La Nippon Animation, sulla scia del successo che nel resto del mondo – e soprattutto in Europa – riscuotono gli anime giapponesi, sia al cinema ma soprattutto in televisione, decide di realizzare una serie ispirata al racconto “Dagli Appennini alle Ande”, che fa parte del libro “Cuore”, pubblicato da Edmondo De Amicis nel 1886.
La regia viene affidata a Isao Takahata mentre a curare il layout è il maestro Hayao Miyazaki. I personaggi sono firmati da Yōichi Kotabe – che li aveva già creati per la serie “Heidi” del 1974 – e la sceneggiatura è di Takamura Mukuo che amplia di molto il racconto originale di De Amicis, per consentire lo sviluppo di 52 puntate da circa 22 minuti ciascuna.
Il piccolo Marco Rossi vive a Genova con il padre e il fratello maggiore. Sua madre, Anna, è stata costretta ad emigrare in Argentina per trovare un lavoro che le consentisse di poter mantenere i figli in maniera più dignitosa. Il padre di Marco, insieme al fratello, gestisce un ospedale per poveri che gli assorbe tutte le energie e tutte le risorse.
Col passare del tempo e l’interruzione inspiegabile delle periodiche lettere di sua madre, Marco inizia a preoccuparsi e decide di partire per il sud America, non senza difficoltà e il parere sfavorevole dei suoi parenti.
Finalmente il giovane si imbarca sul battello “Folgore”, che prima fa scalo a Marsiglia e poi lo porta a Rio De Janeiro. Da Rio, con un piroscafo, il piccolo genovese arriva a Buenos Aires dove inizia il suo viaggio via terra per Bahia Blanca all’inseguimento delle ultime tracce di sua madre, che sembra svanita nel nulla.
Sulla sua strada Marco incontrerà loschi figuri che tenteranno di raggirarlo, ma anche persone oneste come lui che lo aiuteranno, come la famiglia di burattinai fra cui c’è la piccola Violetta, sua coetanea, con la quale intreccerà una tenera amicizia.
Quando Marco, dopo numerose peripezie, rincontrerà sua madre, la troverà gravemente malata e in attesa di essere operata per salvarsi la vita…
Al di là del finale, che chi ha letto “Cuore” già conosce, questa serie è sempre piacevole da guardare non tanto per le vicende narrate, ma soprattutto per le atmosfere e le immagini che il magico connubio Takahata- Miyazaki sanno creare e trasmettere, nonostante la sceneggiatura sia tipica di una lunga serialità con, per esempio, numerose ripetizioni degli snodi narrativi avvenuti.
Che Vasco Rossi sia uno dei più grandi artisti italiani, e non solo, degli ultimi quattro decenni è ormai un dato di fatto. E non sono certo il primo né l’unico a sottolineare che geniale musicista ed interprete sia, visto che le sue canzoni attraversano gli anni e le epoche a cavallo di due secoli – …e due millenni – rimanendo sempre fresche, struggenti e attuali.
Ma con questa docuserie scritta da Igor Artibani, Guglielmo Arie e lo stesso Pepsy Romanoff (Giuseppe Domingo Romano) in cinque puntate da circa 50 minuti ciascuna, Vasco ci racconta, forse come non è mai accaduto prima, la sua storia artistica e personale, grazie anche a filmati originali che appartengono al suo archivio privato. Nato a Zocca agli inizi degli anni Cinquanta, un ridente comune dell’Emilia-Romagna in provincia di Modena, già nel 1960 il piccolo Vasco sale su un palco per cantare. Nel minuscolo cine-teatro della cittadina, infatti, fa tappa un concorso musicale per giovani talenti molto simile allo Zecchino d’Oro.
A neanche dieci anni Vasco vince il concorso itinerante e inizia ufficialmente la sua carriera artistica. Sua madre, una giovane casalinga, e suo padre che di mestiere fa il camionista assecondano senza remore le inclinazioni del figlio, e così Vasco può vivere al meglio il suo amore incondizionato per la musica.
Negli anni Sessanta, sulla scia della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, anche in Italia si formano numerosissime band, e Vasco ne crea diverse fino ad approdare, agli inizi degli anni Settanta, nel mass media che segnerà la cultura contemporanea: la radio. Anche se nel nostro Paese solo la RAI poteva trasmettere in modulazione di frequenza, nascono piccole radio private quasi ovunque e Vasco, insieme a un manipolo di storici amici, ne crea una che in breve tempo diventa il “punto” di riferimento delle nuove generazioni della zona.
Visto il successo della piccola emittente, Vasco viene chiamato come DJ nei locali più “in” della regione, ma la sua passione per la musica da scrivere e poi da interpretare aumenta fino a portarlo ad incidere il primo disco, prodotto da uno storico impresario del liscio. Oltre al vinile, per Vasco diventa sempre più importante esibirsi su un palco assieme alla sua band, e così nel 1978 inizia – in piccoli locali e piazze cittadine – la carriera professionistica del più grande e longevo rocker italiano che passa però anche per momenti duri e senza sconti, come la tossicodipendenza o il carcere per possesso di cocaina.
Ma nel corso delle cinque puntate Vasco ci racconta bene come abbia saputo sempre rialzarsi e affrontare la vita a viso aperto, rimanendo sempre fedele a se stesso e al suo pubblico, passando spesso momenti terribili fra lutti, depressioni e malattie.
Bellissimo e sincero ritratto di un fenomenale artista musicale che è anche un grandissimo maestro della parola cantata, che forse non trova paragoni neanche fra gli scrittori “ufficiali” suoi contemporanei per la maniera in cui riesce a raccontare se stesso e la nostra società, le nostre paure, i nostri sogni e i nostri miseri difetti.
Un grande autore che ha fra i suoi amici più cari Valentino Rossi come don Luigi Ciotti, e che come pochi disegna superbamente il nostro Paese e che, sapendolo, ci canta ironico e sornione: “…e menomale che non mi chiamo Mario”.
Da vedere, così come è da ascoltare tutta la sua musica.
Sulla scia del grande successo di numerosi sceneggiati televisivi realizzati – fra cui spicca senza dubbio lo storico “Il segno del comando” – Daniele D’Anza (1922-1984), insieme al suo collaboratore Biagio Proietti (1940-2022) propone alla RAI uno vero e proprio omaggio al grande Edgar Allan Poe, anche per farlo conoscere meglio alle nuove generazioni.
Ispirandosi liberamente ai suoi racconti più famosi, D’Anza e Proietti scrivono, attualizzandoli, quattro episodi che ruotano intorno e dentro alla gotica e oscura casa Usher – e allo splendido racconto “La caduta della casa degli Usher” – il cui padrone di casa, Roderick Usher (interpretato la Philippe Leroy) è il filo conduttore e unico personaggio ricorrente in tutti gli episodi.
Nel primo “Notte in casa Usher” – ispirato soprattutto ai racconti “Ritratto ovale” e “Il cuore rivelatore”, con un palese riferimento anche a “Manoscritto trovato in una bottiglia” – un giudice (Gastone Moschin) e un assassino (Vittorio Mezzogiorno) persi nella nebbia arrivano a casa Usher chiedendo ospitalità. Roderick la offre loro, ma la casa, così come il suo padrone, nascondono un terribile segreto che riguarda la compianta signora Usher (Maria Rosaria Omaggio). L’atmosfera e l’opprimente presenza della defunta costringeranno i due ospiti ad affrontare il lato più oscuro di loro stessi…
Nel secondo “Ligeia forever” – tratto dal racconto “Ligeia” con chiari richiami anche al romanzo “Rebecca, la prima moglie” di Daphne du Maurier – Roderick, osservando un vecchio grammofono abbandonato in un’ala della casa chiusa da decenni, con la mente torna indietro ai tempi in cui era suo padre Robert Usher (Umberto Orsini) il padrone della grande casa, nella quale aveva organizzato una festa in onore del debutto nel cinema sonoro della grande Ligeia (Dagmar Lassander) stella di prima grandezza della Hollywood del muto, che lui segretamente aveva sposato. Ma la voce originale della donna proprio non piacque al pubblico che sghignazzò rumorosamente alla prima. Ligeia, saputolo, si avvelenò morendo fra le braccia del marito. Sei anni dopo Robert torna a casa Usher con la sua nuova e giovane moglie Morella (Silvia Dionisio) che però deve scontrarsi con il ricordo ingombrante, opprimente e molto concreto della prima signora Usher…
Il terzo è “Il delirio di William Wilson” – tratto dal quasi omonimo “William Wilson” – in cui il protagonista (impersonato da Nino Castelnuovo) che è un pilota di automobili collaudatore di prototipi, arriva disperato a casa Usher dove confessa a Roderick di essere inseguito da un essere implacabile. Il padrone di casa lo ospita, vista poi la relazione che Wilson ha da anni con sua sorella Eleanor Usher (Janet Agren). A braccare il pilota è …William Wilson (Giorgio Biavati) un suo omonimo, anche lui pilota automobilistico, che da circa un anno lo perseguita mandandogli a monte tutti i progetti…
L’ultimo episodio è “La caduta di casa Usher” che oltre al racconto omonimo – o quasi – si ispira anche al grande “Il pozzo e il pendolo”, “La maschera della morte rossa” e “Il genio della perversione”. Mentre in casa Usher si tiene una festa danzante, Eleanor inizia a mostrare i segni di una grave quanto rapida e fulminea malattia che in poco tempo la conduce alla morte. Roderick chiede ai suoi ospiti di lasciare la casa ma, poco dopo, alcuni di questi tornano sconvolti e terrorizzati: una minacciosa nube nera sta avvolgendo tutto uccidendo chiunque ci finisca dentro. Chiusi fra le mura della grande casa gli ospiti, omaggiando anche il grande Boccaccio, iniziano a raccontare i loro più profondi e indicibili segreti. Berthe (Paola Gassman), per esempio, narra ridendo come sia stata molto vicina dall’uccidere volontariamente il marito mentre questo placidamente dormiva. Ma la secolare maledizione inizia ad abbattersi implacabilmente sulla casa degli Usher…
Naturalmente i tempi narrativi televisivi, rispetto a quelli di oggi, sono infinitamente più dilatati, visto anche che nel 1979 la pubblicità non ha ancora quel peso commerciale nel palinsesto che poi assumerà negli anni successivi. E poi, nonostante la grande maestria di D’Anza dietro la macchina da presa, sono evidenti i non pochi limiti produttivi dello sceneggiato, in cui gli effetti speciali sono fatti “a mano”, spesso sottolineati con frenetici zoom o fumogeni di vari colori.
Ma proprio per questo oggi è lampante ancora di più la bravura non solo delle attrici e degli attori, ma anche quella di tutti i tecnici e i componenti della troupe che con mezzi limitati – e nonostante tutto quello che è passato sul grande e sul piccolo schermo di genere fantasy o horror in questi ultimi quattro decenni – riescono ancora a regalarci momenti autentici di ansia e sorpresa. E proprio per sottolineare l’angoscia che percorre ogni storia raccontata, D’Anza sceglie di affidare le musiche ai Pooh che accompagnano quasi ogni fotogramma con assoli alla tastiera e alla chitarra elettrica efficaci e assai insoliti per gli standard televisivi del tempo.
Nonostante i suoi limiti, questo sceneggiato rimane un originale omaggio al grande Allan Poe fatto dalla nostra televisione in uno dei periodi più prolifici e al tempo stesso di qualità della sua storia.
La violenza sulle donne è una delle piaghe della civiltà umana, indipendentemente dalla latitudine in cui ci si trova.
Così anche nell’amena e bucolica località di Deadloch, in Tasmania, la comunità è stata segnata da atti terribili contro alcune donne. Ma, nella più oscura e terribile tradizione patriarcale, i delitti ai danni delle donne vengono lasciati sotto traccia, anche se molti ne sono a conoscenza. Specie quelli accaduti qualche tempo prima.
Ad aprire il famigerato vaso di Pandora è il corpo senza vita di Trent Latham, rinvenuto senza abiti indosso da due ragazze su una spiaggia di Deadloch, il grande specchio d’acqua che dona il nome alla cittadina.
La stazione di Polizia è affidata al sergente maggiore Dulcie Collins (Kate Box), con un passato di detective a Sidney, che ha preferito la tranquilla località della Tasmania alla frenetica metropoli, soprattutto per salvaguardare il suo matrimonio con Cath (Alicia Gardiner), che nella vita fa la veterinaria.
L’autopsia rivela che Trent è stato ucciso, ma prima gli è stata asportata la lingua. Collins è costretta così a chiamare il responsabile della regione, il commissario Shane Hastings (Hayden Spencer), che invia sul posto il detective Eddie Redcliffe (Madeleine Sami). La donna, che presta servizio normalmente a Darwin, non vede l’ora di tornaci e così cerca in ogni modo di chiudere il prima possibile l’inchiesta.
Il carattere irascibile e i metodi frettolosi della Redcliffe sono agli antipodi da quelli pacati e accurati della Collins, ma la gerarchia prevede che la seconda debba ubbidire inesorabilmente alla prima, che in pochi minuti si convince che l’assassinio sia Gavin Latham, il fratello del morto. Ma quando anche lui viene trovato ucciso, e senza la lingua come Trent, la Redcliffe è costretta a rivedere tutta la sua indagine…
Deliziosa e irriverente serie noir in otto episodi, grottesca e senza esclusione di colpi di scena e di battute senza sconti per nessuno, “Deadloch – Uno strano genere di delitti” è per gli amanti dei misteri, dell’ironia e del sarcasmo.
Non è un caso che una serie come questa, fuori da molte regole del famigerato “politically correct”, sia stata prodotta e realizzata in Australia, dove i diritti civili e la lotta alla discriminazione sono molto più avanti rispetto, ad esempio, al nostro Paese. Il delizioso “Priscilla – La regina del deserto” diretto da Stepehn Elliot ce lo ricorda dal 1994.
Su Netflix è approdata la seconda serie animata creata, scritta e diretta da Zerocalcare.
Dopo “Strappare lungo i bordi” del 2021, torniamo nel quartiere di Rebibbia a Roma, dove vive e lavora Zerocalcare. Fra quelle strade e quei grandi palazzi popolari “Calcare” è cresciuto accanto a persone con le quali ha stretto una profonda amicizia, come con Secco o Sara, e con altre, come Cesare, che col passare del tempo ha perso di vista.
Quando Cesare torna nella zona, dopo aver passato alcuni anni in una comunità per il recupero dalla sua tossicodipendenza, l’incontro con Zerocalcare è formale e molto freddo. Perché Cesare ha affrontato i propri mostri da solo, lontano da tutti – Zerocalcare compreso – e quando è tornato a casa ha trovato il deserto emotivo.
Come tutto il Paese, anche Rebibbia sta vivendo la netta frattura della nostra società che si divide in tolleranti e intolleranti, in accoglienti e sovranisti, in sinistrorsi e nazisti che, come ci spiega l’autore, comprendono anche i fascisti che ormai sono stati fin troppo facilmente sdoganati. Ma se per Zerocalcare fino a quel momento la divisione è sempre stata netta, adesso scopre – come molti altri suoi connazionali… – che fra il bianco e il nero ci sono milioni di sfumature. E così “Calcare” deve imparare a convivere con le numerose tonalità di grigio.
Se i nazisti rimangono e rimarranno sempre dei nazisti, Zerocalcare ci racconta – non senza sublimi citazioni e battute esilaranti – come il mancato riconoscimento delle tante sfumature non fa altro che fomentare i nazisti e chi li manipola e li usa a proprio tornaconto.
Come nella serie precedente, anche in questa è Valerio Mastandrea a doppiare l’Armadillo, la coscienza ingombrante di Zerocalcare, mentre Silvio Orlando dona la voce ad un dirigente della Digos.
Rod Serling (1924-1975) è stata una delle figure più rilevanti del cinema e soprattutto della televisione americana del secondo Novecento. Anche se è stato l’autore di ottime sceneggiature di film come “I giganti uccidono” o “Una faccia piena di pugni” (pellicola che ha segnato il cinema e la cultura degli Stati Uniti, tanto da influenzare lo stesso Sylvester Stallone per la stesura dello script di “Rocky” e Quentin Tarantino per quella di “Pulp Fiction”, solo per citarne due) il suo nome sarà per sempre legato alla serie televisiva antologica “Ai confini della realtà” che creò nel 1959 e che venne trasmessa dalla CBS fino al 1964.
Il 24 novembre del 1958 va in onda, per la serie antologica “Westinghouse Desilu Playhouse” l’episodio “L’elemento tempo” scritto da Rod Serling e diretto da Allen Reisner, in cui il protagonista è Pete Jansen (William Bendix), un uomo che rivela al suo medico il dottor Gillespie (Martin Balsam) che ogni notte rivive lo stesso sogno più che reale: essere a Honolulu le ventiquattro ore che precedono l’attacco di Pearl Harbour il 6 dicembre 1941. Il sogno si tramuta incredibilmente e inspiegabilmente in realtà…
Se gli spettatori di quegli anni sono avvezzi alla fantascienza, anche quella più semplice, nessuno invece ha mai visto niente di simile, un racconto fantastico più che fantascientifico, e al tempo stesso concreto e drammatico. Il successo è notevole tanto che la CBS decide di affidare al suo autore il compito di creare e seguire una vera e propria serie antologica con gli stessi toni e argomenti.
Il titolo Serling lo prende dal gergo aeronautico degli anni Quaranta e Cinquanta in cui “twilight zone” si riferisce all’effetto visivo per il quale, in determinate condizioni, la linea dell’orizzonte scompare alla vista del pilota per alcuni instanti durante l’atterraggio. Una zona di luci e ombre in cui è facile perdere l’orientamento.
Per presentare ogni puntata, che ha sempre attori nuovi e una storia indipendente dalle altre, Serling vorrebbe Orson Welles ma il cachet è troppo alto per il budget fissato dalla produzione, interpella poi Richard Egan che però ha appena firmato un contratto esclusivo per un film. Così, per affrettare i tempi e limitare le spese, viene stabilito che sarà lui stesso il presentatore.
Il 2 ottobre del 1959 va in onda il primo episodio della prima stagione “La barriera della solitudine”, scritto naturalmente dallo stesso Serling. Inizia così un nuovo genere televisivo e un nuovo modo di raccontare i sogni e gli incubi della società americana, oppressa in quegli anni dalla guerra fredda. Ma Serling, in anni in cui gli Stati Uniti erano ancora fortemente razzisti, riesce a parlare di tolleranza, uguaglianza e rispetto con originalità e intelligenza, soprattutto alle nuove generazioni che il venerdì sera rimangono attaccate alla televisione per poco più di venti minuti, il tempo di ciascun episodio, senza avere neanche il coraggio di sbattere le palpebre.
L’impatto è enorme e incredibilmente duraturo, visto che ancora oggi, a distanza di sessant’anni, tutti – o quasi – gli episodi continuano ad avere il loro fascino e la loro potenza narrativa. Per quanto concerne i piccoli di allora, basta ricordare due dei tanti fan che hanno più di una volta dichiarato che senza questa serie la loro vita e la loro arte non sarebbero state le stesse: George Lucas e Steven Spielberg.
Tanto che lo stesso Spielberg produce e dirige uno dei tre episodi del film “Ai confini della realtà“, dedicato e ispirato proprio alla serie di Serling, che realizza assieme a John Landis, George Miller e Joe Dante nel 1983.
Sono moltissimi gli attori, ma anche i registi, che giovani e ancora sconosciuti girano uno o più episodi che andranno in onda dal 1959 al 1964. Nomi come Robert Redford, Sidney Pollack, Ida Lupino (che reciterà nell’episodio della prima stagione “Il sarcofago” e dirigerà l’episodio “Le maschere” della quinta stagione, fra le prime donne in assoluto ad esordire dietro una telecamera), Peter Falk, Charles Bronson, Lee Marvin (interprete dell’episodio “La tomba” della terza stagione, che come alcuni altri, col passare del tempo, è diventato una vera e propria leggenda metropolitana), Robert Duvall, Dennis Hooper, Martin Landau, Art Carney, Cloris Leachman, Ron Howard (nei panni di un bambino nell’episodio “La giostra” della prima stagione), Paul Mazursky, Burt Reynolds, Jack Warden, Burgess Meredith (che poi vestirà i panni del primo allenatore di Rocky Balboa, ma che interpreterà alcuni episodi fra cui lo strepitoso “Tempo di leggere” andato in onda nella prima stagione), Kevin McCarthy (protagonista del bellissimo “Lunga vita a Walter Jameson”, ancora oggi molto citato), William Shatner (interprete di due episodi fra cui il famosissimo “Incubo a 20.000 piedi” diretto da un giovane Richard Donner) James Coburn, Lee Van Cleef o Telly Savalas, solo per citare i più famosi.
Senza parlare delle attrici e degli attori che diventeranno famosi, negli anni successivi, soprattutto nel piccolo schermo come Agnes Moorehead (interprete del delizioso “Gli invasori” della seconda stagione), Bill Bixby, George Takei, Jack Klugman, Elizabeth Montgomery, Roddy McDowall (protagonista del caustico “Gente come noi”) Claude Atkins e Jack Weston (questi ultimi due interpreti del bellissimo “Mostri in Marple Street”, fra i più significati e antirazzisti della serie che si schiera, neanche troppo velatamente, contro la famigerata “caccia alle streghe” maccartista di quegli anni).
A scrivere gli episodi delle prime stagioni, oltre a Serling, ci sono Charles Beaumont e Richard Matheson (autore, nel 1954, del bellissimo romanzo di fantascienza “Io solo leggenda” da cui sono stati tratti vari adattamenti cinematografici tra i quali, da ricordare, “L’ultimo uomo sulla Terra” e “1975: occhi bianchi sul pianeta Terra”, nonché la lunga serie di lungometraggi che parte da “La notte dei morti viventi” diretto da George Romero nel 1968 e passa per “28 giorni dopo” diretto da Danny Boyle nel 2002). Visto il clamoroso successo della serie però, nel corso degli anni, Serling venne citato in numerosissime cause per presunto plagio, cosa che alla fine lo costrinse a cedere i diritti di “Ai confini della realtà” direttamente alla CBS.
Amareggiato, Rod Serling si dedicò a serie con i toni più marcati dell’orrore, fino al 28 giugno del 1975 quando, mentre stava tagliando l’erba del suo giardino, venne stroncato da un infarto a soli 50 anni. Certo, oggi è difficile non associare la sua improvvisa e fulminante morte alle sigarette che aveva sempre in mano, anche quando presentava gli episodi della sua serie più famosa e nella quale divenne anche il testimone di una nota fabbrica di tabacco, o nelle varie foto che lo ritraggono nella vita di tutti i giorni.
Se Serling ha conosciuto il successo e la stima dei suoi contemporanei, non ha potuto apprezzare quelli delle generazioni successive che ancora oggi amano profondamente la sua opera.
Vera pietra miliare della televisione e dell’immaginario collettivo del Novecento, “Ai confini della realtà” è una serie immortale e da vedere e rivedere ad intervalli regolari.
Basata sulle strisce di Charles Addams (1912-1988), questa serie tv in otto puntate ci racconta in maniera molto originale il periodo più oscuro e “gotico” della nostra esistenza che è la perfida adolescenza.
I creatori Alfred Gough e Miles Millar si sono ispirati, oltre che all’opera di Addams, anche ai vari precedenti adattamenti di questa sia per la televisione, come la mitica serie “La famiglia Addams” che andò in onda dal 1964 al 1966 per poi venire replicata ad intervalli regolari nei decenni successivi; sia per il cinema dove a partire dal 1991 si sono susseguiti vari adattamenti fra cui spiccano la prima, in cui a vestire i panni di Mercoledì era una giovanissima ed esordiente Christina Ricci, fino a “La famiglia Addams” del 2019, realizzata in animazione 3D – che ha avuto un sequel non all’altezza nel 2021 – in cui la protagonista e fulcro del plot è proprio Mercoledì.
Così ci troviamo al cospetto di Mercoledì Addams (Jenna Ortega), la dark teenagers per eccellenza, che fa un’estrema fatica ad ambientarsi nella propria famiglia fra gli enormi attriti che ha con sua madre Morticia (Catherine Zeta-Jones) e l’incolmabile lontananza emotiva con suo padre Gomez (Luis Guzmán). Dopo l’ennesima espulsione Mercoledì viene mandata alla Nevermore Academy, la scuola per “reietti” il cui più illustre studente è stato il grande Edgar Allan Poe, e che ha avuto fra i propri banchi anche Morticia e Gomez Addams, che proprio lì hanno iniziato la loro duratura relazione.
A dirigere l’istituto è la preside Larissa Weems (Gwendoline Christie) – ex compagna di stanza di Morticia – che viste le fredde inesorabili e micidiali reazioni a chi la infastidisce, obbliga Mercoledì a frequentare delle seduta di analisi presso la dottoressa Kinbott (Riki Lindhome). Ma la cittadina nei pressi della quale sorge la Nevermore Academy, nonostante questa sia alla base della propria economia, mal sopporta la vicinanza coi “reietti” che hanno poteri che i “normali” esseri umani non possiedono. La situazione rischia di degenerare quando lo sceriffo inizia a trovare, nei boschi che circondano la Nevermore, alcuni cadaveri fatti a pezzi…
Godibilissima e sfiziosa serie dark per eccellenza, con una protagonista che tutti avremmo voluto avere come compagna di classe durante la nostra adolescenza. Colma di deliziose citazioni del più classico cinema horror o di suspense, questa “Mercoledì” è da vedere, e non solo per gli amanti del genere.
Fedele nello spirito all’opera originale di Charles Addams, che con le sue strisce quotidiane punzecchiava la scintillante way of life americana centrata soprattutto sull’apparenza e non sulla sostanza, “Mercoledì” ci ricorda che i mostri più crudeli spesso si celano sotto l’aspetto più presentabile e innocente.
I primi quattro episodi sono diretti dal maestro Tim Burton, che dona alla serie una strepitosa luce gotica e assai inquietante. Non è un caso, per esempio, che Burton abbia diretto in precedenza Christina Ricci ne “Il mistero di Sleepy Hollow“.
La feroce urbanizzazione che, ormai da molti decenni, in Giappone sta riducendo inesorabilmente la vegetazione selvatica è una triste realtà che il cinema d’animazione del Sol Levante denuncia da tempo.
Oltre ai numerosi ed espliciti richiami che il maestro Hayao Miyazaki ha fatto in tutte le sue opere, il film “Pom Poko” di Isao Takahata, storico collaboratore di Miyazaki, prodotto dalla Studio Ghibli nel 1994 centra la sua storia sull’indiscriminata urbanizzazione raccontandola dal punto di vista dei Tanuki, creature mitiche della cultura orientale, protagonisti di numerosi miti e leggende.
Questa deliziosa mini serie d’animazione in stop motion, in quattro episodi da circa 50 minuti l’uno, riprende il tema portandoci nel cuore del Monte dei Kami, dove vivono gli spiriti più antichi della tradizione giapponese.
Fra i più piccoli c’è Onari, una bambina dalle piccole corna, figlia di Naridon, un grande e imponente spirito rosso con una folta chioma nera, che si prende cura di lei con amore sconfinato. Si avvicina però la fatidica notte della Luna Demoniaca – la luna rossa – che segna il terribile attacco da parte dei famigerati Oni ai danni del villaggio.
Tutti si preparano, anche i più piccoli che cercano di far sbocciare il più rapidamente possibile il loro potere di spirito. L’unica che non riesce a capire quale sia il suo è proprio Onari, che inizia così ad entrare in crisi. Inoltre, la piccola tenta in ogni modo di capire chi sia sua madre, della quale Naridon ha sempre rifiutato di parlare.
Nel suo doloroso ma indimenticabile viaggio Onari scoprirà molte cose, soprattutto che il mondo, che possa essere freddamente reale o magnificamente fantastico, non è inesorabilmente tutto bianco o tutto nero. E la contaminazione non è detto che sia sempre nociva e negativa…
Frutto di una coproduzione fra i due Paesi leader nella produzione mondiale di cartoni animati, questa serie “ONI: la leggenda del dio del tuono” merita di essere vista per la sua poesia che ci riconcilia col mondo frenetico e rumoroso in cui viviamo.
Il 22 giugno del 1983 scompare Emanuela Orlandi, una quindicenne romana “come tante”, che inspiegabilmente non rientra a casa. Ma Emanuela è una giovane abitudinaria e così i suoi familiari si allertano subito. Nello stesso giorno Giovanni Paolo II torna per la prima volta da Pontefice in Polonia.
E’ una vista epocale: la Polonia fa parte del blocco sovietico e l’ingombrante viaggio del Santo Padre è un chiaro attacco al regime di Mosca, visto poi che Karol Wojtyła ha chiaramente affermato di voler riportare il cattolicesimo oltre cortina e, soprattutto, appoggia pubblicamente e materialmente “Solidarność”, il sindacato fondato nel 1980 nei cantieri navali di Danzica e guidato da Lech Wałęsa che è diventato una delle più imponenti spine nel fianco del blocco sovietico.
A Roma, intanto, solo il giorno dopo viene fatta redigere la denuncia di scomparsa della giovane Orlandi, che gli inquirenti considerano uno dei numerosi – in quell’epoca – allontanamenti volontari di giovani adolescenti.
La famiglia Orlandi precipita naturalmente nella disperazione perché Emanuela sembra essersi volatilizzata nel nulla, senza lasciare traccia. Pochi giorni dopo, inaspettatamente, anche Giovanni Paolo II rientrato in Vaticano, all’Angelus lancia un appello ai “responsabili” della scomparsa di Emanuela. Ercole Orlandi, disperato, decide di pubblicare un’inserzione su un noto quotidiano romano chiedendo informazioni sulla figlia, mettendoci anche il numero di telefono di casa.
Cosa che fanno anche sui manifesti che stampano a loro spese a che vengono attaccati su quasi tutti i muri di Roma. Manifesti che io personalmente ricordo benissimo, visto che era quasi impossibile non incontrali camminando per la capitale, e che nel bene e nel male hanno segnato l’iconografia sociale di quegli anni. Inizia così un nuovo tormento per gli Orlandi: le continue vessazioni da parte di mitomani e sciacalli.
Ma fra le centinaia di telefonate arriva anche quella anonima di un uomo che possiede notizie attendibili su Emanuela. E in una di queste afferma che la ragazza è stata rapita e sarà rilasciata solo dopo la scarcerazione di Mehmet Ali Ağca, l’autore dell’attentato a Giovanni Paolo II avvenuto in piazza San Pietro il 13 maggio del 1981. La cosa cambia immediatamente la prospettiva della scomparsa di Emanuela che viene prepotentemente messa al centro dell’attenzione di tutti i media, e non solo italiani.
La Orlandi così non è più una ragazza “come tante”, ma è la vittima di un complotto internazionale al centro della guerra fredda fra Occidente e Oriente. A casa sua arrivano gli uomini dei Servizi Segreti italiani che prendono in mano la situazione. Al “Corriere della Sera” è un giovane reporter romano che si occupa del caso: Andrea Purgatori. E’ lui stesso a raccontarci, in questa ottima serie in 4 puntate, il corso delle sue indagini, parallele a quelle degli inquirenti.
Dopo le prime telefonate e l’associazione di Emanuela ad Ağca, l'”americano” – così viene chiamata la persona che le effettua, grazie al suo marcato accento inglese – inizia a contraddirsi e a non seguire una linea precisa. Per questo Purgatori si rivolge a una delle sue fonti, che in quel momento ha un ruolo di rilievo nei nostri Servizi Segreti, la quale gli esprime la massima perplessità sulla tesi che in quel momento va per la maggiore, e cioè che dietro il rapimento di Emanuela ci sia il KGB, l’intelligence sovietica, che non sarebbe assolutamente così vago e contraddittorio.
Allora Purgatori concentra l’attenzione su un’altra pista, una pista legata alla finanza vaticana che attraverso l’Arcivescovo Paul Marcinkus, presidente dello IOR – l’Istituto per le Opere Religiose, la banca del Vaticano – si era legata al Banco Ambrosiano e al suo presidente Roberto Calvi, trovato impiccato a Londra esattamente un anno prima. E Purgatori ipotizza proprio nelle centinaia di miliardi di lire che lo IOR versa a “Solidarność”, soldi che escono dai vari giri finanziari a cui partecipa anche la criminalità organizzata – che allora a Roma era la famigerata Banda della Magliana – il motivo di scontro che ha portato al rapimento di Emanuela Orlandi, prima cittadina vaticana a scomparire nella storia.
L’articolo non riscuote apparentemente un particolare successo, ma l’allora direttore del Corriere Alberto Cavallari chiede al giornalista di “fare un passo indietro” e occuparsi di altro. Andrea Purgatori così comprende di avere toccato un nervo scoperto e molto delicato, probabilmente assai vicino alla verità.
Passano gli anni ma di Emanuela non si hanno più tracce, e la famiglia Orlandi deve accettare di vivere con l’atroce consapevolezza di non poter portare neanche un fiore sulla sua tomba. La situazione cambia quando nel 2005, pochi mesi dopo la morte di Wojtyła un anonimo, attraverso la trasmissione “Chi l’ha visto?”, pone i riflettori sulla tomba di Enrico De Pedis, detto “Renatino”, boss indiscusso della Banda della Magliana, freddato in strada nei pressi di Campo de’ Fiori nel 1990, e che risulta tumulato incredibilmente e “inspiegabilmente” presso la Basilica di Sant’Apollinare nel cuore di Roma, edificio adiacente a quello della scuola di musica, ultimo luogo noto dove venne vista Emanuela Orlandi.
Sulla scia di queste nuove rivelazioni venne rintracciata una delle amanti del De Pedis all’epoca del rapimento, che dichiara di avere tenuto lei prigioniera, nella sua casa al mare sul litorale romano, Emanuela Orlandi per qualche giorno su richiesta proprio del suo amante. Secondo la donna, la ragazza era continuamente drogata per non dare problemi. Dopo alcuni spostamenti, fu lei stessa – sempre secondo la sua testimonianza – su incarico del De Pedis a consegnarla a un prelato proprio nei pressi delle mura vaticane.
Le teorie prendono un’altra piega e gli inquirenti cercano nuove conferme e nuove piste, tutte comunque portano inesorabilmente dentro le mura dello Stato più piccolo del mondo. Un nuovo elemento che pone un ulteriore punto di vista è la recente testimonianza di una allora compagna di scuola della Orlandi secondo la quale la stessa, pochi giorni prima di scomparire, le aveva confessato di essere stata gravemente “molestata” durante il suo solito girovagare nei giardini vaticani da un’importante personalità molto vicina al Papa, come ad esempio avrebbe potuto essere Marcinkus.
Purtroppo i casi di pedofilia e molestie sessuali riconducibili al Vaticano e al suo clero fanno ormai parte della storia recente, ma allora non era concepibile neanche sussurrarli. E così chi avrebbe creduto a una ragazzina? …Si chiede in lacrime oggi la donna. Le ipotesi sono molte, come quella di un ricatto da parte del De Pedis al Vaticano tramite proprio la giovane Emanuela vittima suo malgrado di un abuso da parte di un alto prelato.
A quasi quarant’anni dalla sua scomparsa l’unica cosa certa è che dietro le mura vaticane si nascondono la dinamica e la conclusione – se non tutte almeno una buona parte – del rapimento e della vita di una giovane adolescente romana. Come ci ricorda Purgatori, però, sono duemila anni che la Santa Sede è uno dei più potenti centri di potere mondiali, e quindi allo stesso tempo è anche luogo di complotti e lotte intestine senza esclusioni di colpi. Lotte e scontri che hanno avuto forse come tragico “effetto collaterale” la vita di una giovane e innocente ragazza e di tutta la sua famiglia che ancora oggi vive nello strazio del dubbio e dell’ignoto.
Quello che ancora oggi lascia sconcertati è vedere le immagini di repertorio in cui Giovanni Paolo II, poche settimane dopo la sua scomparsa, si reca a casa Orlandi per consolare i familiari di Emanuela, lui che indiscutibilmente come Papa la verità l’avrebbe dovuta sapere. Ma la Santa Sede non ha mai espresso l’intenzione di collaborare reputando la scomparsa della Orlandi un evento consumatosi sul suolo italiano e non vaticano. Anche con questa serie, per esempio, la Santa Sede non ha voluto collaborare.
Non è semplice parlare di dolore e lutto durante l’infanzia.
Ci sono però alcune opere davvero belle e struggenti, che possono aiutare nell’affrontare la tragedia di una grave perdita, come il romanzo tratto dall’opera dell’indimenticabile Siobhan Dowd – ed elaborato da Patrick Ness – portato ottimamente sul grande schermo da Juan Antonio Bayona nel 2016 con l’omonimo titolo “Sette minuti dopo la mezzanotte“, o “Un ponte per Terabithia” pubblicato da Katherine Paterson nel 1976 e adattato per il cinema nel 2007 da Gabor Csupò.
All’elenco si può aggiungere pure questa serie televisiva, in quattro puntate, anch’essa tratta da un libro: “Ollie e i giocattoli dimenticati” pubblicato da William Joyce, prolifico scrittore di libri illustrati per bambini, vincitore del premio Oscar nel 2012 col cortometraggio animato “The Fantastic Flying Books of Mr. Morris Lessmore” e uno dei più noti autori delle copertine del “The New Yorker”. Ideata da Shannon Tindle (già autore dello script del bellissimo “Kubo e la spada magica” diretto da Travis Knight nel 2016) e scritta assieme a Kate Gersten e Marc Haimes (anche lui coautore di “Kubo e la spada magica”) la serie è diretta da Peter Ramsey.
Il coniglio di pezza Ollie si risveglia in uno scatolone dentro un vecchio negozio di cose usate. La sua memoria sembra essere scomparsa e l’unica cosa che ricorda è di appartenere al bambino Billy. Così, una volta sistemato su uno scaffale, rifiuta cortesemente l’invito di Suzy, una bambina che si offre di adottarlo.
Ma senza memorie, e quindi senza sapere dove andare, tutto è molto complicato. Fortunatamente in suo soccorso arriva Zozo, un vecchio pupazzo da baraccone che, incantato dal particolare campanellino che Ollie possiede al posto del cuore, decide di aiutarlo.
La prima cosa che Zozo fa fare a Ollie sono dei disegni per risvegliare i suoi ricordi, disegni che poi il vecchio pupazzo incolla l’uno all’altro ottenendo una sorta di mappa per trovare Billy. Ai due si unisce Rosy, un orso di peluche che Zozo molto tempo prima è riuscito a ricucire.
Intanto nella mente del coniglio di pezza iniziano a tornare frammenti di memoria con immagini e sensazioni di profondo affetto che circondano il piccolo Billy, che però inesorabilmente dovrà affrontare una prova dura e molto dolorosa…
Commovente ed emozionante, questa serie ci sottolinea, visto che ce ne è sempre bisogno, come nella vita sia importante l’amore, l’affetto e la serenità di saper lasciare andare le cose, anche quelle più dolorose.
Nella versione originale la voce di Rosy è quella straordinaria della cantate Mary J. Blige.