“Le ali della libertà” di Frank Darabont

(USA, 1994)

Devo essere onesto: mi sono sempre tenuto a distanza dai film che promettono di essere edificanti o, peggio ancora, “di grande ispirazione”. Troppo spesso, questo tipo di pellicole si rivelano moraliste, ricattatorie, o addirittura melense. Ma poi, arriva “Le ali della libertà” (“The Shawshank Redemption”), diretto da Frank Darabont, che con un colpo magistrale riesce a sfuggire a tutte queste trappole, consegnandoci un film che, pur toccando corde profondamente umane, non scade mai nel facile sentimentalismo.

Il film, non a caso tratto dal racconto del Re Stephen King “Rita Heyworth e la redenzione del carcere di Shawshank” (contenuto nella mirabile raccolta “Stagioni diverse” del 1982, che annovera anche “The Body” da cui Rob Reiner ha tratto “Stand By Me – Ricordo di un’estate” e “L’allievo” dal quale Bryan Singer si è ispirato per il suo omonimo film interpretato da un agghiacciante Ian McKellen), si concentra sulla storia di Andy Dufresne (un Tim Robbins davvero in stato di grazia), vice presidente di banca condannato ingiustamente per l’omicidio della moglie e del suo amante.

Da qui ci si potrebbe aspettare un dramma giudiziario o una classica storia di vendetta. E invece no. “Le ali della libertà” sceglie un’altra strada, più sottile, più lenta, ma anche più incisiva. La prigione di Shawshank, che in qualsiasi altro film sarebbe semplicemente lo sfondo di una vicenda di soprusi e violenza, qui diventa un luogo di crescita, un campo di battaglia per l’anima.

Darabont, alla sua prima prova da regista, ha la saggezza di non forzare mai la mano. La sua regia è discreta, rispettosa dei tempi e degli spazi emotivi dei personaggi. La vera forza del film risiede nei piccoli dettagli: lo sguardo sperduto di Andy all’inizio della sua detenzione, l’amicizia che lentamente si costruisce tra lui e Red (un monumentale Morgan Freeman), e il modo in cui la speranza si insinua, quasi furtivamente, tra le crepe della disperazione.

Uno dei temi portanti del film è la libertà. Non quella fisica, che è negata a tutti i detenuti di Shawshank, ma quella mentale, interiore. Andy, pur rinchiuso tra le mura spesse della prigione, riesce a mantenere viva la fiamma della sua dignità e del suo spirito. E lo fa attraverso gesti che sembrano insignificanti: un piccolo sasso scolpito, un vinile delle “Nozze di Figaro” di Wolfgang Amadeus Mozart fatto suonare ad alto volume per tutti i carcerati, una biblioteca costruita con pazienza e determinazione. Sono questi gesti che, alla fine, si rivelano rivoluzionari.

La forza del film sta anche nella sua capacità di non cedere mai alla retorica. Anche nei momenti più toccanti, Darabont – autore pure della sceneggiatura – mantiene un equilibrio narrativo che impedisce al racconto di scivolare nel patetico. Questo equilibrio è amplificato dalla splendida fotografia di Roger Deakins, che sa essere tanto claustrofobica quanto ariosa, con i suoi giochi di luce e ombra che sembrano commentare la condizione esistenziale dei personaggi.

E poi c’è il finale. Non lo svelo per chi non avesse ancora visto il film, ma posso dire che è uno di quei finali che ti lasciano con un nodo alla gola e un senso di catarsi. Non perché sia sorprendente o pieno di colpi di scena, ma perché è onesto, autentico. Un finale che rende giustizia a tutto ciò che è venuto prima, e che ci ricorda che la speranza, quella vera, non è mai ingenua o facile, ma nasce dalla sofferenza e dalla resistenza.

Le ali della libertà” non è un film perfetto, ma è un film necessario. Un’opera che parla della capacità dell’animo umano di resistere, di trovare luce anche nell’oscurità più profonda, e di spiccare il volo quando tutto sembra perduto. In un mondo in cui spesso siamo prigionieri di noi stessi e delle nostre paure, questo film ci ricorda che la libertà, quella vera, inizia e finisce nella nostra mente.

Quindi, se non lo avete ancora fatto, prendetevi due ore e mezza, e lasciatevi trasportare a Shawshank. Potreste scoprire che, in fondo, le ali della libertà sono già dentro di voi.

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“Sotto il vulcano” di John Huston

(USA/Messico, 1984)

Diretto dal leggendario John Huston e uscito nelle sale nel 1984, questo film è l’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo “Sotto il vulcano” di Malcolm Lowry, uno dei testi più complessi e affascinanti del XX secolo. Huston, con la sua consueta maestria, riesce a catturare l’essenza della storia, trasportando sul grande schermo la tormentata esistenza del protagonista Geoffrey Firmin e la vibrante atmosfera del Messico degli anni ’30, sull’orlo del baratro della Seconda Guerra Mondiale.

La trama del film segue fedelmente il romanzo, concentrandosi su una singola, fatidica giornata: il Giorno dei Morti del 1938, nella città di Quauhnahuac. Geoffrey Firmin, interpretato magistralmente da Albert Finney, è un ex console britannico in rovina, divorato dall’alcolismo e dai rimorsi. La sua discesa nell’abisso è rappresentata con una tale intensità che lo spettatore non può che sentirsi trascinato nella spirale autodistruttiva del protagonista.

Accanto a Geoffrey, troviamo sua moglie Yvonne (Jacqueline Bisset) che, dopo il divorzio, torna a Quauhnahuac con la speranza di salvarlo, e suo fratellastro Hugh (Anthony Andrews), un giornalista idealista, appena tornato dalla Spagna, dove ha combattuto vanamente contro i militari di Franco. Le dinamiche tra i tre personaggi si sviluppano sullo sfondo di un Messico reso con un realismo quasi tangibile, grazie alla straordinaria fotografia di Gabriel Figueroa, che cattura superbamente la bellezza e la brutalità del paesaggio messicano.

Figueroa, direttore della fotografia preferito dal cineasta messicano Emilio Fernández, autore di numerose pellicole a partire dagli anni Cinquanta, collabora con Huston grazie soprattutto all’amicizia personale fra Fernández e lo stesso cineasta americano. Non è un caso quindi se Huston, in questo film, affida allo stesso Fernández la parte del proprietario di galli da combattimento che apre la sequenza finale.

Il film riesce a mantenere la complessità emotiva del romanzo, esplorando temi come la disperazione, la redenzione, la solitudine e la comunione. Huston, con il suo tocco inconfondibile, infonde nella pellicola una serie di simboli e riferimenti che arricchiscono la narrazione, proprio come Lowry fa nel suo romanzo. La struttura del film, sebbene più lineare rispetto alla prosa frammentaria di Lowry, riflette comunque il caos interiore di Geoffrey, portando lo spettatore in un viaggio onirico attraverso la sua psiche tormentata.

Uno degli aspetti più sorprendenti del film è la sua capacità di trasmettere la stessa sensazione di inesorabile discesa verso l’abisso che si prova leggendo il romanzo. La regia di Huston è a tratti ipnotica, immergendo lo spettatore nelle profondità della mente del console, dove il confine tra realtà e allucinazione si fa sempre più labile.

“Sotto il vulcano” di John Huston non è solo una storia di autodistruzione, ma anche una meditazione sull’amore e la perdita, sul senso di colpa e sulla possibilità di redenzione. È un film che sfida e coinvolge, richiedendo allo spettatore un impegno totale per essere pienamente compreso e apprezzato, proprio come il romanzo da cui è tratto.

Attraverso la figura tragica di Geoffrey Firmin, Huston, seguendo le orme di Lowry, ci offre uno specchio in cui riflettere sulle nostre stesse paure e debolezze, ricordandoci quanto sia fragile l’equilibrio tra l’ordine e il caos nella vita di ciascuno di noi. “Sotto il vulcano” è, senza dubbio, un capolavoro cinematografico che continua a risuonare con forza nel cuore di chiunque abbia il coraggio di immergersi nelle sue profondità. E pensare che per decenni il romanzo di Lowry è stato considerato “infilmabile”.

Sono passati quarant’anni dall’uscita di questa pellicola nelle sale cinematografiche di tutto il mondo ma, per comprendere al meglio la modernità e la contemporaneità del genio di Huston, basta osservare quanto l’umanità sia oggi ancora davanti ad un baratro.

“Se succede qualcosa, vi voglio bene” di Michael Govier e Will McCormack

(USA, 2020)

Questo cortometraggio animato, il cui titolo originale è “If Anything Happens I Love You”, rappresenta una pietra miliare nell’animazione contemporanea, un’opera di rara intensità che esplora il dolore della perdita terrificante con una delicatezza squisita. In un panorama cinematografico spesso dominato dalla verbosità, questo film si distingue per l’uso magistrale del silenzio, lasciando che le immagini e le suggestioni visive parlino al cuore dello spettatore.

L’animazione minimalista, che ricorda le linee essenziali e stilizzate dell’arte orientale, serve non solo come veicolo estetico ma come potente strumento narrativo. Le ombre che accompagnano i genitori, protagonisti silenziosi e disperati, incarnano i loro pensieri inespressi, il loro rimpianto, e l’amore che, pur nella sofferenza, continua a legarli. Queste figure evanescenti, quasi spettrali, trasformano la casa in un luogo di memorie in cui il tempo sembra essersi fermato, cristallizzando un momento di irrevocabile perdita.

Govier e McCormack, con un tocco che richiama l’eleganza sobria di registi come Ozu o Bresson, evitano il rischio del melodramma e scelgono una narrazione visiva che si concentra sull’essenziale. Una scelta che risuona fragorosamente, specialmente in scene chiave come quella del disegno ritrovato, simbolo di una felicità irrimediabilmente spezzata, ma mai dimenticata. La forza del cortometraggio risiede proprio in questa capacità di evocare emozioni autentiche e universali, senza ricorrere a facili soluzioni narrative.

“Se succede qualcosa, vi voglio bene” non è solo un racconto di dolore, ma un inno alla resilienza umana, alla capacità di trovare speranza anche nelle circostanze più buie e tragiche, come quella di due genitori che sono sopravvissuti alla loro giovane figlia appena adolescente, perita in una sparatoria scolastica. È un’opera che, pur nella sua brevità, offre una riflessione profonda sul significato della perdita e sull’importanza della memoria, temi cari a molto del cinema d’autore.

Questo cortometraggio ha meritatamente vinto l’Oscar per il Miglior Cortometraggio d’Animazione, riconoscimento che celebra non solo la qualità tecnica e artistica del film, ma anche la sua capacità di comunicare in modo diretto e senza mediazioni con il pubblico.

Un’opera da vedere e rivedere, capace di restare impressa nella mente e nel cuore di chi la guarda.

“Egli camminava nella notte” di Alfred L. Werker

(USA, 1948)

Alfred L. Werker, con la collaborazione non accreditata di Anthony Mann, ci consegna un capolavoro del cinema noir con “Egli camminava nella notte”. Basato su una storia vera, il film esplora le oscure profondità di Los Angeles attraverso l’indagine di un omicidio che si trasforma in una caccia all’uomo, incarnata nella figura di Roy Morgan, interpretato con glaciale intensità da Richard Basehart.

La pellicola è un esempio sublime di cinema noir, dove la maestria di John Alton nella direzione della fotografia gioca un ruolo cruciale. Le sue inquadrature, caratterizzate da forti contrasti tra luci e ombre, non solo amplificano la tensione narrativa ma anche simbolizzano la dualità morale dei personaggi e l’oscurità della metropoli americana. Alton riesce a fare di Los Angeles non solo uno sfondo, ma un vero e proprio protagonista del film, un labirinto di strade e vicoli che riflette l’angoscia e l’alienazione dei suoi abitanti.

La narrazione è tesa, quasi documentaristica, evidenziando una cruda autenticità che era innovativa per l’epoca. Questo approccio è esemplificato nella rappresentazione dei poliziotti, in particolare del detective Marty Brennan, interpretato da Scott Brady. La sceneggiatura non risparmia dettagli nel dipingere i dubbi e le pressioni a cui sono sottoposti, un aspetto che arricchisce il film di una profondità psicologica rara.

Scritto da Crane Wilbur, John C. Higgins e Harry Essex (che qualche anno dopo parteciperà alla stesura della sceneggiatura de “Il mostro della laguna nera” di Jack Arnold), alla sua uscita, “Egli camminava nella notte” non ricevette l’attenzione che meritava, forse a causa del suo realismo e della sua rappresentazione disincantata della giustizia. Di fatto Werker e Mann firmano l’antesignano del genere true crime che molto successo avrà nei decenni successivi. Ancora oggi lascia affascinati la creazione del primo vero identikit dell’assassino che viene fatto dalla Polizia in collaborazione con alcuni testimoni.

Tuttavia, come accade spesso nel mondo del cinema, il tempo ha saputo fare giustizia, rivalutando questa opera come un punto di riferimento del genere noir. Le sequenze ambientate nei sotterranei di Los Angeles, in particolare, sono divenute iconiche, influenzando generazioni di cineasti e critici.

È proprio questa capacità di fondere tecnica cinematografica e narrazione che rende “Egli camminava nella notte” un film imprescindibile per ogni appassionato di cinema. Werker e Mann, con la loro regia incisiva e la visione chiara, ci ricordano che il noir non è solo un genere, ma un mezzo per esplorare le complessità dell’animo umano e le ambiguità della società moderna.

In sintesi, “Egli camminava nella notte” rappresenta un momento di grazia nella storia del cinema, un’opera che merita di essere studiata e apprezzata, non solo per la sua importanza storica, ma per la sua capacità di parlare al cuore delle tenebre che ognuno di noi nasconde.

Per la chicca: nel 1950, quando questa pellicola approdò nelle nostre sale, Ennio Flaiano ne scrisse una critica e parlando molto del suo attore protagonista. Solo pochi anni dopo dopo, nel 1954, Federico Fellini dirigerà il capolavoro assoluto “La strada“, scritto assieme allo stesso Flaiano e a Tullio Pinelli, dove uno dei tre personaggi principali verrà interpretato non a caso da Basehart.

Per comprendere al meglio l’impatto che questo film ha avuto nella cultura americana, e non solo, basta ricordare che Jack Webb, che ha la piccola e marginale parte dell’addetto della “Scientifica” del Dipartimento, pochi anni dopo creerà e interpreterà la serie televisiva “Dragnet”, proprio incentrata sui true crime consumatisi a Los Angeles, che riscosse un successo decennale.

“Il condominio dei cuori infranti” di Samuel Benchetrit

(Francia, 2015)

Samuel Benchetrit, con “Il condominio dei cuori infranti”, ci consegna una pellicola che sembra sfuggire ai canoni del cinema moderno, per avvicinarsi a un racconto intimista e malinconico, dove il vero protagonista è l’umanità nella sua disarmante quotidianità. Questo film del 2015, tratto dalla prima raccolta di racconti “Cronache dall’asfalto” che lo stesso Benchetrit ha pubblicato nel 2005, è ambientato in un anonimo complesso residenziale parigino e potrebbe sembrare, a prima vista, un’ordinaria esplorazione della vita urbana. Eppure, sotto la superficie, si nasconde una sottile riflessione sul senso di appartenenza e sull’isolamento che caratterizzano la nostra epoca.

Nella trama, fatta di incontri e sguardi incrociati, emergono: il solitario Sterkowitz (Gustave Kervern) che sembra vivere ai margini della società, intrappolato in una routine autoreferenziale e priva di scosse. Con lui, una donna dal passato ingombrante, Jeanne Meyer (interpretata da una bravissima Isabelle Huppert) e il suo giovanissimo dirimpettaio Charly (Jules Benchetrit, figlio dello stesso regista e di Marie Trintignant); un astronauta americano che ha il volto di Michael Pitt, che si trova bloccato sul tetto del condominio e viene ospitato da Hamida (Tassadit Mandi), un’anziana magrebina giunta a Parigi negli anni Sessanta e rimasta sola da quando suo figlio è finito in carcere. E poi c’è l’infermiera (Valeria Bruni Tedeschi) che, nel posto più improbabile, sembra poter illuminare la vita di Sterkowitz.

Questi personaggi, ciascuno con il proprio bagaglio di solitudine e desiderio di connessione, si muovono come ombre nella grande scenografia della vita urbana, cercando, inconsapevolmente, un’uscita dal proprio isolamento.

Benchetrit ci offre una regia che è allo stesso tempo attenta e discreta, capace di catturare i dettagli più insignificanti e trasformarli in simboli di una condizione umana universale. Il film si sviluppa come un mosaico di piccoli momenti di vita, dove anche il gesto più banale può diventare un atto di resistenza contro l’indifferenza. La narrazione è punteggiata da un umorismo sottile, che stempera la malinconia senza mai cadere nel cinismo.

La scelta di un condominio come ambientazione principale non è casuale: rappresenta un microcosmo dove vite diverse si sfiorano senza mai veramente toccarsi, un’immagine potente di una società in cui la vicinanza fisica non si traduce automaticamente in connessione emotiva. In questo senso, “Il condominio dei cuori infranti” è anche una riflessione sulla fragilità dei rapporti umani e sull’importanza della gentilezza come atto di ribellione contro l’alienazione.

Il film ci ricorda che, anche nelle situazioni più disperate, c’è sempre spazio per l’inaspettato, per l’incontro che può cambiare una vita. La forza del cinema di Benchetrit sta nella sua capacità di mostrare questa possibilità, di rivelare la bellezza nascosta nel quotidiano, di farci vedere l’umanità dietro le facciate anonime di un condominio qualunque.

In un’epoca in cui il cinema spesso si perde in grandiose narrazioni, “Il condominio dei cuori infranti” riscopre il valore del piccolo, dell’intimo, dell’irrilevante che si fa rilevante. È un film che ci invita a guardare più da vicino, a riscoprire la poesia nelle pieghe del reale. Un’opera, dunque, che merita di essere vista, non solo per la sua delicatezza narrativa, ma per la sua capacità di parlare al cuore dello spettatore con una voce pacata e sincera.

“The Fighter” di David O. Russell

(USA, 2010)

“The Fighter” esplora le complesse sfaccettature familiari e personali dietro la vera carriera e la vera vita del pugile statunitense Micky Ward. Ma, attenzione, non è solo una storia di pugilato, ma una dissezione cruda e implacabile delle dinamiche familiari e delle lotte interiori che spingono un uomo verso il ring e, ancor di più, verso la redenzione.

Mark Wahlberg, nel ruolo di Micky Ward, è come una corda tesa, sempre sul punto di spezzarsi, ma incredibilmente resiliente. La sua interpretazione è una sinfonia di silenzi e sguardi che dicono tutto senza dire nulla. Ma, come spesso accade nei migliori racconti, sono i personaggi ai margini a catturare l’attenzione. Christian Bale (che vince l’Oscar come migliore attore non protagonista) nei panni del fratellastro Dicky Eklund, è un tornado di energia caotica e devastante. Ex pugile promettente ormai caduto in disgrazia, Dicky è una figura tragica, un uomo che combatte demoni più spaventosi di qualsiasi avversario sul ring: la tossicodipendenza da crack. E Bale lo interpreta con una ferocia che è sia terrificante che profondamente commovente.

E poi c’è Melissa Leo (anche lei premio Oscar come migliore attrice non protagonista), che incarna magistralmente la madre di Micky e Dicky, una donna tanto devota quanto manipolatrice, madre e patriarca di nove figli avuti da uomini diversi. La sua interpretazione è come una mano gelida che ti stringe il cuore, costringendoti a riconoscere la complessità della maternità in un ambiente così spietato e senza sconti, come sono i margini della società americana.

Russell dirige con la precisione di un chirurgo, alternando con maestria le scene di combattimento viscerali con momenti di dramma familiare che tagliano come coltelli affilati. La fotografia di Hoyte van Hoytema cattura la grinta e la desolazione di Lowell, Massachusetts, come una città intrappolata in un incubo senza fine.

La sceneggiatura, firmata da Scott Silver, Paul Tamasy e Eric Johnson, evita i sentieri battuti dei film sportivi, scegliendo invece di immergersi nelle profondità delle relazioni umane. I dialoghi sono taglienti e autentici, come voci che sussurrano segreti oscuri nelle orecchie degli spettatori. Non è un caso, quindi, che come produttore esecutivo ci sia il regista Darren Aronofsky.

La colonna sonora, con brani di The Rolling Stones e degli Aerosmith, non è solo un accompagnamento musicale, ma un pulsante battito cardiaco che sottolinea ogni pugno, ogni urlo, ogni lacrima e ogni bacio appassionato.

“The Fighter” non è solo pugilato, ma un’epopea umana che scava nei recessi più oscuri dell’anima. È una storia di riscatto e sacrificio, di speranza e disperazione, che ti lascia esausto ma stranamente ispirato. Come un bel romanzo, è un viaggio che esplora non solo il coraggio e la determinazione, ma anche le ombre che perseguitano ciascuno di noi. E alla fine, ti rendi conto che il vero combattimento non è mai sul ring, ma sempre dentro di noi.

Nel cast da ricordare anche l’ottima interpretazione di Amy Adamas nei panni di Charlene, la compagna di Micky.

“The Door” di István Szabó

(Ungheria/Germania, 2012)

Il regista ungherese István Szabó ci porta in un piccolo mondo che racchiude la complessità della vita stessa. Basato sull’omonimo romanzo autobiografico di Magda Szabó (1917-2007) pubblicato per la prima volta nel 1987, il film esplora la relazione tra due donne molto diverse tra loro, Magda ed Emerenc. La storia è ambientata nell’Ungheria degli anni ’60, e possiede un’umanità profonda e una delicatezza colme di dettagli e sfumature della vita quotidiana, ed esplora le profondità dell’animo umano attraverso la storia di un’intensa relazione tra due donne di epoche e classi sociali diverse.

Magda (interpretata splendidamente da Martina Gedeck) è una scrittrice emergente, che cerca di bilanciare la sua carriera con la sua vita personale centrata sul matrimonio con Tibor (Károly Eperjes). Quando assume Emerenc (una magistrale Helen Mirren) come domestica, inizia un rapporto che è tanto complesso quanto affascinante. Emerenc è una figura enigmatica, con un passato pieno di segreti, che vive una vita rigida e austera. La porta chiusa della sua casa diventa un simbolo potente, rappresentando le barriere emotive e i misteri che separano le due donne.

Szabó utilizza un linguaggio visivo ricco di dettagli, che ricorda i piccoli momenti quotidiani che tanto amo esplorare nei miei romanzi. Ogni scena è costruita con cura, come una stanza piena di ricordi e storie nascoste. La fotografia è delicata e attenta, catturando le sfumature della luce e dell’ombra che giocano sui volti dei personaggi e negli angoli delle loro vite. Questo approccio crea un’atmosfera intima e riflessiva, invitando lo spettatore a soffermarsi e a contemplare la bellezza nascosta nelle piccole cose.

Helen Mirren, nel ruolo di Emerenc, è semplicemente straordinaria. La sua interpretazione dà vita a un personaggio che è allo stesso tempo forte e vulnerabile, pieno di dignità e profondamente umano. Martina Gedeck, nei panni di Magda, è altrettanto convincente. La sua rappresentazione di una donna moderna che cerca di capire e connettersi con un mondo molto diverso dal suo è toccante e autentica. Insieme, le due attrici creano una dinamica complessa e avvincente, che è il cuore pulsante del film.

“The Door” è un film che parla di segreti, fiducia e il difficile cammino verso la comprensione reciproca. Szabó ci mostra che, come nelle migliori storie, le risposte non sono sempre chiare o facili da trovare. Ogni personaggio è un enigma, ogni relazione una sfida. Ma è proprio questa incertezza che rende la vita così ricca e affascinante.

Guardare “The Door” è come leggere un romanzo che svela lentamente i suoi segreti, pagina dopo pagina. È un film che ci invita a guardare oltre la superficie, a cercare il significato nascosto nelle piccole cose, e a trovare la bellezza nei momenti di pura connessione umana.

In un’epoca in cui cerchiamo spesso risposte rapide e definitive, “The Door” ci ricorda che la vera comprensione richiede tempo, pazienza e un cuore aperto. È un’opera che ci tocca profondamente, lasciandoci con la consapevolezza che, alla fine, le storie più belle sono quelle che ci sfidano a guardare più da vicino e ad amare ciò che troviamo.

Da vedere.

“I misteri del giardino di Compton House” di Peter Greenaway

(UK, 1982)

Nel 1982 arriva nelle sale cinematografiche britanniche, e poi in quelle di tutto il mondo, la seconda pellicola scritta e diretta dal poliedrico e geniale autore gallese Peter Greenaway, che riscuote in breve tempo un successo planetario.

1694, nella campagna inglese si erge l’imponente tenuta di Compton House di proprietà di Mr. Herbert, tenuta che faceva parte della dote di sua moglie. Mrs. Herbert (Janet Suzman, attrice e registra teatrale sudafricana, che nel 1974 è fra gli interpreti de “Il caso Drabble” di Don Siegel) per omaggiare il coniuge, che sta partendo per un viaggio di affari, decide di commissionare al giovane pittore Mr. Neville (Anthony Higgins che solo qualche mese prima aveva partecipato a “I predatori dell’arca perduta” di Steven Spielberg e nel 1985 diventerà il cattivo nel delizioso “Piramide di paura” diretto da Barry Levinson e prodotto sempre da Spielberg) 12 disegni della tenuta.

Per accettare la commessa, oltre che il compenso in denaro, Neville esige che nel contratto, redatto in presenza del notaio di fiducia degli Herbert, venga inserita una clausola grazie alla quale lui possa ottenere a proprio piacimento i favori sessuali, incondizionati, di Mrs. Herbert.

Il pittore inizia così le sue opere per le quali pretende che la tenuta venga lasciata libera il più possibile, cosa che incide direttamente sulle numerose attività di servitù e giardinieri, e soprattutto indispone non poco Mr. Talmann (Hugh Fraser) di “imperdonabili” origini tedesche e marito dell’unica figlia degli Herbert.

Mr. e Mrs. Talmann (Anne Louise Lambert, che qualche anno prima aveva partecipato, nel ruolo di una studentessa, al bellissimo “Picnic ad Hanging Rock” di Peter Weir), infatti, vivono a Compton House che, insieme agli altri beni di Mr. Herbert, andrà a loro in eredità solo quando questi avranno un erede; erede che però stenta ad arrivare a causa dell’indolenza e della pigrizia sessuale dello stesso Mr. Talmann.

Mentre le dodici tavole prendono corpo, Mr. Neville nota dei piccoli particolari insoliti sparsi nelle vedute, come una scala per raccogliere la frutta appoggiata alla finestra di Mrs. Talmann, un paio di stivali abbandonati nei pressi del fossato allagato della tenuta, o una camicia da uomo impigliata fra i rami di un albero.

Il suo carattere, che ovviamente si riflette nella sua arte, impone a Neville di riprodurre fedelmente la realtà anche nei particolari che sembrano incongruenti o stonare con l’ambiente circostante. Mentre il pittore sta per terminare le sue opere, il cadavere di Mr. Herbert viene ritrovato nel fossato allagato di Compton House…

Il termine visionario spesso è inflazionato quando si parla di registi cinematografici, ma nel caso di Peter Greenaway, così come in quello di Tim Burton, è senza dubbio il più adatto. Ispirandosi alle opere immortali di Caravaggio, Rembrandt e Vermeer, il regista gallese riesce a creare una potenza visiva sanguigna, carnale e allo stesso tempo elegante e raffinata ancora oggi, ad oltre quarant’anni di distanza.

Sull’interpretazione della pellicola è stato detto e scritto molto, ma lo stesso autore ha sempre avallato quella che si riferisce alle invalicabili differenze fra le classi sociali. La classe dominante, più facoltosa e opulenta, può anche fingere di accogliere il frutto di una “inferiore”, come in questo caso è Neville, e subirne il fascino, ma alla fine se lo fa è solo per il proprio interesse; è perché ne ha bisogno in quel determinato momento per i propri scopi, anche i più segreti ed infidi, e certo non si fa troppi scrupoli alla fine nell’usarlo e poi masticarlo.     

Lo stesso Greenaway, in una intervista sul film, disse: “Neville ritrae ciò che vede e non ciò che sa”.

Altra chiave di lettura è indubbiamente il cinema nel cinema, il racconto nel racconto, il quadro in un quadro, che ci riportano, per esempio, allo straordinario “Blow-Up” del maestro Michelangelo Antonioni. Come il grande cineasta italiano, Greenaway ci fa riflettere in maniera viscerale e allo stesso tempo sublime sull’arte di narrare, anche per immagini. E così ci chiediamo, per esempio, se una cosa è reale solo perché è stata ritratta, o non lo è se nessuno l’ha riprodotta?      

Da vedere.

“Advantageous” di Jennifer Phang

(USA, 2015)

In un futuro prossimo – ahimè non troppo lontano… – Gwen (una bravissima Jacqueline Kim) è la testimonial principale e venditrice di punta del “Center for Advanced Health and Living”, una società privata che cura l’aspetto delle persone e “combatte” il loro invecchiamento fisico.

Gwen vive da sola con sua figlia Jules (Samantha Kim) appena adolescente che, come lei alla sua età, ha un ottimo rendimento scolastico. Per questo la donna intende mandarla nel più rinomato e all’avanguardia liceo della città, nonostante questo abbia una retta quasi proibitiva, per poterle garantire il futuro migliore.

Il mondo di Jacqueline, però, rischia di andare in frantumi quando Fischer (James Urbaniak), suo diretto superiore – con il quale lei ha avuto una relazione sentimentale – le comunica che il “Center for Advanced Health and Living” ha deciso di cambiare testimonial, volendo una persona più giovane e attraente rispetto a lei, e così più vicina al target di mercato che la società intende conquistare. Fischer le rivela, inoltre, che il suo licenziamento è stato voluto direttamente dal CEO della società Isa Cryer (Jennifer Ehie).

Nonostante la pessima notizia ricevuta, Jacqueline non si lascia prendere dal panico ed inizia a cercare un nuovo lavoro, vista anche la sua grande esperienza. Ma le agenzie di collocamento alle quali si rivolge al massimo le offrono di diventare donatrice a pagamento di ovuli. Col passare delle settimane la donna comprende che qualcuno le ha fatto terra bruciata intorno e che nessuno dei concorrenti del “Center for Advanced Health and Living” ha intenzione di contattarla.

Il suo conto in banca si sta inesorabilmente assottigliando e i termini per iscrivere Jules al liceo si avvicinano. Jacqueline prova a rivolgersi così ai suoi genitori che però le negano l’aiuto economico di cui ha bisogno. Disperata, chiede un incontro con Isa Cryer che la riceve con estrema gentilezza e le fa un’offerta: è disposta a riassumerla, anche con uno stipendio più alto, se accetta di sottoporsi al nuovo e rivoluzionario trattamento di bellezza che il Center sta perfezionando. Si tratta, in pratica, di un trasferimento di cervello in un corpo artificiale molto più giovane e “bello”. Inoltre, fattore determinante, lei possiede già tutto il know-how da abile venditrice necessario per pubblicizzare al meglio la nuova “Gwen 2.0”.

Jaqueline si consulta con Fischer che, categorico, le chiede di non farlo, visto che si tratta di un procedimento sperimentale e assai doloroso. Dopo aver parlato con l’uomo, Jacqueline inizia a prendere in considerazione l’ipotesi che ad isolarla lavorativamente sia stata proprio la Cryer per renderla malleabile e farle accettare la proposta.     

Come ultima carta per ottenere un prestito, ed evitare il trattamento, Jacqueline tenta quella di sua cugina Lily (Jennifer Ikeda) e suo marito Han (Ken Jong) che possiedono un ristorante orientale in città, ma…

Scritto dalla stessa Jacqueline Kim assieme a Jennifer Phang, questo ottimo film indipendente ci parla di un futuro non troppo lontano dove le cose sono fin troppo vicine a quelle che noi stiamo vivendo oggi. Nella migliore tradizione della Fantascienza americana – quella con la F maiuscola, a partire da quella del maestro Philip K. Dick, per esempio – questa pellicola ci racconta di un mondo dove le dinamiche sociali sono dettate in primis dal potere economico, vero discriminante per avere possibilità e, soprattutto, diritti.

In un mondo così – che, ripeto, è tanto vicino al nostro – una donna sola deve alla fine inesorabilmente piegarsi alle becere tradizioni di bellezza e alle ferree leggi del mercato anche solo per poter tentare di garantire alla figlia le possibilità per emergere ed evitare di finire nel suo stesso meccanismo perverso.  

Ma è davvero possibile farlo?  …E soprattutto: chi è in posizione, sempre e comunque, di “vantaggio”?

“Foglie al vento” di Aki Kaurismäki

(Finlandia/Germania, 2023)

Ansa (una bravissima Alma Pöysti) lavora come cassiera e commessa in un supermercato di Helsinki. Vive sola nell’appartamento che le ha lasciato la matrigna. Come molti suoi connazionali, non senza difficoltà, a stento arriva a fine mese, questo a causa anche dell’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe.

Per rimediare, la donna spesso si porta a casa alimenti scaduti che altrimenti andrebbero nella spazzatura. La cosa però è contro le regole e così Ansa, alla fine, viene licenziata.

Holappa (Jussi Vatanen) è un manovale che vive nella baracca del cantiere in cui lavora. E’ un uomo solitario e triste, e per questo è diventato un alcolista. Una sera un suo collega, con la passione del canto, lo convince a seguirlo in un locale di karaoke. Lì i due prendono un drink assieme a una coppia di amiche, una delle quali è Ansa che prova immediatamente un’attrazione, ricambiata, per Holappa.

L’uomo fa di tutto per rincontrarla e finalmente, incrociandola in strada, la invita al cinema. Dopo il film Ansa gli scrive il suo numero su un foglietto e se ne va sorridendo. Ma Holappa non si accorge che il biglietto gli vola via dalla tasca quando, soddisfatto, si incammina verso il posto in cui dorme.

Poco dopo, a causa del malfunzionamento di un macchinario, Holappa è vittima di un piccolo incidente nel cantiere, e quando arriva l’ambulanza i sanitari, fra le altre cose, gli fanno il test dell’alcol. L’uomo così viene licenziato in tronco senza alcun risarcimento. Holappa passa da un cantiere all’altro, sempre in forma clandestina a causa del suo stato ufficiale di alcolista, ma in ogni momento libero cerca Ansa, soprattutto passando numerose volte al giorno davanti al cinema dove sono stati insieme.

Finalmente i due si rincontrano, proprio davanti al locale e lei, venuta a sapere del biglietto perduto, lo invita a cena per la sera successiva. Holappa si assicura di non perdere l’indirizzo della donna e il giorno dopo si presenta a casa sua con un mazzo di fiori. La serata sembra perfetta ma l’uomo, dopo il dessert, manifesta l’esigenza di bere alcol, cosa che sconvolge Ansa: proprio a causa del bere ha perso prima il padre e poi il fratello e così non ha la minima intenzione di frequentare un alcolista. Holappa, indignato, se ne va…

Kaurismäki, che scrive e dirige il film, come sempre tocca corde e vicende legate soprattutto al proletariato, cosa che lo rende uno dei veri e pochi eredi del grande Neorealismo italiano.

Non è un caso, quindi, che come nelle sue altre pellicole, il regista finlandese, omaggi e citi direttamente il grande cinema classico, soprattutto quello europeo della Nouvelle Vague – nel suo delizioso “Ha affittato un killer” ha voluto come protagonista Jean-Pierre Léaud, attore simbolo del maestro Francois Truffaut – con le locandine dei film di Jean-Luc Godard e Robert Bresson, oltre che di “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti.

Ma, soprattutto, nella scena in cui Ansa e Holappa parlano di rincontrarsi per la cena, troneggia quella dello splendido “Breve incontro” di David Lean, la cui trama ha certamente ispirato quella di questo film.

Da vedere.

Per questa pellicola, fra i numerosi riconoscimenti internazionali, Aki Kaurismäki si aggiudica il premio della Giuria al Festival di Cannes.