“Sperandina”

In primo piano

Per Sperandina Rimedi la speranza è solo una parte del nome perché la vita si presenta presto priva di aspettative e con ben pochi sogni da realizzare.

A cavallo tra due secoli le drammatiche vicende del nostro Paese, dalla seconda guerra mondiale al terrorismo, sino alla pandemia, scandiscono il trascorrere di una vita, nel cui inesorabile dipanarsi per nove decenni, emerge la dolorosa consapevolezza di un prezioso ”durante”.

Sperandina, soprattutto, ci mostra le difficoltà di crescere donna in una società patriarcale, con un padre maschilista e tanti, troppi, pregiudizi da superare, ma l’indipendenza conquistata a fatica le consente di godere comunque del bello della vita, di sognare attraverso il cinema, il teatro, la musica e di toccare anche l’amore.

Sperandina, che dopo aver lasciato Roma, rassegnata e disillusa, decide di vivere definitivamente a Perugia, la speranza non la perde mai davvero. Così la speranza per Sperandina brilla anche nelle sue ultime brevi e sospirate parole, che guardano al futuro con fiducia e amore.

Parabola umana di una straordinaria figura femminile, delineata con estrema sensibilità e delicatezza in un quadro sociologico, storico e familiare destinato a suscitare profonde emozioni.

“Il collezionista di carte” di Paul Schrader

(USA, 2021)

Paul Schrader (classe 1946) è uno dei più importanti autori cinematografici americani della sua generazione. Ha firmato script di film come “Taxi Driver”, “Toro scatenato” e “L’ultima tentazione di Cristo” diretti da Martin Scorsese (che cooproduce questo film); “Obsession – Complesso di colpa” diretto da Brian De Palma; “American gigolò”, “Lo spacciatore” e “Affliction” di cui lui stesso ha poi curato la regia.

Così come in molte sue pellicole, e soprattutto nell’ottimo “Lo spacciatore” del 1992 con protagonista Willem Dafoe (vero attore “feticcio” del regista), Schrader ci racconta la storia della dolorosa e cruda redenzione di un uomo che ha sbagliato.

William Tell (un bravo Oscar Isaac) è un giocatore d’azzardo professionista che vive delle proprie vincite girando per tutti i numerosi casinò degli Stati Uniti. E’ un uomo solitario che, una volta alzatosi dal tavolo verde, passa le sue giornate in auto e le sue nottate nei motel. William Tell è un giocatore molto bravo e astuto, soprattutto perché è in grado contare con esattezza le carte di ogni mano.

Se legalmente è vietato farlo, lui viene tollerato perché si accontenta di piccole vincite raggiunte le quali se ne va senza attirare attenzione o creare problemi. William Tell ha però uno strano vizio: in ogni stanza che occupa si porta una grande valigia piena di enormi lenzuola bianche con cui fodera tutto l’arredamento prima di riposare.

E’ una sua vecchia “abitudine” che risale a qualche tempo prima, anche prima degli otto anni e mezzo che ha passato in un carcere militare. Nella sua vita precedente, infatti, il suo nome era William Tillich ed era uno dei militari carcerieri di Abu Ghraib, la prigione irachena dove nel 2004 è scoppiato lo scandalo per le feroci torture e umiliazioni fisiche e mentali, a cui venivano sottoposti i prigionieri iracheni, da parte dei militari statunitensi.

Proprio scontando la sua lunga pena William ha imparato tutto sulle carte e sul gioco d’azzardo. Uscendo di prigione ha cambiato cognome e ha deciso di iniziare una nuova vita, anche se le atrocità che ha commesso non potrà mai dimenticarle.

Un giorno però, in un grande casinò, William incappa casualmente in una conferenza tenuta da John Gordo (Williem Dafoe) sui nuovi sistemi di sicurezza e sorveglianza che la sua ditta produce. Mentre si allontana viene fermato da un ragazzo che afferma di chiamarsi Cirk (Tye Sheridan), e che dice di averlo riconosciuto: era, insieme a suo padre, ad Abu Ghraib. Le foto in cui William e il padre di Cirk sorridevano accanto ai prigionieri vessati hanno fatto il giro del mondo, e così lui non ha avuto problemi ad individuarlo.

Il ragazzo gli confida che ha assistito anche lui alla conferenza di Gordo perché ha un piano per ucciderlo. Gordo, infatti, era uno degli ufficiali specialisti in torture efferate che dirigevano il carcere iracheno gestito dalla Forze Armate americane. A differenza dei soldati che vennero fotografati lui, come tutti i superiori e responsabili anche ad alto livello – fino alle soglie della Casa Bianca – non vennero puniti. Il padre di Cirk, invece come William, venne congedato con disonore e incarcerato. Una volta tornato a casa era ormai un alcolista violento e aggressivo. La madre di Cirk fuggì una notte lasciandolo solo col padre che qualche tempo dopo si sparò.

Il ragazzo vede in Gordo tutto il male che è gli è capitato nella vita e così, ingenuamente, vuole ucciderlo. William tenta in ogni modo di scoraggiarlo e decide di portarselo dietro in giro fra i casinò. Accetta poi l’offerta di La Linda (Tiffany Haddish), un’ex giocatrice professionista ora diventata una manager che trova finanziatori per i giocatori d’azzardo più famosi. L’idea è quella di guadagnare un pò di soldi da dare a Cirk affinché torni a studiare e soprattutto riallacci i rapporti con sua madre.

Abu Ghraib ha rovinato la vita di così tante persone che Will è disposto a tutto pur che non lo faccia con quella del ragazzo, che ha già pagato un prezzo altissimo nonostante la sua giovane età. Ma nella vita, spesso, non basta saper contare le carte di una mano…

Con una regia apparentemente scarna e razionale ma al tempo stesso carica di tensione – tipica di Schrader – assistiamo al viaggio allucinante di William Tell che tenta in ogni modo di sfuggire al proprio destino, destino che però fatalmente incontrerà a causa della sua natura.

Da ricordare anche le scenografie che per la maggior parte sono le reali e immense sale dei casinò americani, vere cattedrali dei sogni perduti di numerosissimi essere umani, che ci sottolineano come nelle guerre vince sempre il banco: i giocatori che materialmente le fanno difficilmente ne escono vincitori, indipendentemente dalla barricata che occupano.

Duro e senza sconti.

Per la chicca: il titolo originale è “The Card Counter”, e un giorno – …forse – capiremo quello in italiano.

“La solitudine del gelataio” di Nicola Zecchini

(Amazon EU, 2023)

E’ un dato di fatto, ormai assodato da tempo, che al mondo c’è chi sa raccontare una barzelletta e chi no. Si possono studiare centinaia di manuali ed esercitarsi davanti allo specchio per ore intere, ma o si possiede il talento del racconto verbale o non lo si possiede. Punto e basta.

E forse è per questo che nell’editoria tradizionale contemporanea del nostro Paese il racconto italiano trova pochissimo spazio. Perché (come per le barzellette) o lo si sa scrivere, o non lo si sa scrivere. Non ci sono editor o riscritture che tengano: lo spazio limitato di alcune pagine non dà scampo a chi non è capace di scrivere, come raccontare una barzelletta, appunto. Il romanzo, invece, per la sua maggiore ampiezza consente a volte – e non sempre – correzioni, ricalibrazioni e riscritture che un editor può attuare per renderlo più “presentabile”.

Naturalmente il nostro Paese non è sprovvisto di brave scrittrici e di bravi scrittori, sia di romanzi che di racconti. E allora viene da pensare che gli editor italici – che spesso sono anche coloro che selezionano o almeno dovrebbero selezionare i manoscritti da pubblicare – nel racconto non trovano lo spazio che cercano. Che poi la maggior parte degli autori italiani pubblicati in questi anni siano allo stesso tempo gli editor delle case editrici più rinomate, è un altro discorso.

Gli scaffali delle nostre librerie sono pieni di romanzi italiani ma vuote di racconti italiani, fatta eccezione per quelli classici scritti da grandi autori come Italo Calvino o Andrea Camilleri, che i più hanno già letto da tempo. E così chi ama il formato racconto – dal quale comunque sono partiti quasi tutti i grandi autori planetari – e, per sana e più che giustificata empatia, vuole leggere quelli scritti dai propri connazionali, deve per forza rivolgersi all’autopubblicazione.

“La solitudine del gelataio” rappresenta l’esordio letterario di Nicola Zecchini – classe 1979 – e contiene 30 racconti, brevi e meno brevi, alcuni dei quali davvero struggenti, altri divertenti e ironici, ma tutti davvero belli da leggere e, soprattutto, da vivere. Perché ogni racconto è un’escursione nell’anima del personaggio ma soprattutto del lettore.

Lo stile di Zecchini è ondulato e ricco, e percorrerlo è un delizioso viaggio nel viaggio della narrazione. Tutti i suoi personaggi hanno in comune il dolore e soprattutto la paura del vivere o dell’aver vissuto, così come ci sottolinea in “Caro Andrea” il protagonista quando afferma: “La mia libertà si sente al sicuro tra due cuscini di monotonia”.

Osserviamo e sentiamo, come davanti a un quadro di Edward Hopper, la solitudine e l’incomunicabilità degli esseri umani la cui paura più grande, e al tempo stesso il desiderio più incontenibile, è lo scambio, il confronto e il giudizio degli altri.

“La solitudine del gelataio” contribuisce così a colmare quel vuoto, ormai davvero insopportabile, negli scaffali delle nostre librerie donando un pò di serenità a chi come me ama leggere romanzi, saggi ma anche racconti, facendoci sentire lettori meno soli a discapito, purtroppo per lui, del gelataio.

Tra i miei preferiti: “Pianeta Döner”, “Ecosistema” e “La solitudine del gelataio”.

Da leggere.

“Kinamand” di Henrik Ruben Genz

(Danimarca/Cina, 2005)

Keld (Bjarne Henriksen) è un idraulico che la vita ha reso passivo e apatico, e anche la sua storica passione per gli scacchi sta inesorabilmente svanendo. Sua moglie Rie (Charlotte Fich) tenta in ogni modo di scuoterlo ma, al suo ennesimo rifiuto di partire per un viaggio turistico, decide di lasciarlo.

Keld rimane sorpreso e annichilito dal gesto della compagna e tenta in ogni modo di riconquistarla, ma si deve arrendere quando scopre che Rie ha iniziato a frequentare un altro uomo. Preso dallo sconforto l’uomo vende tutto l’arredamento del loro appartamento e si sistema su una brandina per dormire.

Non essendo abituato a cucinare, la sera inizia a mangiare nel piccolo ristorante cinese sotto casa. Col passare dei giorni fa la conoscenza del padrone Feng (Lin Kun Wu) tanto che quando nel locale si spacca una tubatura l’uomo gli propone un accordo: lui pagherà in contanti il materiale ma per la manodopera retribuirà Keld con una cena al giorno per qualche mese.

L’idraulico accetta e così la sua frequentazione del ristorante e della famiglia di Feng diventa ancora più assidua, tanto che un giorno il ristoratore gli fa una proposta molto particolare: visto che lui ormai è solo, in cambio di 4.000 dollari, potrebbe sposare sua sorella Ling (Vivian Wu) che ha bisogno a tutti i costi del visto per rimanere in Danimarca e non dover tornare in Cina.

Keld, più stupito che sconvolto, declina l’offerta ma quando si trova davanti al giudice per la separazione definitiva da Rie, e questo gli impone un risarcimento pecuniario di cui lui però non ha disponibilità, torna da Feng e accetta la sua offerta per la somma che deve all’ex moglie.

Saputa la notizia Bjorn (Johan Rabaeus), l’avventore del ristorante di Feng con il quale Keld ci si ritrova ogni sera, lo chiama ironicamente “Kinamand”, che in danese vuol dire “muso giallo”. Dopo la cerimonia inizia una convivenza molto formale e distaccata, visto poi che Ling non conosce il danese, convivenza che serve solo per i controlli dell’ufficio immigrazione.

Ma Keld, ogni giorno che passa, rimane sempre più affascinato dalla sua nuova moglie tanto che decide di imparare da solo il mandarino. Ma una giorno a casa si presenta Rie…

Scritto da Kim Fupz Aakeson (autore dello script di “In ordine di sparizione” di Hans Petter Moland) questa “piccola”, deliziosa e struggente pellicola indipendente danese ha un plot che ricorda molto quello di “Green Card – Matrimonio di convenienza” con Gérard Depardieu e Andie MacDowell scritto e diretto da Peter Weir nel 1990, ma con tutt’altre atmosfere.

Keld impersona, infatti, quel pregiudizio che l’Occidente, e l’Europa soprattutto, possiede verso l’Oriente e la Cina in particolare. Ma lo stesso pregiudizio, molto spesso, è destinato a sbriciolarsi sul fascino che una cultura e una tradizione millenaria possiedono e che molti di noi forse non conoscono davvero.

Un piccolo e struggente gioiellino in celluloide.

“Pian della Tortilla” di John Steinbeck

(Bompiani, 2014)

Nel 1935 John Steinbeck pubblica “Tortilla Flat” che in breve tempo riscuote un grande successo e lo impone sulla scena letteraria planetaria. Lo scrittore narra le vicende di Danny, Pilon, Pablo, Joe e il Pirata, paisanos che vivono a Pian della Tortilla, il quartiere povero collinare della cittadina di Monterey, in California.

E’ la zona dove vivono gli ultimi discendenti dei veri californiani, quelli che hanno ancora sangue spagnolo nelle vene, ma che ormai sono spesso ai margini della società, tanto da non possedere nemmeno un tetto sotto cui ripararsi, e che passano le loro giornate fra un sotterfugio e un piccolo furto, sempre in cerca di vino e donne.

Le cose cambiano quando Danny riceve in eredità la vecchia casa del nonno nella quale decide di ospitare i suoi amici. La convivenza però all’inizio non è semplice, soprattutto perché Danny, diventando il proprietario di un immobile, sembra essersi “elevato” socialmente.

L’amicizia e soprattutto quel codice “morale” che spesso caratterizza le vite dei meno abbienti, li terrà uniti nonostante il vino e le disavventure quotidiane. Ma i paisanos, proprio per la loro storia ed il loro essere, possiedono un’anima tormentata e irrisolta…

Splendido e indimenticabile – come tutte le opere del suo autore – romanzo corale che ci tratteggia in maniera davvero sublime il cuore e lo stomaco di quelli ai margini, per i quali un bicchiere di vino o una sigaretta rappresentano un prezioso e inestimabile tesoro.

Steinbeck ce li racconta ambientando gli eventi in piena Depressione, quando molti suoi connazionali sono letteralmente sommersi da quella crisi economica che getta tantissimi in povertà ma che rende invece ricchissimi pochi altri.

Forse per questo “Pian della Tortilla” venne accolto assai freddamente dalla critica “ufficiale” che però fu travolta dal suo incontenibile successo internazionale. Su questo, lo stesso Steinbeck, parlò spesso, come quando ritirò il Premio Pulitzer vinto per lo strepitoso “Furore”, o il premio Nobel che gli venne assegnato nel 1962 per la Letteratura.

Sono passati quasi novant’anni dalla sua prima pubblicazione, ma “Pian della Tortilla” è fresco, travolgente e straziante come fosse stato scritto solo qualche settimana fa. I posteri, che ormai siamo noi, possono così emettere la nostra ardua sentenza sull’immortale Steinbeck e sulla piccola ma davvero piccola critica letteraria ufficiale dell’epoca…

Nel 1942 Victor Fleming gira l’adattamento cinematografico “Gente allegra” con Spencer Tracy, John Garfield e Hedy Lamarr.

“The Fabelmans” di Steven Spielberg

(USA, 2022)

Dal 24 marzo del 1974, giorno in cui uscì nelle sale cinematografiche americane “Sugarland Express“, e soprattutto dal 20 giugno dell’anno successivo in cui venne presentato per la prima volta nei cinema “Lo squalo”, tutto il mondo del cinema, e non solo, conosce il nome e la carriera artistica di Steven Spielberg, vero Re Mida di Hollywood, considerato fra i più importanti creatori di sogni in celluloide degli ultimi cinquant’anni.

Ma non tutti conoscono la storia di Spielberg fino al suo esordio come regista televisivo che risale al 1969 a quello cinematografico che è appunto del ’74. E allora lo stesso regista ce la racconta in questa sua ottima pellicola scritta assieme a Tony Kushner.

Il 10 gennaio del 1952 Mitzi Fabelman (Michelle Williams) e Burt Fabelman (Paul Dano) portano il loro secondo genito Sammy, di sei anni, per la prima volta al cinema. Il film è “Il più grande spettacolo del mondo” diretto da Cecil B. DeMille. Sammy rimane letteralmente folgorato e, con i suoi giocattoli, tenta di riprodurre l’incidente più spettacolare e al tempo stesso cruento della pellicola.

Mitzi intuisce che il bambino vuole ripetere continuamente la scena che evidentemente lo ha spaventato, tentando di controllarla e così non averne più paura. Allora, invece che sacrificare continuamente i suoi giocattoli, presta al figlio la cinepresa amatoriale di Burt: lui potrà ripetere l’incidente una sola volta riprendendolo e così potrà rivederlo tutte le volte che desidera, senza danneggiare più i suoi giochi.

E così il piccolo Sammy – che ricorda tanto il piccolo Steven Spielberg… – ha per la prima volta fra le mani quello strumento che lo renderà uno degli uomini più famosi del suo tempo. Ma crescere non è semplice per nessuno, anche se da grandi si diventerà un genio del cinema, e se proviene da una famiglia di tradizione ebraica in un Paese dove l’antisemitismo è ancora molto radicato. E proprio attraverso le lenti delle sue cineprese Sammy (Gabriel LaBelle) vedrà il mondo evolversi e cambiare, così come la sua famiglia, le sue sorelle e naturalmente i suoi genitori.

Sarà poi suo zio Boris (Judd Hirsch), fratello di sua nonna materna e unico parente che ha a che fare col mondo del cinema avendo fatto per anni la comparsa, a spiegargli schiettamente il rapporto troppo spesso irrisolto fra gli affetti stretti e l’arte.

Ma i film, per Sammy, saranno l’unico mezzo di salvezza e sopravvivenza emotiva, morale e a volte anche fisica…

L’uomo dei sogni di Hollywood firma una delle pellicole di formazione più interessanti degli ultimi anni, raccontandoci attraverso la macchina da presa, i dolori e le pene del giovane Sammy che però, nonostante i profondi sensi di colpa e le grandi insicurezze, riuscirà a fare quello che solo pochi eletti fanno: realizzare il suo sogno più grande.

Come in ogni altra pellicola di Spielberg, anche in questa le immagini hanno un ruolo centrale nella narrazione. E così il cineasta americano ci mostra anche solo visivamente da dove nacquero gli spunti che poi, anni dopo, metterà in pellicole come “E.T. – L’extraterrestre”, “I predatori dell’arca perduta“, “Ritorno al futuro” (che ha prodotto) o “Salvate il soldato Ryan”. Nel cast da ricordare anche il grande David Lynch che ci regala un cameo davvero spettacolare.

Consigliato non solo per gli amanti del cinema, ma per tutti coloro che sono riusciti a sopravvivere alla propria adolescenza.

“Green Sea” di Angeliki Antoniou

(Grecia/Germania, 2020)

Anna (Angeliki Papoulia) è una donna che in un evidente stato confusionale vaga per il mercato di una città della costa greca. Quando si ferma ad una bancarella di spezie e aromi il venditore, da come Anna maneggia e odora la merce, capisce che è una cuoca e così la consegna un biglietto con sopra l’indirizzo di una taverna in riva al mare rimasta senza chef.

Anna, quasi per caso, arriva nel vecchio e trasandato locale e con il biglietto in mano incontra Roula (Giannis Tsortekis), il proprietario che le offre vitto, alloggio e 300 euro al mese per cucinare. La donna accetta e la mattina dopo inizia il suo lavoro. Roula le porta polpette e patate surgelate, cibo molto gradito dagli avventori della locanda che sono tutti operai, meccanici o autisti che spesso si portano anche del cibo da casa.

Ma Anna preferisce cucinare la cose fresche e così, nonostante il parere contrario di Roula, serve ai clienti i suoi piatti della antica e povera tradizione greca. Tutti gli avventori, così come Roula, ne rimangono estasiati e così il locale per la prima volta inizia ad essere sempre più pieno.

Un pomeriggio alla porta della taverna si presenta l’anziano Kyriakos (Tasos Palatzidis), un pensionato che ha deciso di abbandonare, con i suoi colori e pennelli, la casa di riposo in cui era stato lasciato. L’anziano si offre di realizzare un grande quadro a tema da appendere nella taverna, che è di fatto senza un vero e proprio arredamento. Roula gli concede una settimana poi non offrirà ospitalità all’anziano.

Sarà Anna a scegliere il tema centrale del quadro: il grande mare verde, il Mediterraneo, che gli Egizi nonostante fossero degli ottimi navigatori del Nilo hanno sempre avuto paura di attraversare. Mentre Kyriakos inizia la sua opera, Roula si reca in libreria per acquistare un nuovo tomo di ricette tradizionali da servire ai suoi clienti e casualmente scopre il segreto di Anna…

Scritta dalla stessa Angeliki Antoniou assieme a Evgenia Fakinou, questa “piccola” pellicola indipendente greca è un gustosissimo viaggio nell’anima e nei sapori veri della vita più intima dei protagonisti. Le atmosfere e gli “aromi” ricordano quelli del delizioso “Soul Kitchen” di Fatih Akın o dei tomi della serie manga “La Taverna di Mezzanotte” di Yaro Abe e della sua relativa serie tv “Midnight Diner – Tokyo Stories”.

Parafrasando il grande Giacchino Rossini, dopo aver visto questo film, possiamo asserire serenamente che il cibo è per il corpo quella che (a volte) il cinema – anche se Rossini diceva in realtà la musica… – è per l’anima.

Buona visione e buon appetito!

“Il tesoro dell’Africa” di John Huston

(USA/UK/Italia, 1953)

Torna la coppia John Huston/Humprey Bogart (fresco vincitore dell’Oscar per il suo ruolo da protagonista nello splendido “La regina d’Africa” per il quale lo stesso Huston ottiene due candidature: come miglior regista e come miglior sceneggiatore) in una pellicola tratta dal romanzo “Beat the Devil” del britannico Claud Cockburn.

A firmare la sceneggiatura, oltre allo stesso Huston, c’è anche Truman Capote che dona alla pellicola un’ironia pungente e allo stesso tempo cruda e senza sconti.

In un piccolo porto di un paese dell’Europa meridionale – che è potrebbe essere l’Italia – un gruppo eterogeneo dei rappresentanti della parte più oscura e forse misera dell’umanità è in attesa di salpare con un mercantile verso l’Africa, dove ognuno di loro ha un progetto, più o meno lecito, per diventare finalmente ricco.

Assieme a Billy Dannreuther (Bogart) e sua moglie Maria (Gina Lollobrigida) ci sono i loro loschi complici Julius O’Hara (Peter Lorre che con Bogart girò anche il mitico “Il mistero del falco” diretto dallo stesso Huston nel 1941), Ravello (Marco Tulli) e il maggiore Ross (Ivor Barnard) capitanati dall’affarista senza scrupoli Peterson (Robert Morley, anche lui nel cast de “La regina d’Africa”) che intendono arraffare alcuni terreni ricchi di uranio per poi vendere il prezioso elemento chimico al miglior offerente.

In attesa di partire ci sono però anche i coniugi inglesi Harry Chelm (Edward Underwood) e sua moglie Gwendolen (Jennifer Jones) che vogliono anche loro trovare fortuna nel continente africano. Ma i loschi piani di Peterson e compagni – che hanno bisogno loro malgrado delle entrature africane di Dannreuther – cozzeranno con quelli più ingenui e al tempo stesso sfrontati di Gwendolen Chelm che si innamora a prima vista e perdutamente di Billy…

Originale e caustica pellicola firmata da uno dei maestri della Hollywood degli anni Quaranta e Cinquanta, e che ci racconta le miserie di un’umanità che forse ancora non si è ripresa moralmente ed eticamente dalla Seconda Guerra Mondiale. Se c’è chi come l’inglese “puro sangue” maggiore Ross che è un dichiarato nostalgico di Hitler e Mussolini, ci sono quelli come Peterson, O’Hara e Ravello disposti a tutto, anche a uccidere, pur di ottenere il proprio tornaconto personale. E poi ci sono quelli come Billy e Maria Dannreuther, maestri della resilienza, disposti a vendersi pur di sopravvivere.

Ma il personaggio più insolito è quello di Gwendolen Chelm, vera ed ingenua sognatrice ad occhi aperti, che però sa essere anche cinica e calcolatrice nei momenti giusti. Insomma, un ritratto disilluso e lucido di perdenti e antieroi firmato da un maestro assoluto della macchina da scrivere come Capote e da uno dei maestri assoluti della macchina da presa come Huston.

Nel cast anche il grande Saro Urzì – nel ruolo del capitano del mercantile – e l’inglese Bernard Lee – in quello di un agente di Scotland Yard – che nel decennio successivo vestirà i panni del primo “M” nella serie di 007.

“Dissipatio H.G.” di Guido Morselli

(Adelphi, 2012)

“Dissipatio H.G.” rappresenta l’ultimo romanzo scritto da Guido Morselli (1912-1973) morto suicida pochi mesi dopo averlo terminato. Si tratta dell’ultimo testo scritto da Morselli ma non pubblicato, perché da 1947 al 1973, anno della sua morte, allo scrittore bolognese vennero rifiutati sistematicamente tutti i suoi libri.

A rifiutare questo “Dissipatio H.G.” e i suoi scritti precedenti come “Roma senza Papa. Cronache romane di fine secolo ventesimo” o “Il comunista” furono gli allora responsabili delle più importanti case editrici italiane come Italo Calvino, Carlo Fruttero, Geno Pampaloni o Luciano Foà, cofondatore della casa editrice Adelphi.

Il motivo principale dell’insano gesto compiuto dal Morselli fu proprio l’ennesimo rifiuto in blocco di questo suo ultimo romanzo. La morte violenta dello scrittore – allora ancora mai pubblicato – creò scalpore e sgomento soprattutto nel mondo dell’editoria e a partire dall’anno successivo vennero dati alle stampe tutti i suoi romanzi, e questo “Dissipatio H.G.” apparve nel catalogo proprio dell’Adelphi per la prima volta nel 1977.

Il protagonista è un uomo solo e disilluso – che ricorda molto lo stesso autore – che dopo aver abbandonato Crisopoli (città di fantasia che ricorda però molto Zurigo) si rifugia in montagna per evitare il più possibile il contatto col prossimo e stilare un bilancio della propria esistenza.

Il bilancio, purtroppo, pende notevolmente a sfavore del proseguimento: “Ci sono mattine che, nel mentre mi facevo la barba, cercavo di non vedermi nello specchio”. Così la notte fra il 1° e il 2 giugno l’uomo decide di suicidarsi gettandosi nel pozzo all’interno di una grotta fra i monti. Ma proprio arrivato sull’orlo del baratro ci ripensa e torna sconfitto a casa. Al suo risveglio però il mondo è cambiato: tutta l’umanità è improvvisamente scomparsa. Si tratta proprio di quella “Dissipatio Humani Generis” di cui parlava il filosofo neoplatonico Giamblico, riferendosi a una sorta di “evaporazione del genere umano”.

E così – come farà il protagonista della canzone “Extraterrestre” incisa da Eugenio Finardi nel 1978 – l’uomo si troverà a fare i conti con uno dei suoi sogni più bramati: essere solo…

Quello che colpisce ancora oggi di questo romanzo, oltre alla trama e allo stile spesso sfizioso e raffinato, sono la sua contemporaneità e la sua internazionalità. E’ un romanzo, infatti, che potrebbe essere stato scritto solo pochi mesi fa, da un autore anche di un altro Paese e non specificatamente italiano. Questa è la peculiarità a cui Giuseppe Pontiggia imputa l’ottusa incomprensione degli allora editori. E’ lo stesso Pontiggia a ricordarci, quindi, che se si è grandi e memorabili scrittori non è detto che si sia pure capaci e imparziali responsabili di collane editoriali.

Ma per onestà intellettuale è giusto ricordare anche che Guido Morselli era un personaggio completamente avulso dai salotti letterari e dal “sistema” editoriale della sua epoca. Così come il grande Luciano Bianciardi, Morselli andava dritto alla scrittura ignorando e snobbando tutto il resto.

A questo punto non si può non pensare all’autopubblicazione che ormai da qualche anno è approdata anche nel nostro Paese. Oltre alle ragioni commerciali vero motore delle più feroci e aggressive critiche verso questo nuovo tipo di pubblicazione – ragioni commerciali che la GOG Edizioni ha raccontato nel suo “Manifesto contro l’editoria” – voglio soffermarmi sugli effetti morali ed emotivi dell’impossibilità di pubblicare un proprio scritto.

Nulla, neanche un’intera esistenza fatta di rifiuti, giustifica l’atto estremo e vigliacco compiuto da Morselli con “la ragazza dall’occhio nero” come lui chiamava, anche in questo romanzo, la sua pistola. Ma l’ennesimo rifiuto alla fine produce un altro drammatico effetto: fa smettere di scrivere, forse vero obiettivo di qualcuno ma che è senza dubbio un impoverimento della cultura di un Paese.

E allora parafrasando Umberto Eco, se è vero che l’autopubblicazione ha dato la voce a centinaia di migliaia di “imbecilli”, è vero pure che basta semplicemente non leggerli, così come si può fare coi social. Oppure è il semplice esistere di un’alternativa a ciò che il “sistema” offre ad essere considerata una minaccia tale da accendere critiche così feroci? Davvero un libro autopubblicato da un singolo e anonimo scrittore può competere con quelli editi dalle grandi case editrici? E autopubblicarsi è realmente una cosa così umiliante e infangante tanto da diventare una rigida discriminante per partecipare a numerosi premi letterari?

O forse è il concetto che si può essere letti dagli altri anche senza dover passare per forza attraverso il “sistema” a creare tanta acredine, concetto poi che non vale solo per lo scrivere ma anche, naturalmente, per il leggere?

Ai posteri (lettori e scrittori) l’ardua sentenza.

Comunque sia, il massimo del risarcimento morale che l’editoria italiana ha pensato di poter offrire al povero Morselli, forse anche per chetare la coscienza di qualcuno, è stato quello di dedicargli …un premio letterario.

Buona lettura!

“Call Jane” di Phyllis Nagy

(USA, 2022)

Nell’estate del 1968 l’eco della contestazione arriva anche in casa di Joy (una bravissima Elizabeth Banks) classica e iconica casalinga della middle class americana degli anni Sessanta, con tanto di vicina e migliore amica Lana (Kate Mara) anche lei casalinga. Joy e suo marito Will (Chris Messina), nonostante abbiano una figlia quindicenne, si sentono molto lontani dall’aria di rivoluzione che si respira per le strade, ma gli eventi faranno loro cambiare idea.

Joy, infatti, è in felice attesa del suo secondo genito ma quando le viene diagnosticata una grave e letale cardiopatia, dovuta proprio alla gravidanza, è costretta a rivedere la visione del mondo che ha sempre avuto. Perché negli Stati Uniti, nel 1968, l’aborto è illegale e punito severamente dalla legge. Il suo ginecologo le propone di presentare il caso al Consiglio di Amministrazione dell’Ospedale che potrebbe accettare la sua richiesta per i gravi motivi di salute.

Ma il CdA dell’istituto sanitario, composto naturalmente da soli uomini, rigetta la richiesta visto che il bambino nascerà molto probabilmente senza problemi, anche se lei ha solo il 50% di possibilità di sopravvivere al parto.

Il ginecologo le propone allora di chiedere la semi infermità mentale dichiarando di avere pensieri suicidi, cosa che però le viene nuovamente rifiutata. Oltre a “lasciarsi” cadere dalle scale, come le suggerisce la segretaria di un ginecologo consultato, a Joy non rimane che l’aborto clandestino. Aborto a cui deve pensare da sola visto che Will, che è un giovane avvocato in ascesa, non sembra riuscire a trovare un’altra soluzione.

Ma appena entrata nello squallido e lercio appartamento in cui trova alcune altre donne nella sua stessa disperata situazione, Joy non resiste e fugge via. In strada, travolta dai singhiozzi, la donna intravede un piccolo manifesto attaccato al palo di una fermata con la scritta: “Se sei incinta e disperata: Call Jane!” seguito da un numero di telefono.

“Incinta e disperata” Joy chiama Jane dietro il cui nome scopre un’organizzazione clandestina ideata e gestita da Virginia (Sigourney Weaver), una militante femminista che da anni aiuta donne, ragazze e purtroppo anche bambine a porre fine a una gravidanza indesiderata.

Grazie a “Jane” Joy riesce ad abortire senza strascichi fisici o legali, ma quelli emotivi e morali li dovrà affrontare da sola, visto che Will è all’oscuro di tutto volendo credere fin troppo facilmente all’aborto spontaneo che la moglie gli ha raccontato.

Ma un pomeriggio sarà “Jane” a chiamare Joy…

Scritta da Hayley Schore e Roshan Sethi questa pellicola, anche se presenta alcune evidenti lacune proprio nella sceneggiatura, ha comunque il merito di ricordarci quanto è stato doloroso e esasperante ottenere la legalizzazione dell’aborto negli Stati Uniti così come in tutto il resto dell’Occidente.

Io che sono un uomo non mi permetto di giudicare o disquisire troppo sull’interruzione volontaria di una gravidanza che considero tema e problematica di cui solo le donne hanno ragione di scegliere e decidere, reputo quindi importante vedere pellicole come queste per cercare di capire meglio e riflettere su un tema tanto serio e profondo.

Ma giudico senza remore chi, indipendentemente dal genere, esprime giudizi spesso superficiali e patriarcali sull’aborto del quale nel nostro Paese, fino a pochissimi decenni fa, decidevano e legiferavano solamente gli uomini. Ed è a quelli che, evidentemente, si ispirano nostalgicamente alcune donne che considerano l’aborto “purtroppo” un diritto nel nostro Paese.