“Corte d’Assise” di Georges Simenon

(Adelphi, 2010)

Ci sono scrittori capaci di raccontare l’animo umano con una semplicità disarmante, e poi c’è Georges Simenon, che fa sembrare questa capacità quasi un gioco da ragazzi. Pubblicato per la prima volta nel 1941 – ma scritto nel 1937 e rifiutato molte volte perché tacciato di “assoluta immoralità” – “Corte d’assise” è uno di quei romanzi in cui l’autore, senza i soliti riflettori puntati su Maigret, si addentra nei territori più oscuri dell’animo umano, con una precisione chirurgica e un tocco di poesia che lascia il segno.

Il protagonista di questa tragedia umana è Louis Bert, detto Petit Louis, un uomo che sembra già condannato fin dal primo capitolo. Accusato dell’omicidio della sua amante Jeanne Ropiquet, Louis si ritrova in un’aula di tribunale, dove si gioca non solo il suo futuro, ma anche la comprensione di ciò che lo ha portato fin lì. Simenon ci guida attraverso il processo con una narrazione che va avanti e indietro nel tempo, mostrandoci la vita del protagonista come un film a pezzi, fatto di miseria, disperazione e scelte sbagliate.

Louis non è un mostro, non è un criminale spietato; è un uomo fragile, spezzato dalle circostanze, incapace di fuggire da una vita che sembra decisa per lui sin dalla nascita. È proprio in questo tratteggio psicologico che Simenon dà il meglio di sé. L’autore non ci offre la storia di un assassino da condannare o da assolvere, ma di un essere umano che cade, quasi inevitabilmente, nel vortice degli eventi.

Se vi aspettate una riflessione su giustizia e morale, siete nel posto giusto, ma sappiate che Simenon non è uno scrittore da soluzioni facili. In “Corte d’assise“, la giustizia non è mai bianca o nera e così, come nell'”Antigone” di Sofocle, la Legge si scontra inevitabilmente con la Morale. L’aula di tribunale diventa il teatro di una rappresentazione in cui le parti in causa — giuria, pubblico, giudici — non sono altro che attori in un gioco prestabilito. E noi lettori ci ritroviamo a osservare, con lo stesso senso di impotenza di Louis, il suo destino scivolare via.

Simenon non ci dice mai apertamente se Louis è colpevole o innocente, perché la colpa non è una questione di leggi scritte, ma di umanità. Le vite dei personaggi di Simenon non si possono spiegare con formule giuridiche: sono troppo complesse, troppo imperfette.

Come al solito, Simenon colpisce con la sua prosa asciutta e precisa. Ogni parola sembra scelta con cura maniacale, ogni dialogo affilato come una lama. Non c’è spazio per fronzoli o descrizioni inutili, perché ciò che conta è la tensione che cresce pagina dopo pagina, fino al climax inevitabile. E quella tensione è costante, palpabile, senza mai risultare forzata o esagerata.

L’atmosfera del romanzo è cupa e opprimente, tanto che sembra di sentire l’odore della polvere nell’aula di tribunale, di percepire il rumore dei passi degli avvocati, il fruscio dei documenti maneggiati dalla giuria. Non è solo un romanzo, è un’esperienza che ti avvolge e ti lascia un senso di disagio profondo, proprio come un buon Simenon dovrebbe fare.

Corte d’assise” non è tra i titoli più noti del prolifico autore belga, ma è uno di quei romanzi che una volta finiti ti rimangono attaccati addosso. Simenon ha il dono di farti riflettere sul destino e sulla fragilità della condizione umana, senza mai risultare moralista o didascalico. Se vi piacciono i romanzi che scavano nell’animo umano, che non hanno paura di mostrarvi le debolezze dei personaggi, allora questo libro è una tappa obbligata. Perché in fondo, come ci insegna Simenon, siamo tutti un po’ come Petit Louis: schiavi delle nostre scelte e vittime di un mondo che non ci capisce davvero.

E se vi aspettate un lieto fine, beh, state leggendo l’autore sbagliato.

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“La fattoria del Coup de Vague” di Georges Simenon

(Adelphi, 2021)

Con questo romanzo il maestro Simenon ci porta nella grande spiaggia chiamata Coup de Vague – che si può tradurre “colpo d’onda” – non troppo distante da La Rochelle, il capoluogo del distretto della Charente Marittima in Nuova Aquitania, nel sud est della costa atlantica francese.

Lì, da generazioni, gli abitanti raccolgono le ostriche che la marea oceanica lascia sull’arena, visto poi che il fondo marino è diviso da pali che rappresentano veri e propri confini, come quelli dei terreni agricoli in superficie.

A dominare la spiaggia c’è, con i suoi muri rosa, la fattoria del Coup de Vague, dove vivono le due sorelle, alla soglia della terza età, Emilie e Hortense.  Con loro vive il quasi trentenne Jean, che con la sua bella prestanza fisica è fra gli scapoli più ambiti della zona. Poco prima dell’alba, assieme alle sue zie, si reca sulla spiaggia quando il mare si è ritirato per raccogliere il prezioso raccolto di ostriche che poi verrà venduto non solo in Francia, ma anche all’estero, come in Algeria.

Il resto del giorno Jean lo passa ad aiutare le zie con gli animali e i raccolti della fattoria, a portare i carichi per essere imbarcati a La Rochelle, a correre con la sua motocicletta e a corteggiare le ragazze. Proprio con la giovane Marthe, Jean prende l’abitudine di appartarsi nel piccolo bosco adiacente la fattoria.

Dopo qualche settimana la ragazza gli rivela, preoccupata, di essere incinta. Jean, senza entusiasmo, accetta di sposarla ma, una volta comunicata la notizia alle zie, queste prendono in mano la situazione e convincono la giovane ad abortire clandestinamente.

La notte successiva Marthe è vittima di una grave emorragia. Il medico riesce a salvarla, ma la ragazza rimane visibilmente provata e molto debole. Il padre si reca alla fattoria Coup de Vague dove, in poco tempo, convince Emilie e Hortense a far sposare Marthe e Jean.

Inizia così per Jean una nuova fase della propria vita da uomo sposato, ma il matrimonio sarà anche il mezzo per scoprire e comprendere molte cose su se stesso e soprattutto sulle sue zie che tutti nella zona considerano delle vere e proprie “megere”…

Duro e senza sconti romanzo di Simenon che ci descrive in maniera cruda la società in cui le donne, per sopravvivere, non possono far altro che aderire incondizionatamente al patriarcato. E quelle che non ci riescono, come Marthe, non possono che soccombere.

Un romanzo senza speranza e senza sconti, firmato da uno dei più grandi autori del Novecento, capace come pochi altri eletti di regalarci ritratti di donne indimenticabili, sia nel bene che nel male.

“L’assassino” di Georges Simenon

(Adelphi, 2012)

Il dottor Hans Kuperus è un uomo ordinario e rispettoso delle regole morali e sociali con le quali è cresciuto.

Ha uno studio medico a Sneek, la piccola cittadina dove è nato, situata nella Frisia, nel nord dell’Olanda. Mantenendo i prezzi bassi, la sua sala d’aspetto è sempre piena. Anche se è sposato da anni, non ha figli ed il rapporto con sua moglie si è serenamente adeguato alla situazione.

Periodicamente partecipa alla riunione dell’Associazione di Biologia Olandese ad Amsterdam. Ma questo martedì, una volta arrivato nella capitale, non si reca all’assemblea per poi dormire a casa della cognata, come fa sempre. Si ferma, invece, in un negozio di armi, compra una pistola e corre in stazione a prendere l’ultimo treno per tornare a casa.

Giunto nelle vicinanze di Sneek il treno si ferma a causa di un imprevisto e Kuperus ne approfitta per scendere, senza essere visto, e seguire la riva del lago Zuidersee. Come indicato nella lettera anonima che stringe con rabbia in tasca, in un capanno lì vicino sua moglie ha un appuntamento galante con il conte Shutter, l’uomo più ricco della regione e impenitente donnaiolo, che da anni gli soffia regolarmente la presidenza dell’Accademia del Biliardo di Sneek.

Kuperus li sorprende mentre escono dal bungalow e li fredda senza pietà, spingendo poi i corpi nel lago che, vista la stagione, sta per ghiacciarsi. Liberatosi dalla rabbia che lo attanagliava, il medico torna in città e si reca subito al caffè Onder de Linden per giocare al suo tanto amato biliardo. La sera, rientrato a casa, Kuperus decide di possedere Neel, la giovane procace e volitiva cameriera che ha a servizio. Da tempo sogna il suo corpo, ma prima di uccidere la moglie e il suo amante mai avrebbe osato sfiorarla.

Il medico, il giorno dopo, denuncia candidamente la scomparsa della moglie e l’intera cittadina, venuta a conoscenza ance dell’improvviso allontanamento di Shutter, subito pensa a una classica e clandestina fuga d’amore. Kuperus, così, viene considerato da tutti una vittima e il suo ruolo sociale acquista più prestigio fino ad essere nominato il nuovo presidente dell’Accademia del Biliardo, data la latitanza del conte che si è reso, inoltre, colpevole di aver creato uno scandalo che difficilmente Sneek potrà dimenticare.

Ma quando, con la primavera, il ghiaccio libera i corpi dei due amanti, anche senza prove inappellabili, la comunità comprende che dietro al duplice omicidio c’è lui, che oltretutto non nasconde affatto la relazione con la sua cameriera. Per questo, da quelli che una volta erano i suoi più “cari amici” e che sono al tempo stesso i notabili più prestigiosi della zona, riceve il “caloroso” invito a lasciare la cittadina e permettere a tutti di dimenticare il più in fretta possibile la tragica e scandalosa vicenda.

Ma il medico, ormai in preda a un vero e proprio delirio emotivo, non vuole lasciare la sua casa e il suo studio, anche se ormai la sala d’aspetto è deserta. Per molti suoi concittadini, infatti, Kuperus oltre ad essere un assassino, ha la grave colpa di non comportarsi secondo le regole sociali e morali…

Il maestro Simenon ci regala una morbosa, carnale e claustrofobica discesa agli inferi di un uomo, educato e cresciuto nell’assoluto rispetto delle regole sociali, che non riesce a concepire chi, come sua moglie ed il suo amante, non lo fa e per questo li uccide.

Ma il diventare un assassino e, soprattutto, essere riconosciuto come tale da tutti per Kuperus è insostenibile proprio per lo stesso motivo, tanto da compromettere inesorabilmente la sua esistenza. Un romanzo tagliente e spietato, come il più becero e ottuso perbenismo.

Scritto nel 1935 e pubblicato per la prima volta nel 1937, “L’assassino” è drammaticamente attuale come il suo intramontabile e immortale autore.

“Il porto delle nebbie” di Georges Simenon

(Mondadori, 1958)

Pubblicato per la prima volta nel 1932 questo “Il porto delle nebbie” è il quindicesimo romanzo che il maestro Simenon dedica al suo commissario Maigret.

Fra le strade di Parigi viene ritrovato un uomo in evidente stato confusionale. Sulla testa ha una grande cicatrice ben curata, sulla quale i capelli sono stati accuratamente rasati. Ma a parte un cordiale sorriso, l’uomo non sa esprimersi.

Partono così i fonogrammi e i telegrammi in tutto il Paese per verificare se sia una delle persone scomparse denunciate. Ma solo quando la sua fotografia appare sui giornali la Polizia riesce a identificarlo. Si tratta del capitano della marina mercantile Yves Joris, scomparso qualche mese prima dalla piccola località di Ouistreham, che di fatto è il porto Caen, città capoluogo del dipartimento del Calvados in Normandia.

Maigret così lo riaccompagna a casa assieme a Julie, la sua governante e colei che lo ha riconosciuto. Ma proprio la notte del suo rientro Joris viene avvelenato. Per Maigret è una sfida personale nella tragedia: proprio sotto i suoi occhi è stato commesso un crimine ai danni di una persona indifesa e ormai incapace di nuocere a chiunque.

Sotto un cielo cupo, piovoso e tetro si consuma l’inchiesta del commissario che, anche questa volta, dovrà indagare nell’anima dei sospetti, nelle loro debolezze e nei loro più profondi segreti, per scoperchiare la vicenda e individuare il colpevole.

Ma le difficoltà sono molte, a partire dal fatto che lui è un “contadino” – come si auto definisce – che deve impicciarsi e fare domande fra l’insondabile gente di mare che lo osserva sempre con molta diffidenza.

Ouistreham si è sviluppata attorno alla chiusa del “Canal de Caen à la Mer”, da cui passano tutte le imbarcazioni e i mercantili che raggiungono o lasciano il capoluogo del Calvados. E così tutta, o quasi, l’azione del romanzo si consuma intorno ad essa, come nel bellissimo “La casa dei Krull” che Simenon scriverà pochi anni dopo.

“La casa dei Krull” di Georges Simenon

(Adelphi, 2017)

Il maestro Georges Simenon ci racconta la storia di una casa ai margini di una piccola cittadina fluviale francese.

Cornélius Krull, il patriarca della famiglia, arrivò molti decenni prima dalla Germania stabilendosi in una baracca, ad intrecciare le sue ceste di vimini, fuori dal piccolo centro abitato che ruotava intorno alla chiusa del fiume, sul quale quotidianamente passavano le chiatte. Col passare del tempo il piccolo paese è diventato una piccola cittadina e che ha inglobato la casa dei Krull.

Ma anche se Cornélius, sua moglie e i suoi tre figli sono ufficialmente naturalizzati francesi, molti li considerano dei “crucchi” e così preferiscono camminare anche qualche chilometro piuttosto che servirsi da loro. L’ombra della guerra (la prima) è ancora forte e il razzismo porta tutti, o quasi, a considerare i Krull gente strana e inaffidabile, e così il loro spaccio è frequentato soprattutto da marinai di passaggio e dai meno abbienti della zona.

La cosa, naturalmente, ha influito e influisce pesantemente nella vita di tutti. Ma se Cornélius e la moglie Maria sembrano essercisi rassegnati, i loro tre figli Anna, Joseph e l’adolescente Elisabeth sembrano invece non riuscirci. Soprattutto Joseph Krull, a cui manca poco per laurearsi in medicina, che da sempre vive male la sua patologica timidezza nei confronti dell’altro sesso.

Un giorno alla porta della casa si presenta Hans, il figlio di Wilhelm Krull fratello di Cornelius, in cerca di ospitalità. A differenza dei suoi parenti, Hans non nasconde affatto le sue origine tedesche e non cerca di integrarsi senza attirare troppa attenzione. Ha un carattere scostante e arrogante, e ama godersi la vita e sedurre tutte le donne che gli capitano a portata di mano.

Le cose precipitano quando nel fiume, a pochi metri dalla casa dei Krull, viene rinvenuto il corpo di una ragazzina che è stata strangolata e poi violentata prima di essere gettata nelle acque. Tutti, a partire dagli inquirenti, non possono fare a meno di pensare che l’efferato delitto abbia le sue radici in quella “dannata” casa…

Pubblicato per la prima volta nel 1938, e in Italia nel 1965, questo breve ma coinvolgente romanzo ci parla del becero e subdolo razzismo dietro al quale si nascondo sempre ignoranza, grettezza e soprattutto tornaconti personali. E’ per questo che Hans: “Intuiva forse che adesso toccava a lui essere la Straniero, la causa di tutti i mali del mondo?”.

Simenon ci racconta così, in maniera superba e travolgente, l’accendersi della miccia di una ottusa e razzista rivolta popolare contro una famiglia “straniera” e mai accettata, che diventa il comodo e facile capro espiatorio dei mali di una cittadina e di una società. Dinamiche che ricordano molto quelle descritte dal grande John Wainwright (autore non a caso amato dallo stesso Simenon) nel suo “Anatomia di una rivolta” nel 1982.

Drammaticamente attuale.

“Noi due senza domani” di Pierre Granier-Deferre

(Francia/Italia, 1973)

Julien Maroyeur (Jean-Louis Trintignant) è sposato con Monique (Nike Arrighi) che è all’ultimo mese di gravidanza, e insieme hanno già una figlia di sette anni. Come tutti i suoi connazionali d’oltralpe, nel maggio del 1940, viene travolto dalla notizia dell’invasione dal Belgio da parte della Germania nazista. Vivendo nelle Ardenne, a pochi chilometri dal confine col Belgio, decide di fuggire verso sud.

L’unico mezzo a sua disposizione è il treno che parte dalla stazione del piccolo paese in cui vive. Se Monique, visto il suo stato, e la loro bambina vengono ospitate in prima classe, lui si deve arrangiare in uno degli ultimi vagoni merci, come fanno tutti gli altri.

Inizia così un lungo viaggio fatto di attese sotto l’ombra tragica della guerra sempre più vicina. Sul vagone Julien incrocia gli occhi splendidi ma al tempo stesso addolorati di Anna (Romy Schneider), una donna sola che sta fuggendo anche lei dalla guerra. Durante una delle innumerevoli fermate una notte il treno viene diviso e, senza che Julien se ne accorga, il vagone di prima classe con Monique e la piccola viene attaccato ad un altra locomotiva e parte per un’ignota destinazione.

Intanto fra lui e Anna nasce una relazione che li fa diventare, nel micromondo del vagone, una vera e propria coppia. Anna le confessa di essere fuggita dalla Germania perché ebrea. Due anni prima suo marito, il direttore di un’importante quotidiano liberale, è stato prelevato dalle forze dell’ordine del III Reich e sparito nel nulla. Pochi giorni prima della sua fuga i nazisti hanno arrestato anche i suoi genitori.

Dopo parecchie settimane finalmente Anna e Julien riescono a raggiungere l’ospedale dove ha appena partorito Monique, ma Anna…

Tratto dal bellissimo romanzo “Il treno” pubblicato dal maestro Georges Simenon nel 1961 questo film, scritto dallo stesso Pierre Granier-Deferre assieme a Pascal Jardin, ci racconta in maniera indiretta la tragedia della guerra non dal punto di vista di chi la combatte in prima linea, ma da chi la subisce passivamente cercando solo un rifugio per se i per i suoi affetti più cari. Argomento che drammaticamente, purtroppo, non diventa mai obsoleto anche nel nostro Paese.

Rispetto alla storia e ai personaggi disegnati superbamente dal maestro Simenon, Granier-Deferre inserisce alcune differenze che trovano il loro apice nella struggente scena finale. Da ricordare l’ottima interpretazione dei due protagonisti: il “solito” bravissimo Trintignant nel ruolo di un uomo pacato e apparentemente passivo, e la Schneider col suo sguardo bellissimo ma al tempo stesso fragile e tormentato.

Nella nostra versione a curare l’adattamento dei dialoghi è Sandro Continenza.

“Il treno” di Georges Simenon

(Adelphi, 2013)

Marcel Féron è un uomo mite. I suoi gravi problemi agli occhi lo hanno reso un bambino sempre molto pacato prima e un adulto sempre molto calmo poi. Data la sua salute cagionevole – è stato affetto anche dalla tubercolosi – e la sua vista limitata, a causa della quale Julien ha dovuto portare quasi da subito degli occhiali con delle enormi lenti a “fondo di bottiglia”, è stato sempre convinto di dover passare una vita solitaria.

Ma grazie alla sua passione per la meccanica e per l’elettricità è riuscito ad aprirsi un laboratorio di riparazioni e vendita di apparecchi radiofonici. Ma soprattutto Marcel, contro ogni sua aspettativa, ha creato una famiglia. Si è sposato con Jeanne e da lei ha avuto la piccola Sophie.

Adesso sua moglie è nuovamente incinta, ed è al settimo mese di gravidanza. Tutto sembra procedere nei binari ordinari e pacifici che tanto si addicono a Marcel, ma invece vacilla nel maggio del 1940 quando le truppe della Wehrmacht invadono il Belgio.

La località francese dove vive Marcel, con la sua famiglia, si trova nelle Ardenne ed è proprio al confine col Belgio. Già dall’alba le strade della cittadina si riempiono di numerosi furgoncini o automobili belgi, che fuggono dalle truppe tedesche.

Marcel, in poche ore, decide di partire per proteggere sua moglie e sua figlia. Ma non possedendo alcun mezzo di trasporto, fatta eccezione di un piccolo carretto in legno che usa per riconsegnare le radio ai clienti, è costretto a recarsi nella piccola stazione locale, che è già invasa da decine di persone che come lui vogliono mettersi in salvo.

I volontari e le ausiliare fanno salire, visto il suo stato, Jeanne e la piccola Sophie sul vagone di prima classe, mentre Marcel riesce a trovare un angolo in uno dei vagoni merci in fondo al convoglio.

In pochi instanti i Féron diventano una famiglia di profughi senza più una casa e una vera destinazione, se non un luogo che sia il più lontano possibile dalla guerra. Inizia così un viaggio allucinante, fatto di separazione, di interminabili ore fermi in un binario morto, senza spesso poter neanche scendere.

Col passare del tempo, sul vagone, si crea una micro società con le sue regole e le sue concessioni. E proprio sul vagone Marcel incrocia lo sguardo di Anna, una giovane donna austera e volitiva, e come lui sola…

Ancora un indimenticabile viaggio – è proprio il caso di dirlo – che il maestro Simenon ci fa fare nell’animo di un uomo che tutti, a partire da se stesso, hanno sempre considerato semplice e forse anche mediocre. Ma gli eventi lo porteranno a precipitare negli occhi di una donna enigmatica ma al tempo stesso limpida. Una donna molto particolare, irrisolta e per questo tanto reale, come forse solo il maestro Simenon sapeva tratteggiare.

Scritto nel 1961, questo bel romanzo acquista oggi un sapore ancora più particolare raccontandoci di profughi, viaggi della speranza e treni che portano lontano dalla guerra, argomento funesto tragico e tanto – …troppo – attuale.

Nel 1973 Pierre Granier-Deferre dirige l’adattamento cinematografico dal titolo “Noi due senza domani” con Jean-Louis Trintignant e Romy Schneider.

“In caso di disgrazia” di Georges Simenon

(Adelphi, 2014)

L’avvocato Lucien Gobillot è uno dei più famosi di Parigi. E’ il penalista più noto del foro della capitale francese, e nel corso della sua lunga carriera non ha rinunciato a difendere anche rei moralmente ambigui.

Il suo studio – forse per questo – è uno dei più ambiti, e averlo dalla propria parte è una garanzia molto spesso di successo. Fra i suoi clienti ci sono nomi illustri e aziende internazionali, visto che il suo cognome è conosciuto anche all’estero.

Molto del suo successo Gobillot lo deve a sua moglie Viviane, fra le personalità più rilevanti dei salotti parigini. La donna era la giovane moglie di un altrettanto noto principe del foro, presso il quale lo stesso Gobillot iniziò la sua carriera.

Ma Viviane, con grande stupore dello stesso Gobillot, scelse lui e lasciò l’ansiano avvocato per il suo giovane e assai promettente assistente. Grazie a Viviane e alle sue pubbliche e private relazioni personali, lo studio del nuovo marito in poco tempo prese quota e il nome Gobillot divenne uno dei più citati e ricercati al Palazzo di Giustizia.

Ma la sera dello scorso 6 novembre Lucien Gobillot ha iniziato a scrivere un vero e proprio memoriale che inserisce in un fascicolo, in carta di Lione beige, esattamente uguale a quelli che redige per i suoi casi. Ciò che lo spinge a farlo è il timore, o forse la certezza, che quelle pagine possano diventare utili …in caso di disgrazia.

Circa un anno prima Gobillot ha conosciuto la ventenne Yvette, una giovane prostituta implicata nel furto di alcuni orologi in un negozio, e che proprio da lui è andata per essere difesa. L’avvocato, incuriosito dal carattere e dall’aspetto della giovane, l’ha fatta parlare e al momento delle garanzie per pagare la parcella la giovane, come se fosse la cosa più naturale, gli si è offerta sessualmente.

Gabillot ha declinato l’invito, ma ha lo stesso deciso di diventare il suo legale Pro Bono. Il caso, e soprattutto il difensore, hanno suscitato non poco l’interesse della stampa e degli addetti ai lavori. Solo dopo l’assoluzione Gobillot è diventato l’amante di Yvette.

Il rapporto con la sua ormai ex cliente, per l’avvocato è diventato sempre più possessivo e morboso, soprattutto da quando Yvette gli ha confessato di aver incontrato un giovane, tale Mazetti, intenzionato a sposarla. Per GobiIlot il nuovo amore rischia però di rallentare le frenetiche attività del suo studio, ma la stessa Viviane ne è a conoscenza e lo tollera purché il marito rispetti gli impegni ufficiali che lei programma. Ma…

Finito di scrivere nel 1955 e pubblicato per la prima volta l’anno successivo, questo “In caso di disgrazia” ci parla degli uomini che vogliono trattenere e stringere le donne ma che in realtà alla fine e nel profondo proprio non le comprendono. E forse per questo non riescono ad afferrarne la vera essenza.

Il maestro Simenon, che invece le capiva molto bene, tratteggia superbamente ancora una volta il ritratto di alcune donne indimenticabili e, in un modo o nell’altro, vittime loro malgrado dell’ottusità degli uomini. E non è solo quello della giovane e affamata di vita Yvette, ma anche quello indimenticabile di Viviane, donna matura e razionale.

Un altro viaggio intimo e carnale nel rapporto fra uomini troppi miopi e immaturi e donne troppo libere ed emancipate.

“Il presidente” di Henri Verneuil

(Francia/Italia, 1961)

Ispirata al romanzo “Il presidente” pubblicato dal maestro George Simenon un paio di anni prima, questa pellicola ci offre una rilevante interpretazioni di Jean Gabin che veste il ruolo di uno dei più importanti statisti francesi del Novecento.

Appena giunto a Parigi, il Primo Ministro britannico parte con tanto di scorta e codazzo di giornalisti per La Verdière, una piccola località della Provenza dove risiede Émile Beaufort, notissimo politico transalpino, numerose volte Presidente del Consiglio ma ormai ritiratosi da molti anni, suo storico compagno di lotte politiche internazionali.

La stampa francese, e non solo, si chiede e ipotizza l’argomento dell’incontro riservato fra i due, che però nella realtà è soprattutto una rimpatriata amichevole. Beaufort, partito il suo vecchio amico, torna alla sua routine quotidiana fatta di molte medicine, data la sua età e la sua salute cagionevole, e soprattutto fatta di ricordi politici e personali.

Da tempo, infatti, sta dettando alla sua storica segretaria Mademoiselle Milleran (Renée Faure) la sua autobiografia, attraverso la quale rivive i momenti fatidici della sua carriera, come quando fu tradito dal “fedele” assistente Philippe Chalamont (interpretato da un bravissimo Bernard Blier) o quando decise di ritirarsi “ricattato” da quasi tutto il Parlamento per la sua decisione di aderire al progetto dell’Europa Unita.

Leggendo i giornali, ascoltando la radio e guardando la televisione, Beaufort viene a sapere che per risolvere la grave crisi istituzionale che affligge la Francia, il Presidente della Repubblica ha incaricato proprio Chalamont di fare un Governo di unità nazionale.

Visto che possiede un documento assai compromettente per lo stesso Chalamont, Beaufort sa che il suo ex assistente verrà ad incontrarlo prima di accettare l’incarico datogli dal Presidente della Repubblica. E così, nel suo studio solitario il Presidente – così come ormai tutti chiamano Beaufort – contornato dai suoi ricordi attende un incontro che aspetta da oltre vent’anni. Ma la politica è una cosa dura e spietata…

Discreto film centrato sul tema della politica e dei suoi oscuri e bui corridoi che ci regala un grande Gabin in un ruolo insolito nella sua carriera. Proprio per far aderire al meglio al grande attore francese il personaggio, Verneuil e Michel Audiard – autori della sceneggiatura – si discostano dal personaggio originale creato da Simenon per crearne uno abbastanza differente, sia per l’età – il Beaufort del romanzo ha ottantadue anni mentre quello del film settantadue – che per le dinamiche politiche che lo vedono protagonista.

Il risultato comunque merita di essere visto e apprezzato anche a distanza di oltre sessant’anni. Nella nostra versione deve essere ricordato il grande Emilio Cigoli che doppia superbamente, ancora una volta, Jean Gabin.

Per la chicca: nonostante la produzione – così come lo stesso Simenon fece all’uscita del suo romanzo – dichiarò esplicitamente che Beaufort non era ispirato a nessun politico reale, le cronache contemporanee lo associarono a Georges Clemenceau (1841-1929), fautore dell’alleanza franco-britannica nonché artefice del Trattato di Versailles che mise fine alla Prima Guerra Mondiale, politico che lo stesso Gabin/Beaufort cita all’inizio della pellicola.

“Il presidente” di Georges Simenon

(Adelphi, 2012)

Émile Beaufort è stato uno degli uomini più influenti di Francia e del mondo. Il suo carattere decisionista, volitivo e pratico lo ha reso uno degli statisti più famosi del suo tempo. Alla politica e alla Francia Beaufort ha sacrificato tutto, anche la sua vita privata.

E’ stato sposato, è vero, ma solo per circa tre anni. Ha avuto anche una figlia, ma che non ha mai veramente frequentato e non vede da molto tempo. Beaufort è stato uno dei “Cinque Grandi”, che erano i cinque capi di stato che per molto tempo hanno governato l’intero pianeta. Ma adesso, tranne lui, i “Cinque Grandi” sono tutti morti. Così come sono scomparse moltissime delle persone con cui ha fatto politica per tanti decenni.

Beaufort ormai ha superato gli ottant’anni e vive a “Les Ébergues”, una residenza che ha scelto molti anni prima come luogo di risposo e villeggiatura, e poi messagli a disposizione dal Governo. La villa è a pochi chilometri da un piccolo porto della Normandia dove tutto lo conoscono e lo chiamano: il Presidente.

Ma se Beaufort è stato numerose volte Presidente del Consiglio, non è mai riuscito a diventare Presidente della Repubblica. Il treno per l’Eliseo passa una sola volta nella vita di un politico, anche in quella di uno consumato e scaltro come lui, e quella volta sulla sua strada ci si è messo Chalamont, il suo fedele e storico assistente.

Da quel giorno i due non si parlano più e il giovane intraprese la sua carriera politica indipendentemente dal suo storico mentore che, poco prima di ritirarsi, dichiarò perentoriamente: “Chalamont non sarà mai Presidente del Consiglio finché io sarò in vita …e neanche dopo”.

Il Presidente ormai passa le giornate seduto sulla sua poltrona Luigi Filippo ad osservare il fuoco nel camino che la sua storica segretaria rintuzza con precisione maniacale, assistito dai suoi collaboratori fedelissimi come Emilè, il suo autista che è l’unico a cui lui dà del tu. Nelle sue giornate ci sono anche l’infermiera e il medico che si prendono cura della sua salute ormai divenuta cagionevole dopo un ictus che lo ha colpito poco tempo prima. Inoltre, nel giardino de Les Ébergues si alternano ventiquattro ore al giorno tre poliziotti inviati dal Ministero degli Interni per garantire la sua sicurezza.

Ma davanti al fuoco Beaufort ripercorre la sua vita politica – e non solo – ripercorrendo la sua carriera, le sue vittorie e le sue – poche ma determinanti – sconfitte, soprattutto adesso che tutti i giornali e radiogiornali – che lui ascolta in ogni edizione – parlano della grave crisi di Governo che ha investito il Paese. Perché l’ultima risorsa per il Presidente della Repubblica, l’ultimo politico che sembra poter ottenere la fiducia per un suo Governo dopo che tutti, da settimane, naufragano miseramente, sembra essere proprio Chalamont…

Splendido romanzo intimista del maestro Simenon che ci porta magistralmente – come sempre – nell’animo del suo protagonista e ci racconta la storia personale di un uomo che ha fatto la storia. Finito di scrivere nell’ottobre del 1957 e pubblicato per la prima volta l’anno successivo, questo bellissimo romanzo sembra essere stato appena redatto.

Il genio e l’arte di Simenon ci descrivono meravigliosamente lo sguardo di uomo anziano, che aspetta l’ultimo respiro, ma che al tempo stesso è legato alla vita come forse non lo è mai stato in precedenza. E soprattutto ci parla di una politica dura e spietata che nel corso dei decenni non sembra essere affatto cambiata.

Incredibilmente attuale. Da leggere.

Nel 1961 Henri Verneuil dirige l’adattamento cinematografico “Il presidente” con Jean Gabin nei panni di Beaufort e Bernard Blier in quelli di Chalamont.