

In un futuro distopico, i libri sono banditi e i pompieri, invece di spegnere incendi, li appiccano per distruggere ogni traccia di sapere e di pensiero critico. Il protagonista, Guy Montag, interpretato da un magnetico Oskar Werner, è un pompiere devoto al suo lavoro, finché un incontro fortuito con la vivace e curiosa Clarisse, portata sullo schermo da una straordinaria Julie Christie, lo spinge a mettere in dubbio tutto ciò in cui crede.

Truffaut ci regala un’opera visivamente ipnotica, dove il colore diventa protagonista tanto quanto i personaggi. L’uso del rosso, simbolo di distruzione ma anche di passione, domina la scena, sottolineando la tensione tra un mondo che brucia la cultura e la nascente consapevolezza di Montag. La scenografia è minimalista, quasi alienante, a sottolineare la sterilità emotiva di una società che ha sacrificato l’anima sull’altare della conformità.

Fondamentale è anche la colonna sonora firmata da Bernard Herrmann, musicista fra i preferiti del maestro Alfred Hitchcock, che Truffaut cita e omaggia in quasi ogni scena. La loro personale amicizia, nata da un’intervista che il cineasta francese gli fece per poi scrivere lo splendido “Il cinema secondo Hitchcock”, è parte integrante della storia del cinema.

Julie Christie offre una performance memorabile, incarnando sia Clarisse, l’elemento di disturbo che accende la scintilla del dubbio in Montag, sia Linda, la moglie apatica e sottomessa al sistema. Questo doppio ruolo non solo dimostra la versatilità dell’attrice, ma rafforza il contrasto tra la vita che Montag desidera e quella a cui è stato condannato.

La scelta di Truffaut di adattare “Fahrenheit 451” di Bradbury può apparire paradossale per un regista che ha costruito la sua carriera su storie intime e umane. Tuttavia, è proprio questa distanza dall’opera originale che permette a Truffaut di esplorare nuovi territori cinematografici, pur mantenendo la sua sensibilità poetica. Non è un film di fantascienza nel senso convenzionale del termine, ma piuttosto una riflessione sull’alienazione, sull’individualismo e sulla resistenza all’omologazione.

Ma sopratutto “Fahrenheit 451” è un inno immortale alla lettura e all’amore per i libri, libri che per lo stesso Truffaut furono, durante la sua difficile adolescenza, l’unico vero punto fermo e faro illuminante. Le semplificazioni narrative rispetto al romanzo di Bradbury non sono mancanze, ma scelte consapevoli che orientano il film verso una dimensione più simbolica che didascalica.

Se il ritmo del film può risultare lento per alcuni, questa lentezza è funzionale alla costruzione di un’atmosfera di crescente oppressione e disagio. Truffaut non cerca di catturare lo spettatore con effetti speciali o colpi di scena, ma lo invita a immergersi in un mondo in cui l’assenza di cultura diventa la vera minaccia, più inquietante di qualsiasi mostro fantascientifico.

In definitiva, “Fahrenheit 451” non è solo un adattamento di un romanzo celebre, ma un’opera d’arte a sé stante, che porta l’impronta inconfondibile del grande cineasta francese. Un film che sfida il pubblico a interrogarsi sul valore della cultura e della libertà in un’epoca di crescente conformismo. Truffaut dimostra che la fantascienza, nelle mani giuste, può essere uno strumento potente per esplorare le profondità dell’animo umano e per denunciare le derive della società contemporanea.

“Fahrenheit 451” è un film che va visto, non solo per la sua bellezza visiva o per le interpretazioni dei suoi attori, ma perché ci ricorda quanto sia importante difendere il diritto di pensare, di leggere, di sapere. Truffaut ci consegna un monito potente, un invito a non spegnere mai quella scintilla di curiosità e ribellione che ci rende veramente umani, un monito mai obsoleto e oggi, drammaticamente, tanto attuale.

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“Senza pelle” di Alessandro D’Alatri

(Italia, 1994)

Negli anni ’90 il cinema italiano ha prodotto piccoli capolavori che, purtroppo, non hanno ricevuto l’attenzione che meritavano. Tra questi c’è “Senza pelle“, un film che dimostra ancora una volta la maestria di Alessandro D’Alatri nel raccontare le sfumature dell’animo umano. Il regista, che scrive anche la sceneggiatura per la quale vince il David di Donatello, affronta il tema della diversità, della fragilità mentale e della solitudine in un contesto che oscilla tra il quotidiano e l’intimo, grazie anche a un cast di interpreti davvero eccezionali.

La storia ruota intorno a Gina (Anna Galiena, che per questa interpretazione vince il Golden Globe assegnato nel nostro Paese), compagna di Riccardo, un pacifico autista di autobus metropolitani che ha il volto di Massimo Ghini, con il quale ha un bambino di pochi anni. La loro esistenza, apparentemente ordinaria, viene stravolta dall’arrivo di Saverio (un bravissimo Kim Rossi Stuart), un giovane che vive ai margini della società e della propria stabilità mentale. Saverio, con la sua fragilità, entra ossessivamente nella vita di Gina, mettendo in luce le crepe sottili del suo rapporto col compagno e forse la sua stessa identità.

Il tema della malattia mentale viene trattato con rispetto, senza mai cadere in stereotipi o facili giudizi, e rappresenta il fulcro attorno al quale si sviluppa l’intera narrazione. Il titolo “Senza pelle” allude proprio a questa condizione di vulnerabilità estrema che affligge Saverio e che, in un certo senso, contagia anche gli altri personaggi, costringendoli a confrontarsi con le proprie paure e insicurezze.

Dall’altra parte c’è Gina, una donna che sente addosso il peso della sua invisibilità, sia come compagna che come persona appartenente ad una società che l’ha definitivamente e ipocritamente condannata per avere allacciato una relazione con un uomo sposato, com’era Riccardo quando lo ha conosciuto, e con il quale ha poi voluto avere anche un figlio, cosa per la quale ancora la biasima perfino sua madre.

La sua particolare relazione con Saverio, per quanto complicata e precaria, le dà un senso di esistenza che la vita col compagno forse non riesce più a offrirle. Anna Galiena, con la sua consueta raffinatezza, riesce a donare profondità a un personaggio che potrebbe sembrare superficiale, ma che in realtà non lo è affatto.

Non meno importante è l’ottima interpretazione di Massimo Ghini, che incarna un uomo apparentemente gretto e superficiale, ma che in realtà riesce a capire e amare veramente la sua compagna sostenendola anche nel particolare momento che lei sta vivendo. In piccoli ruoli appaiono anche Luca Zingaretti e Rocco Papaleo. Da ricordare anche il progetto musicale su cui si basa la colonna sonora firmato da Moni Ovadia.

Senza pelle” non è un film per tutti i palati, e forse anche per questo non ha avuto il successo che meritava. Ma proprio per questo è un’opera da riscoprire, capace di rimanere impressa per la sua umanità e la sua struggente dolcezza.

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“Il bacio della donna ragno” di Héctor Babenco

(Brasile/USA, 1985)

Héctor Babenco, con “Il bacio della donna ragno”, ci consegna un’opera di rara intensità emotiva, che travalica i confini del cinema politico per esplorare la condizione umana in tutta la sua complessità. Tratto dall’omonimo romanzo di Manuel Puig – ambientato nell’Argentina sotto la dittatura violenta e sanguinaria di Videla – e scritto per il grande schermo da Leonard Schrader, il film ci immerge nelle angosce e nelle speranze di due prigionieri, offrendo una narrazione che è al contempo intima e universale.

Ambientato in una prigione sudamericana durante un’epoca di repressione politica, il film mette in scena l’incontro tra Luis Molina (uno straordinario William Hurt), un omosessuale incarcerato per immoralità, e Valentín Arregui (Raúl Juliá), un rivoluzionario marxista. Molina, con la sua passione per i melodrammi cinematografici – la cui protagonista è sempre incarnata da Sonia Braga – diventa il narratore di storie che trasportano lui e Valentín lontano dalle mura della prigione. Attraverso questi racconti, Babenco esplora la potenza dell’immaginazione come strumento di evasione e di resistenza.

La regia di Babenco si distingue per la sua capacità di alternare sapientemente momenti di cruda realtà carceraria a sequenze oniriche e stilizzate, in cui le storie raccontate da Molina prendono vita. Questo dualismo conferisce al film una struttura narrativa complessa e affascinante, che cattura l’attenzione dello spettatore dall’inizio alla fine.

La performance di William Hurt è magistrale, meritatamente premiata con l’Oscar e con il Premio della Giuria al Festival di Cannes. L’attore riesce a incarnare con delicatezza e profondità un personaggio intrappolato tra la sua vulnerabilità e la sua forza interiore. Raul Julia, nel ruolo di Valentín, offre una prova altrettanto potente, rendendo palpabile la tensione tra il suo impegno politico e il legame che si sviluppa con Molina.

Uno degli elementi più riusciti del film è la colonna sonora, composta da John Neschling. La musica non è solo un accompagnamento, ma diventa un vero e proprio personaggio, capace di amplificare le emozioni e di sottolineare i momenti più significativi della narrazione.

“Il bacio della donna ragno” non è semplicemente un film sulla prigionia fisica, ma una riflessione profonda sulla libertà interiore e sulla capacità dell’essere umano di trovare consolazione nell’arte e nell’immaginazione. La pellicola invita lo spettatore a interrogarsi sui limiti e sulle possibilità della mente umana, offrendo uno spaccato di straordinaria intensità sul potere delle storie e quindi anche sul cinema stesso.

In conclusione, Héctor Babenco realizza un film che riesce a essere allo stesso tempo politico e poetico, un’opera che resta impressa nella memoria per la sua forza visiva ed emotiva. “Il bacio della donna ragno” è un capolavoro che merita di essere riscoperto e apprezzato per la sua capacità di parlare all’anima dello spettatore, ricordandoci il potere liberatorio dell’arte, quella vera.

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“Johnny Stecchino” di Roberto Benigni

(Italia, 1991)

Scritta insieme a Vincenzo Cerami, diretta e interpretata da Roberto Benigni, questa pellicola è una commedia che incarna perfettamente lo spirito irriverente e geniale del suo creatore. Con la sua consueta maestria, il cineasta toscano confeziona una storia che mescola satira, umorismo surreale e critica sociale, regalando al pubblico un film che diverte e fa riflettere, anche a distanza di decenni.

La trama ruota attorno a Dante, un ingenuo e bonario autista di scuolabus con una straordinaria somiglianza a Johnny Stecchino, un boss mafioso “pentito” e in fuga. La doppia identità di Dante lo trascina in una serie di situazioni esilaranti e pericolose, creando un vortice di equivoci che rappresenta il cuore comico del film.

Benigni, nella doppia veste di regista e protagonista, brilla con la sua interpretazione di Dante, caratterizzato da una dolce ingenuità e una comicità fisica che ricordano i grandi maestri del passato, come Charlie Chaplin, Buster Keaton e Groucho Marx (quest’ultimo dichiaratamente citato nella sequenza del falso specchio nella credenza in cucina, che richiama quella straordinaria interpretata da Groucho e suo fratello Harpo Marx ne “La guerra lampo dei fratelli Marx” del 1933). La sua capacità di passare dall’umorismo slapstick a momenti di sottile satira sociale è ciò che rende “Johnny Stecchino” un’opera unica nel panorama cinematografico italiano.

Accanto a Benigni, troviamo Nicoletta Braschi nel ruolo di Maria, la donna che architetta il piano per salvare il vero Johnny Stecchino utilizzando Dante come esca. La chimica tra Benigni e Braschi, non solo sullo schermo ma anche nella vita reale, aggiunge una dimensione di autenticità e tenerezza alla loro interazione.

Il film è ricco di scene memorabili e battute che sono entrate nell’immaginario collettivo italiano, come il famoso monologo di Dante sul “problema” che affligge Palermo e la Sicilia (ma la parola “mafia” non viene mai pronunciata), quello del costo delle banane nella città siciliana, o la sequenza in cui lui imita una scimmia. Ma oltre alla commedia, “Johnny Stecchino” offre anche una critica non troppo sottile alla società italiana dell’epoca, in particolare ai temi della criminalità organizzata e della corruzione. Benigni utilizza l’umorismo come strumento per denunciare e riflettere su queste problematiche, senza mai perdere di vista l’intrattenimento.

La colonna sonora di Evan Lurie accompagna perfettamente le vicende del film, sottolineando i momenti comici e quelli più riflessivi con un tocco musicale che arricchisce ulteriormente l’atmosfera surreale della pellicola.

“Johnny Stecchino” è un film che ha saputo conquistare il pubblico con la sua comicità irresistibile e il suo messaggio profondo, dimostrando ancora una volta il talento e la versatilità di Roberto Benigni come attore, regista e sceneggiatore. È una commedia che, a distanza di anni, continua a far ridere e a far pensare, confermandosi come un classico del cinema italiano.

Ridere non vuol dire necessariamente non pensare. La lungimiranza e l’avanguardia di Benigni e Cerami nello scrivere la sceneggiatura è la Storia che ce le conferma: solo qualche mese dopo l’uscita nelle nostre sale del film, il 23 maggio del 1992, cinquanta metri dell’autostrada che collega Palermo all’aeroporto di Punta Raisi, arteria viaria che appare più di una volta nel film, vennero fatti saltare in aria da Cosa nostra per uccidere il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta: Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.

Il 19 luglio dello stesso anno, in via D’Amelio, una Fiat 126 ricolma di tritolo venne fatta esplodere uccidendo il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

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“L’occhio che uccide” di Michael Powell

(UK, 1960)

In una carriera costellata di capolavori, Michael Powell, nel 1960 raggiunge una vetta assoluta con “L’occhio che uccide” – il cui titolo originale è “Peeping Tom”, che si può tradurre col termine “guardone” – un film che ha suscitato sdegno e disapprovazione alla sua uscita, ma che oggi possiamo ammirare come una straordinaria opera di avanguardia e introspezione psicologica. Questa pellicola, al pari delle opere di Alfred Hitchcock, sfida e ridefinisce i confini del thriller e dell’horror.

La narrazione segue Mark Lewis, interpretato con gelida precisione da Karlheinz Böhm, un cameraman ossessionato dall’idea di catturare il terrore puro. Armato di una cinepresa modificata con una lama nascosta, Mark filma i suoi omicidi, trasformando la morte in un’arte visiva. La cinepresa non è solo un mezzo per documentare, ma diventa un’estensione della sua psiche disturbata, una finestra sulla sua anima tormentata.

Powell, maestro nel manipolare il linguaggio cinematografico, ci costringe a diventare complici di Mark, immergendoci nel suo punto di vista distorto. L’uso della soggettiva, l’intensità dei colori e l’illuminazione espressionista creano un’atmosfera di costante tensione, un’esperienza visiva che non permette distrazioni o distacco emotivo. La cinepresa, nelle mani di Powell, diventa uno strumento di introspezione e, al contempo, di condanna.

La tematica del voyeurismo, già esplorata in maniera sublime dallo stesso Hitchcock in “La finestra sul cortile” del 1954, trova qui una rappresentazione ancora più diretta e inquietante. “L’occhio che uccide” non solo ci fa osservare, ma ci interroga sul nostro stesso desiderio di guardare, mettendo a nudo la nostra complicità nel consumo visivo della sofferenza altrui. Questo gioco metacinematografico è condotto con una precisione chirurgica, rivelando la natura predatoria dello sguardo cinematografico.

La performance di Karlheinz Böhm è fondamentale nell’alchimia del film. Il suo Mark Lewis è un personaggio di grande complessità, che evoca al tempo stesso profonda compassione e grande repulsione. Böhm riesce a catturare le sfumature di un uomo intrappolato tra il trauma della sua infanzia funestata dal padre, e la sua ossessione per la paura. Anche Anna Massey, nel ruolo di Helen, offre un’interpretazione di grande sensibilità, rappresentando una luce di speranza nell’oscurità che avvolge inesorabilmente Mark.

Alla sua uscita, “L’occhio che uccide” fu frainteso e aspramente criticato, ma oggi emerge come un’opera visionaria che anticipa temi e stili che diventeranno centrali nel cinema degli anni successivi. Powell ci offre un’esplorazione coraggiosa e senza compromessi della psiche umana, realizzando un film che è al contempo un thriller avvincente e una profonda riflessione sull’atto stesso del guardare, che è l’essenza stessa del cinema.

Questa pellicola merita di essere riscoperta e celebrata, perché è un’opera che sfida le convenzioni e invita lo spettatore a un confronto diretto con i propri demoni interiori, e Powell è un maestro nel manipolare la luce e il colore per creare un’atmosfera di crescente tensione.

Ogni inquadratura è studiata per mettere a disagio lo spettatore, per farlo sentire intrappolato nello stesso incubo di Mark. È un film che non si limita a mostrare il terrore, ma lo fa sentire, lo fa vivere sulla pelle. Michael Powell – che non a caso sceglie di impersonare il padre aguzzino del piccolo Mark – dimostra ancora una volta di essere un maestro del cinema, capace di spingersi oltre i limiti e di esplorare territori inesplorati con una visione artistica unica e inimitabile.

Se avete il coraggio di affrontare le vostre paure, questo è un film che non potete perdere. Ma ricordate: una volta che avrete guardato nell’abisso, come dice Nietzsche, l’abisso potrebbe iniziare a guardare voi…

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“Perfect Days” di Wim Wenders

(Giappone, 2023)

Con “Perfect Days”, Wim Wenders ci consegna un’opera che sembra distillata dall’essenza stessa del suo cinema: la capacità di catturare la bellezza della vita quotidiana con uno sguardo delicato e profondamente umano. In un’epoca cinematografica dominata dalla velocità e dal rumore, Wenders ci invita a rallentare, a soffermarci sui dettagli più minuti, sulle pieghe del tempo che si srotola in silenzio, offrendo uno sguardo inedito su Tokyo e sui suoi abitanti.

Il protagonista, Hirayama (interpretato magistralmente da Koji Yakusho), è un uomo che ha fatto della semplicità il suo regno. Addetto alla pulizia dei bagni pubblici della città, vive in un appartamento spartano, arredato con pochi, essenziali oggetti. La sua vita è scandita da rituali quotidiani: la cura delle piante, la lettura di libri, l’ascolto di musica su audiocassette. Wenders, con una regia che si fa discreta, quasi invisibile, trasforma questi gesti ordinari in momenti di contemplazione poetica.

“Perfect Days” – la cui sceneggiatura è firmata da Takuma Takasaki oltre che dallo stesso Wenders – non è un film che racconta una storia nel senso tradizionale del termine. Non c’è un conflitto centrale, non ci sono svolte narrative drammatiche. Eppure, c’è una profondità emotiva che si costruisce progressivamente, strato dopo strato, come una fotografia sviluppata lentamente. Wenders ci conduce in un viaggio intimo attraverso le giornate di Hirayama, dove ogni incontro, ogni scambio di sguardi, ogni suono della città diventa parte di un mosaico più grande, un ritratto di un uomo che ha trovato una sua forma di serenità.

La Tokyo di Wenders è lontana anni luce dalle rappresentazioni iperattive e futuristiche a cui siamo abituati. Qui, la città diventa uno spazio di quiete, di riflessione, quasi un personaggio a sé stante, con i suoi angoli nascosti e le sue strade secondarie che sembrano condurre fuori dal tempo, proprio come quella della serie “Midnight Diner – Tokyo Stories”. La fotografia limpida e cristallina curata da Franz Lustig, enfatizza questa dimensione sospesa, restituendo una Tokyo che è al contempo reale e trasfigurata, uno spazio in cui il tempo sembra rallentare per permettere allo spettatore di cogliere ogni sfumatura, ogni dettaglio.

In “Perfect Days”, Wenders riesce a toccare corde profonde senza mai ricorrere a facili sentimentalismi. Il film si costruisce attraverso un minimalismo narrativo che diventa il suo punto di forza. Ogni scena è un frammento di vita, un tassello che si inserisce in un mosaico più grande, quello della ricerca della bellezza nel quotidiano. Hirayama è un eroe del nostro tempo, un uomo che, nel suo silenzio, riesce a trovare una connessione profonda con il mondo che lo circonda, ricordandoci che la felicità non risiede negli eventi straordinari, ma nella capacità di apprezzare i piccoli momenti di cui è fatta la vita.

Wenders non ha paura di lasciare spazio al silenzio, di lasciare che siano i volti, gli sguardi, i movimenti lenti dei personaggi a raccontare la storia. È un cinema che richiede attenzione, che chiede allo spettatore di lasciarsi trasportare in un flusso di immagini e suoni che, pur nella loro apparente semplicità, costruiscono una narrazione ricca di sfumature.

Con “Perfect Days”, Wim Wenders ci consegna un’opera che è al tempo stesso un atto di resistenza e un omaggio all’essenzialità. È un film che parla di un mondo in cui il tempo è tornato ad avere un valore, in cui la bellezza si trova negli atti più semplici, nella ripetizione dei gesti quotidiani. Un’opera che, in definitiva, ci invita a riscoprire la poesia della vita ordinaria, facendoci sentire, almeno per un momento, parte di qualcosa di più grande, di più profondo.

Wenders, con la sua consueta maestria, ci ricorda che il cinema, come la vita, non ha bisogno di essere urlato per essere ascoltato. Basta saper guardare, saper ascoltare, per trovare in ogni giornata un “perfect day”.

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“Le ali della libertà” di Frank Darabont

(USA, 1994)

Devo essere onesto: mi sono sempre tenuto a distanza dai film che promettono di essere edificanti o, peggio ancora, “di grande ispirazione”. Troppo spesso, questo tipo di pellicole si rivelano moraliste, ricattatorie, o addirittura melense. Ma poi, arriva “Le ali della libertà” (“The Shawshank Redemption”), diretto da Frank Darabont, che con un colpo magistrale riesce a sfuggire a tutte queste trappole, consegnandoci un film che, pur toccando corde profondamente umane, non scade mai nel facile sentimentalismo.

Il film, non a caso tratto dal racconto del Re Stephen King “Rita Heyworth e la redenzione del carcere di Shawshank” (contenuto nella mirabile raccolta “Stagioni diverse” del 1982, che annovera anche “The Body” da cui Rob Reiner ha tratto “Stand By Me – Ricordo di un’estate” e “L’allievo” dal quale Bryan Singer si è ispirato per il suo omonimo film interpretato da un agghiacciante Ian McKellen), si concentra sulla storia di Andy Dufresne (un Tim Robbins davvero in stato di grazia), vice presidente di banca condannato ingiustamente per l’omicidio della moglie e del suo amante.

Da qui ci si potrebbe aspettare un dramma giudiziario o una classica storia di vendetta. E invece no. “Le ali della libertà” sceglie un’altra strada, più sottile, più lenta, ma anche più incisiva. La prigione di Shawshank, che in qualsiasi altro film sarebbe semplicemente lo sfondo di una vicenda di soprusi e violenza, qui diventa un luogo di crescita, un campo di battaglia per l’anima.

Darabont, alla sua prima prova da regista, ha la saggezza di non forzare mai la mano. La sua regia è discreta, rispettosa dei tempi e degli spazi emotivi dei personaggi. La vera forza del film risiede nei piccoli dettagli: lo sguardo sperduto di Andy all’inizio della sua detenzione, l’amicizia che lentamente si costruisce tra lui e Red (un monumentale Morgan Freeman), e il modo in cui la speranza si insinua, quasi furtivamente, tra le crepe della disperazione.

Uno dei temi portanti del film è la libertà. Non quella fisica, che è negata a tutti i detenuti di Shawshank, ma quella mentale, interiore. Andy, pur rinchiuso tra le mura spesse della prigione, riesce a mantenere viva la fiamma della sua dignità e del suo spirito. E lo fa attraverso gesti che sembrano insignificanti: un piccolo sasso scolpito, un vinile delle “Nozze di Figaro” di Wolfgang Amadeus Mozart fatto suonare ad alto volume per tutti i carcerati, una biblioteca costruita con pazienza e determinazione. Sono questi gesti che, alla fine, si rivelano rivoluzionari.

La forza del film sta anche nella sua capacità di non cedere mai alla retorica. Anche nei momenti più toccanti, Darabont – autore pure della sceneggiatura – mantiene un equilibrio narrativo che impedisce al racconto di scivolare nel patetico. Questo equilibrio è amplificato dalla splendida fotografia di Roger Deakins, che sa essere tanto claustrofobica quanto ariosa, con i suoi giochi di luce e ombra che sembrano commentare la condizione esistenziale dei personaggi.

E poi c’è il finale. Non lo svelo per chi non avesse ancora visto il film, ma posso dire che è uno di quei finali che ti lasciano con un nodo alla gola e un senso di catarsi. Non perché sia sorprendente o pieno di colpi di scena, ma perché è onesto, autentico. Un finale che rende giustizia a tutto ciò che è venuto prima, e che ci ricorda che la speranza, quella vera, non è mai ingenua o facile, ma nasce dalla sofferenza e dalla resistenza.

Le ali della libertà” non è un film perfetto, ma è un film necessario. Un’opera che parla della capacità dell’animo umano di resistere, di trovare luce anche nell’oscurità più profonda, e di spiccare il volo quando tutto sembra perduto. In un mondo in cui spesso siamo prigionieri di noi stessi e delle nostre paure, questo film ci ricorda che la libertà, quella vera, inizia e finisce nella nostra mente.

Quindi, se non lo avete ancora fatto, prendetevi due ore e mezza, e lasciatevi trasportare a Shawshank. Potreste scoprire che, in fondo, le ali della libertà sono già dentro di voi.

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“Sotto il vulcano” di John Huston

(USA/Messico, 1984)

Diretto dal leggendario John Huston e uscito nelle sale nel 1984, questo film è l’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo “Sotto il vulcano” di Malcolm Lowry, uno dei testi più complessi e affascinanti del XX secolo. Huston, con la sua consueta maestria, riesce a catturare l’essenza della storia, trasportando sul grande schermo la tormentata esistenza del protagonista Geoffrey Firmin e la vibrante atmosfera del Messico degli anni ’30, sull’orlo del baratro della Seconda Guerra Mondiale.

La trama del film segue fedelmente il romanzo, concentrandosi su una singola, fatidica giornata: il Giorno dei Morti del 1938, nella città di Quauhnahuac. Geoffrey Firmin, interpretato magistralmente da Albert Finney, è un ex console britannico in rovina, divorato dall’alcolismo e dai rimorsi. La sua discesa nell’abisso è rappresentata con una tale intensità che lo spettatore non può che sentirsi trascinato nella spirale autodistruttiva del protagonista.

Accanto a Geoffrey, troviamo sua moglie Yvonne (Jacqueline Bisset) che, dopo il divorzio, torna a Quauhnahuac con la speranza di salvarlo, e suo fratellastro Hugh (Anthony Andrews), un giornalista idealista, appena tornato dalla Spagna, dove ha combattuto vanamente contro i militari di Franco. Le dinamiche tra i tre personaggi si sviluppano sullo sfondo di un Messico reso con un realismo quasi tangibile, grazie alla straordinaria fotografia di Gabriel Figueroa, che cattura superbamente la bellezza e la brutalità del paesaggio messicano.

Figueroa, direttore della fotografia preferito dal cineasta messicano Emilio Fernández, autore di numerose pellicole a partire dagli anni Cinquanta, collabora con Huston grazie soprattutto all’amicizia personale fra Fernández e lo stesso cineasta americano. Non è un caso quindi se Huston, in questo film, affida allo stesso Fernández la parte del proprietario di galli da combattimento che apre la sequenza finale.

Il film riesce a mantenere la complessità emotiva del romanzo, esplorando temi come la disperazione, la redenzione, la solitudine e la comunione. Huston, con il suo tocco inconfondibile, infonde nella pellicola una serie di simboli e riferimenti che arricchiscono la narrazione, proprio come Lowry fa nel suo romanzo. La struttura del film, sebbene più lineare rispetto alla prosa frammentaria di Lowry, riflette comunque il caos interiore di Geoffrey, portando lo spettatore in un viaggio onirico attraverso la sua psiche tormentata.

Uno degli aspetti più sorprendenti del film è la sua capacità di trasmettere la stessa sensazione di inesorabile discesa verso l’abisso che si prova leggendo il romanzo. La regia di Huston è a tratti ipnotica, immergendo lo spettatore nelle profondità della mente del console, dove il confine tra realtà e allucinazione si fa sempre più labile.

“Sotto il vulcano” di John Huston non è solo una storia di autodistruzione, ma anche una meditazione sull’amore e la perdita, sul senso di colpa e sulla possibilità di redenzione. È un film che sfida e coinvolge, richiedendo allo spettatore un impegno totale per essere pienamente compreso e apprezzato, proprio come il romanzo da cui è tratto.

Attraverso la figura tragica di Geoffrey Firmin, Huston, seguendo le orme di Lowry, ci offre uno specchio in cui riflettere sulle nostre stesse paure e debolezze, ricordandoci quanto sia fragile l’equilibrio tra l’ordine e il caos nella vita di ciascuno di noi. “Sotto il vulcano” è, senza dubbio, un capolavoro cinematografico che continua a risuonare con forza nel cuore di chiunque abbia il coraggio di immergersi nelle sue profondità. E pensare che per decenni il romanzo di Lowry è stato considerato “infilmabile”.

Sono passati quarant’anni dall’uscita di questa pellicola nelle sale cinematografiche di tutto il mondo ma, per comprendere al meglio la modernità e la contemporaneità del genio di Huston, basta osservare quanto l’umanità sia oggi ancora davanti ad un baratro.

“Se succede qualcosa, vi voglio bene” di Michael Govier e Will McCormack

(USA, 2020)

Questo cortometraggio animato, il cui titolo originale è “If Anything Happens I Love You”, rappresenta una pietra miliare nell’animazione contemporanea, un’opera di rara intensità che esplora il dolore della perdita terrificante con una delicatezza squisita. In un panorama cinematografico spesso dominato dalla verbosità, questo film si distingue per l’uso magistrale del silenzio, lasciando che le immagini e le suggestioni visive parlino al cuore dello spettatore.

L’animazione minimalista, che ricorda le linee essenziali e stilizzate dell’arte orientale, serve non solo come veicolo estetico ma come potente strumento narrativo. Le ombre che accompagnano i genitori, protagonisti silenziosi e disperati, incarnano i loro pensieri inespressi, il loro rimpianto, e l’amore che, pur nella sofferenza, continua a legarli. Queste figure evanescenti, quasi spettrali, trasformano la casa in un luogo di memorie in cui il tempo sembra essersi fermato, cristallizzando un momento di irrevocabile perdita.

Govier e McCormack, con un tocco che richiama l’eleganza sobria di registi come Ozu o Bresson, evitano il rischio del melodramma e scelgono una narrazione visiva che si concentra sull’essenziale. Una scelta che risuona fragorosamente, specialmente in scene chiave come quella del disegno ritrovato, simbolo di una felicità irrimediabilmente spezzata, ma mai dimenticata. La forza del cortometraggio risiede proprio in questa capacità di evocare emozioni autentiche e universali, senza ricorrere a facili soluzioni narrative.

“Se succede qualcosa, vi voglio bene” non è solo un racconto di dolore, ma un inno alla resilienza umana, alla capacità di trovare speranza anche nelle circostanze più buie e tragiche, come quella di due genitori che sono sopravvissuti alla loro giovane figlia appena adolescente, perita in una sparatoria scolastica. È un’opera che, pur nella sua brevità, offre una riflessione profonda sul significato della perdita e sull’importanza della memoria, temi cari a molto del cinema d’autore.

Questo cortometraggio ha meritatamente vinto l’Oscar per il Miglior Cortometraggio d’Animazione, riconoscimento che celebra non solo la qualità tecnica e artistica del film, ma anche la sua capacità di comunicare in modo diretto e senza mediazioni con il pubblico.

Un’opera da vedere e rivedere, capace di restare impressa nella mente e nel cuore di chi la guarda.

“Egli camminava nella notte” di Alfred L. Werker

(USA, 1948)

Alfred L. Werker, con la collaborazione non accreditata di Anthony Mann, ci consegna un capolavoro del cinema noir con “Egli camminava nella notte”. Basato su una storia vera, il film esplora le oscure profondità di Los Angeles attraverso l’indagine di un omicidio che si trasforma in una caccia all’uomo, incarnata nella figura di Roy Morgan, interpretato con glaciale intensità da Richard Basehart.

La pellicola è un esempio sublime di cinema noir, dove la maestria di John Alton nella direzione della fotografia gioca un ruolo cruciale. Le sue inquadrature, caratterizzate da forti contrasti tra luci e ombre, non solo amplificano la tensione narrativa ma anche simbolizzano la dualità morale dei personaggi e l’oscurità della metropoli americana. Alton riesce a fare di Los Angeles non solo uno sfondo, ma un vero e proprio protagonista del film, un labirinto di strade e vicoli che riflette l’angoscia e l’alienazione dei suoi abitanti.

La narrazione è tesa, quasi documentaristica, evidenziando una cruda autenticità che era innovativa per l’epoca. Questo approccio è esemplificato nella rappresentazione dei poliziotti, in particolare del detective Marty Brennan, interpretato da Scott Brady. La sceneggiatura non risparmia dettagli nel dipingere i dubbi e le pressioni a cui sono sottoposti, un aspetto che arricchisce il film di una profondità psicologica rara.

Scritto da Crane Wilbur, John C. Higgins e Harry Essex (che qualche anno dopo parteciperà alla stesura della sceneggiatura de “Il mostro della laguna nera” di Jack Arnold), alla sua uscita, “Egli camminava nella notte” non ricevette l’attenzione che meritava, forse a causa del suo realismo e della sua rappresentazione disincantata della giustizia. Di fatto Werker e Mann firmano l’antesignano del genere true crime che molto successo avrà nei decenni successivi. Ancora oggi lascia affascinati la creazione del primo vero identikit dell’assassino che viene fatto dalla Polizia in collaborazione con alcuni testimoni.

Tuttavia, come accade spesso nel mondo del cinema, il tempo ha saputo fare giustizia, rivalutando questa opera come un punto di riferimento del genere noir. Le sequenze ambientate nei sotterranei di Los Angeles, in particolare, sono divenute iconiche, influenzando generazioni di cineasti e critici.

È proprio questa capacità di fondere tecnica cinematografica e narrazione che rende “Egli camminava nella notte” un film imprescindibile per ogni appassionato di cinema. Werker e Mann, con la loro regia incisiva e la visione chiara, ci ricordano che il noir non è solo un genere, ma un mezzo per esplorare le complessità dell’animo umano e le ambiguità della società moderna.

In sintesi, “Egli camminava nella notte” rappresenta un momento di grazia nella storia del cinema, un’opera che merita di essere studiata e apprezzata, non solo per la sua importanza storica, ma per la sua capacità di parlare al cuore delle tenebre che ognuno di noi nasconde.

Per la chicca: nel 1950, quando questa pellicola approdò nelle nostre sale, Ennio Flaiano ne scrisse una critica e parlando molto del suo attore protagonista. Solo pochi anni dopo dopo, nel 1954, Federico Fellini dirigerà il capolavoro assoluto “La strada“, scritto assieme allo stesso Flaiano e a Tullio Pinelli, dove uno dei tre personaggi principali verrà interpretato non a caso da Basehart.

Per comprendere al meglio l’impatto che questo film ha avuto nella cultura americana, e non solo, basta ricordare che Jack Webb, che ha la piccola e marginale parte dell’addetto della “Scientifica” del Dipartimento, pochi anni dopo creerà e interpreterà la serie televisiva “Dragnet”, proprio incentrata sui true crime consumatisi a Los Angeles, che riscosse un successo decennale.