Per Sperandina Rimedi la speranza è solo una parte del nome perché la vita si presenta presto priva di aspettative e con ben pochi sogni da realizzare.
A cavallo tra due secoli le drammatiche vicende del nostro Paese, dalla seconda guerra mondiale al terrorismo, sino alla pandemia, scandiscono il trascorrere di una vita, nel cui inesorabile dipanarsi per nove decenni, emerge la dolorosa consapevolezza di un prezioso ”durante”.
Sperandina, soprattutto, ci mostra le difficoltà di crescere donna in una società patriarcale, con un padre maschilista e tanti, troppi, pregiudizi da superare, ma l’indipendenza conquistata a fatica le consente di godere comunque del bello della vita, di sognare attraverso il cinema, il teatro, la musica e di toccare anche l’amore.
Sperandina, che dopo aver lasciato Roma, rassegnata e disillusa, decide di vivere definitivamente a Perugia, la speranza non la perde mai davvero. Così la speranza per Sperandina brilla anche nelle sue ultime brevi e sospirate parole, che guardano al futuro con fiducia e amore.
Parabola umana di una straordinaria figura femminile, delineata con estrema sensibilità e delicatezza in un quadro sociologico, storico e familiare destinato a suscitare profonde emozioni.
Allo scorso Book Pride, la fiera dell’editoria italiana indipendente tenutasi nella sua VII edizione a Milano dal 10 al 12 marzo scorso, il libro più venduto è stato questo “Manifesto contro l’editoria e gli editori, i librai, gli scrittori, i distributori, i promotori, gli agenti e i critici letterari, i direttori delle terze pagine culturali e quelli dei festival, contro i premi, gli ISBN, le scuole di scrittura creativa”.
La “piccola” – lo metto virgolettato perché mi riferisco esclusivamente alla sua capacità economica e di marketing rispetto a quella dei colossi nazionali – e indipendente casa editrice romana ha raccolto in questo volume di poco più di ottanta pagine tutti i suoi pensieri e le sue considerazioni su un mondo che sta ormai evidentemente boccheggiando.
La GOG – o forse sarebbe meglio dire GOG, nel senso del personaggio creato da Giovanni Papini nel suo omonimo romanzo che è l’ispirazione dichiarata del nome della casa editrice – ci racconta di un mondo editoriale italiano ormai strozzato da sé stesso. Un mondo dove i distributori dei libri hanno in mano il 60% del prezzo di vendita di un libro. Dove altre importanti percentuali se le prendono i promotori e alla fine all’autore e all’editore non rimangono che le briciole. Briciole che poi il distributore può dimezzare pretendendo il reso anche a distanza di parecchi mesi, cosa che fa fallire di continuo le piccole case editrici che inesorabilmente chiudono o vengono assorbite da quelle più grandi.
E’ un mondo, ci descrive GOG, che ormai sta soffocando, dove la qualità è sparita – o quasi – a favore della quantità. Perché l’importante è presentare sempre nuovi libri, indipendentemente dal loro valore o dal numero di copie che alla fine verranno vendute. E’ un mondo dove uno scrittore deve riuscire a trovare “umilmente” spazio nel canali culturali riconosciuti dal sistema ed esserne grato.
E’ un mondo dove la maggior parte dei libri italiani che escono sono praticamente tutti uguali, masticati e omogenizzati da un sistema che pensa di non avere più bisogno del genio creativo indomabile e innovativo, ma di quello – se genio si può davvero chiamare… – di scrittori buoni e ubbidienti, che magari provengono dalle più rinomate e prestigiose – e anche completamente inutili sostiene GOG – scuole di scrittura creativa del Belpaese.
E’ un mondo, quindi, che non sta morendo per colpa del famigerato ebook che tante brave famiglie italiane ha corrotto, ma è un mondo che sta morendo solo per colpa di sé stesso e delle proprie miopi scelte commerciali e organizzative. E’ un mondo che aveva in maniera sibillina immaginato e soprattutto temuto la grande Grazia Cherchi (1937-1995) – una delle figure editoriali più rilevanti del nostro Novecento, scopritrice di talenti come quelli di Stefano Benni e Alessandro Baricco – nei suoi articoli raccolti nel volume “Scompartimento per lettori e taciturni. Articoli, ritratti, interviste”.
E allora che fare? …Uscire da tutto, senza compromessi, risponde GOG e provare una strada indipendente e sincera bypassando i famelici canali che si succhiano quasi tutto, colloquiando direttamente col pubblico.
Nato come semplice provocazione, questo volume almeno nel mondo degli amanti della lettura e della scrittura come me, non può che sfondare una porta, anzi un portone spalancato. Ma soprattutto accende e stimola riflessioni.
Partiamo dal fatto che se le prime cinquanta pagine sono ficcanti e provocatorie, le restanti trenta sono grigiamente autoreferenziali, che ricordano un pò troppo le atmosfere dotte e sapienti tipiche di quell’ambiente che si reputa neanche troppo velatamente superiore per intelligenza e diritto di nascita, così vigorosamente criticato all’inizio del tomo dalla casa editrice romana.
Dalle dinamiche del sistema editoriale raccontato da GOG – nelle prime cinquanta pagine… – si capisce molto bene perché sia stata ferocemente ostacolata, per mere ragioni di guadagno, l’edizione digitale sulla quale è stata scaricata furbescamente ogni responsabilità della grave crisi della nostra editoria. Sono state messe in commercio edizioni digitali allo stesso costo o quasi di quelle cartacee, pensando così di boicottare il nuovo formato.
GOG si scaglia poi anche contro “Amazon&compagnia che non fanno distinguo tra un libro e una tazza”, e su questo ognuno ha le proprie opinioni. Ma la capillarità che tocca il gigante di Bezos è difficilmente raggiungibile allo stesso costo – maggiorazione che inesorabilmente colpisce alla fine anche il lettore però – dalle case editrici indipendenti che mirano a clienti attenti e consapevoli, che non per questo devono vivere nei posti più comodi e accessibili.
Sempre sul colosso dell’e-commerce e in relazione alle valutazione di un libro GOG biasima “la recensione rilasciata dal primo stronzo su Amazon”. “Il primo stronzo su Amazon” però è quello che ha comprato il libro, che ha dato fiducia all’autore e all’editore e che ha sborsato i suoi soldi, soldi che mantengono la baracca dell’editore che, come dice lo stesso GOG, non lavora certo solo per la gloria. Per questo il lettore – o “il primo stronzo su Amazon” come lo chiama GOG – ha diritto sempre e comunque di parola, anche se la cosa può far venire le infantigliole agli “addetti ai lavori”! Come sognava già trent’anni fa Grazia Cherchi: sono i lettori che devono valutare direttamente un libro, vero segno di una grande democrazia culturale, altrimenti rientriamo dalla porta di servizio nel “sistema” – tanto biasimato da GOG – dove qualcuno sceglie quello che possono – e sottolineo possono – leggere altri.
GOG poi descrive il suo autore ideale, un autore fuori da ogni schema o canale costituito, che vuole raccontare e sfasciare, rompere e strillare, un autore per il quale un libro “…deve essere la scure per il mare gelato dentro di noi” come diceva Kafka e cita GOG. Un autore che scrive prima per se stesso e poi solo per il lettore insomma. E nel mondo descritto da questo libro un autore così dove si trova? …Le autrici e gli autori fuori da ogni schema o omologazione dove possono trovare spazio?
GOG, ovviamente, non parla di autopubblicazione gratuita alla quale molti autori, come me, si rivolgono per far vivere e leggere i propri scritti. Ma l’autopubblicazione sta diventando sempre più consistente nel nostro panorama, proprio perché quello canonico è fermamente autoreferenziale al punto di non cogliere più le vere novità che fioriscono nelle menti e nei posti più impensabili. E poi l’autopubblicazione materializza quel contatto diretto e senza interferenze col lettore che lo stesso GOG agogna come editore.
Personalmente reputo che la nostra editoria canonica debba cambiare, a partire dalle fondamenta, ma che possa e debba coesistere in sinergia con quella autopubblicata. In un mondo colmo di libri le case editrici di qualità devono proporre percorsi di lettura. Reperire i nuovi autori, in un mondo così sconfinato, è molto difficile anche per una grande casa editrice – ammesso che questa voglia davvero farlo – figuriamoci per le piccole. E allora l’autopubblicazione e soprattutto le recensioni possono aiutare ad individuare quei libri validi che altrimenti non sarebbero mai stati pubblicati e quindi letti.
Comunque la pensiate, ora e sempre: buona lettura!
Il premio Oscar, in realtà, con questo film non ha nulla a che fare. E’ stato il genio – fin troppo spesso incompreso… – dei nostri distributori a infilarcelo tentando di rendere la pellicola più accattivante per un pubblico nostrano che evidentemente reputava troppo basico per apprezzare un “semplice” premio teatrale inglese.
Perché il riconoscimento in questione è, infatti, un ambitissimo Emmy che una squadra di critici teatrali, spocchiosi e presuntuosi, assegna ogni anno all’artista del palcoscenico che ritiene più degno.
Un paio di anni prima il veterano Edward Lionheart (un grande Vincent Price), noto attore shakespeariano, era convinto di meritarlo ma alla cerimonia, vedendo premiare un giovane e secondo lui inesperto collega, aveva dato in escandescenza presentandosi poi nella casa di uno dei critici per protestare. Lì, però, era stato sbeffeggiato tanto che alla fine Lionheart aveva deciso gettarsi dal terrazzo direttamente nel Tamigi.
In maniera assai cruenta vengono uccisi inesorabilmente i critici della giura e solo Peregrin Devlin (Ian Hendry) uno di essi, intuisce che le modalità degli omicidi ricalcano quelle di alcune famose opere del grande William Shakespeare, unico autore mai interpretato da Lionheart. Ma l’attore è morto ormai da tempo, anche se il suo cadavere non è mai stato ritrovato.
Così Devlin e la Polizia si rivolgono a Edwina Lionheart (Diana Rigg, che solo qualche anno prima aveva impersonato la sfortunata coniuge dell’agente 007 James Bond) che di mestiere fa la truccatrice. Ma per la giovane è solo un inutile motivo per riaprire una ferita ancora non del tutto cicatrizzata…
Deliziosa pellicola divenuta un vero e proprio cult – il cui titolo originale è “Theatre of Blood” – grazie soprattutto al suo indimenticabile protagonista e ai versi dell’immortale Bardo che fanno da sottofondo a uno dei temi più efficaci e irresistibili della storia umana: la vendetta. “Il conte di Montecristo” docet…
Il tema della spietata e cruenta vendetta è il centro anche della pellicola “L’abominevole Dr. Phibes” sempre con un grande Vincent Price, prodotta e realizzata sempre in Gran Bretagna due anni prima.
Scritto da John Kohn, Stanley Mann e Anthony Greville-Bell questo “Oscar insanguinato” ha un cast di prim’ordine composto oltre che dal protagonista anche dai migliori caratteristi del cinema britannico del momento come Harry Andrews, Robert Morley, Joan Hickson e Michael Hordern.
Anche se a volte la regia psichedelica e frenetica rimane troppo legata alla moda del periodo storico in cui è stato realizzato, questo film merita di essere visto anche solo per ascoltare una delle voci cinematografiche e teatrali più famose del Novecento – come era quella di Vincent Price, che non a caso Quincy Jones e Michael Jackson vollero nel brano “Thriller” – interpretare i versi fra i più belli mai prodotti dalla civiltà umana, e recitati con barocca e spietata bellezza.
E poi diciamoci la verità, ovviamente solo moralmente e non certo fisicamente come nel film, ma ogni tanto alcuni sedicenti e boriosi “critici” non se la meriterebbero una bella strigliata?
Nella versione distribuita nei nostri cinema, noi italiani abbiamo la grande fortuna di poter godere di un altro grande indimenticabile artista: Emilio Cigoli che doppia superbamente Price ricordandoci, se davvero ce ne fosse bisogno, la grandezza del Bardo anche nella nostra lingua.
“Sembra che non ci sia limite al peso che devono trasportare le donne…” scrive Craig Thompson nel suo “Carnet di viaggio”, edito nel nostro Paese nel 2017, concetto che ha superbamente affrontato nella sua opera più famosa “Habibi” arrivata da noi qualche anno prima.
Wanatolia è un ricco e opulente paese (fittizio) orientale di forte tradizione islamica. Se le sue città sfoggiano grandi e lussuosi grattacieli, alle loro fondamenta vivono numerosi esseri umani tragicamente molto sotto la soglia della povertà.
Ci sono intere comunità che sopravvivono solo grazie ai rifiuti che la parte ricca del paese ininterrottamente produce, come quelli dell’enorme e splendente palazzo del Sultano. I poveri e i derelitti vivono in funzione degli scarti e dei bisogni dei ricchi, e a pagare il prezzo più alto sono naturalmente i più piccoli: i bambini e, soprattutto, le bambine.
Una di queste è Dodola che decide di fuggire insieme a Zam, un bambino ancora più piccolo di lei, abbandonato e abusato come lei. I due trovano rifugio in una vecchia barca persa nel deserto, lo stesso deserto dove molti secoli prima è nato l’islam e, attraverso le radici di quella religione, Dodola e Zam intraprenderanno un percorso lungo e sofferente per ritrovare finalmente se stessi.
Un viaggio splendido e doloroso nella religione islamica ma soprattutto nel ventre di una bambina che, anche crescendo, deve sopportare soprusi e violenze che il mondo famelico e patriarcale le impone solo perché donna. Ma i soprusi e le violenze le subirà anche Zam, sia per il colore della sua pelle che per la sua anima troppo candida e ingenua per lo spietato e ottuso patriarcato che domina la società.
Dopo l’emozionante romanzo grafico d’esordio “Addio Chunky Rice” e il bellissimo “Blankets“, Craig Thompson firma un’opera davvero emozionante e commovente che ci ricorda, sopratutto, che cos’è l’amore, l’amore vero e incondizionato, quello che tutti dovremmo avere per noi stessi e per il nostro prossimo.
C’è chi definisce Thompson il Charles Dickens della “narrativa a fumetti” ma sbaglia: Thompson è uno dei veri eredi di Dickens, punto e basta.
Sempre di Thompson, e successivi a questo splendido “Habibi”, sono: “Ginseng Roots. Libro Primo – Tornare a casa” e “Gingseng Roots. Libro secondo – Affondare nei ricordi” – che fanno parte di una serie autobiografica – e che ci aiutano a comprende il profondo e doloroso rapporto che l’autore ha avuto fin da piccolo con la religiosità, nato e cresciuto in una famiglia molto praticante e rigidamente osservante.
L’influenza di Anton Pavlovič Čechov sulla cultura planetaria è ancora oggi così immensa che è difficile da misurare. Nato a Taganrog – città portuale della Russia meridionale – il 29 gennaio del 1860, Anton non ha un’infanzia facile fra un padre violento – ma fervente religioso -, una situazione economica precaria e le origini di servi della gleba della sua famiglia.
Diplomatosi, nel 1879 vince una borsa di studio per iscriversi alla facoltà di Medicina e si trasferisce a Mosca dove frequenta i circoli studenteschi e respira l’aria fertile della cultura e dell’avanguardia russa contemporanea. Nel 1880 pubblica il suo primo racconto (“La lettera del possidente del Don Stepan Vladimirovič al dotto vicino dottor Fridrich“) ed inizia così ufficialmente la carriera di uno dei più grandi autori planetari che spazierà fra la letteratura ed il teatro.
Se i suoi drammi, a distanza di 120 anni dalla sua morte – avvenuta il 15 luglio del 1904 – sono ancora rappresentati nei teatri di tutto il mondo, i suoi scritti e soprattutto i suoi immortali racconti sono ancora una delle colonne portanti della cultura contemporanea.
Questo volume ne raccoglie diciassette, alcuni di quelli più ironici e umoristici. Forse non saranno i più famosi o i più belli in assoluto, ma ci ricordano senza dubbio cosa vuol dire saper scrivere con ironia pungente e umorismo tagliente. Se proprio mi incatenate e mi costringete a sceglierne uno vi dico: “Il punto esclamativo (Racconto di Natale)” una delle vette della letteratura mondiale.
Vette che nel formato del racconto probabilmente non sono state raggiunte da nessun altro autore. Forse solo il grande Raymond Carver le ha sfiorate coi suoi bellissimi racconti molti decenni dopo. Non è un caso quindi che fra i miei preferiti ci sia “L’incarico”, in cui Carver ci narra la morte del maestro Čechov attraverso gli occhi di un modesto cameriere, contenuto nella splendida raccolta “Da dove sto chiamando“.
Come tutte le opere del grande autore russo: da leggere ad intervalli regolari.
Dopo “Ginseng Roots. Libro Primo – Tornare a casa“, Craig Thompson ci riporta nel Wisconsin dei primi anni Ottanta dove, ancora bambino e per avere qualche soldo da spendere oltre che per aiutare le finanze della sua famiglia, l’estate lavora negli immensi campi di gingseng.
In questo libro, infatti, uno dei migliori autori contemporanei di romanzi grafici, ci racconta il rapporto della sua famiglia con la pianta simbolo dell’economia di quello stato, che a partire dagli anni Sessanta ha attirato lavoratrici e lavoratori da ogni parte del mondo, sia dentro i confini a stelle e strisce che fuori, soprattutto dall’Oriente.
La tradizione millenaria della coltivazione del gingseng non è naturalmente esclusiva della Cina, ci sono altre nazioni, come il Giappone e la Corea. Proprio dalla Corea proveniva la famiglia di un suo compagno di scuola che, nel corso degli anni, abbandonò gli studi per dedicarsi completamente alla coltivazione.
Attraverso i disegni di Thomson riviviamo la storia Ga Yi Vang, un giovane ufficiale delle forze armate dei guerriglieri Hmong, una delle popolazioni del Laos che sostenne le truppe degli Stati Uniti nella loro occupazione del Vietnam dal 1960 al 1975.
Quando le truppe USA iniziarono a ritirarsi dal Vietnam, la popolazione degli Hmong venne fatta oggetto di feroci ritorsioni da parte dei nord vietnamiti che riprendevano il possesso del loro territorio, vicenda che ricorda tragicamente quella consumatasi nell’estate del 2021 in Afghanistan. Così Ga Yi Vang fu costretto ad abbandonare il proprio paese per trovare rifugio negli USA.
Su suolo americano prese il nome di Abraham Vang e decise di fare quello che sapeva e conosceva grazie alle tradizioni – e alle ….radici – della sua famiglia: coltivare il gingseng. Ma l’impatto nel nuovo Paese non fu affatto semplice, tutta la famiglia Vang, come molti altri immigrati, subì un duro e palese ostracismo, spesso misto a becero razzismo, viste le sue origini asiatiche e così vicine al quel Vietnam.
Per il resto della sua esistenza Abraham Vang non riuscì mai comprendere un comportamento così ostile da parte di un popolo i cui soldati lui aveva sempre aiutato e difeso, come non comprese mai il perché a quasi nessuno interessasse la sua storia.
Un romanzo grafico bello e coinvolgente da un autore mai banale e scontato.
Se nel nostro immaginario lo stereotipo dell’avvocato arraffone e opportunista è l’Azzeccagarbugli de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni, nella cultura americana è senza dubbio lo scaltro Willie Gringrich – il cui cognome significa letteralmente “diventa ricco” – interpretato superbamente in questo film da un eccezionale Walter Matthau, che non a caso vince l’Oscar come miglior attore non protagonista.
Siamo a metà degli anni Sessanta e la società americana, come quella di tutto l’Occidente, sta cambiando molto rapidamente. Questo soprattutto – o purtroppo, dipende dai punti di vista… – grazie al nuovo mezzo di comunicazione di massa che è diventata la televisione. Nella storia della civiltà umana, dopo i racconti verbali tramandati per millenni, solo la radio era riuscita ad entrare capillarmente in ogni focolare domestico. Ma la scatola dei sogni ha anche le immagini e così sbaraglia ogni concorrenza e, soprattutto, ogni resistenza.
Altro grande pilastro sociale negli Stati Uniti è da sempre lo sport, e proprio in quegli anni, molto prima che da noi, qualcuno ha già pensato ai ricchi profitti che il connubio tv/sport può alimentare. E così approdiamo a Cleveland, la patria della squadra di football americano dei Cleveland Browns, proprio durante una partita del massimo campionato ripresa in diretta dalla CBS.
A riprendere i giocatori da bordo campo c’è l’esperto cameraman Harry Hinkle (Jack Lemmon) che proprio alla fine di un’azione di gioco viene travolto involontariamente dal giocatore dei Browns Luther “Boom Boom” Jackson (Ron Rich). Harry, rovinando sulla matassa del telo che copre il campo, perde conoscenza e viene portato in ospedale.
Al suo capezzale si precipitano sua madre (Lurene Tuttle) sua sorella Charlotte (Marge Redmond) e suo marito Willie Gringrich che sente subito l’odore di un risarcimento a sei zeri. Appena ripresosi Harry si sente solo indolenzito, ma Willie lo convince a fingere di avere perso l’uso di una gamba e di un braccio proprio a causa del trauma, visto poi che Charlotte gli ha raccontato che da bambino suo lui, cadendo dal tetto, si è incrinato una vertebra.
Hinkle si rifiuta categoricamente di mentire, ma il suo diabolico cognato alla fine riesce a convincerlo che il suo stato certamente farebbe tornare la sua ex moglie Sandy (Judi West), scappata un anno prima con un musicista per far decollare la sua carriera di cantante. Intanto, all’ospedale arriva trafelato e turbato “Boom Boom” Jackson, che non riesce a perdonarsi le gravi menomazioni che ha apparentemente causato a Harry.
Nonostante il prestigioso ed esperto studio legale – con tanto di investigatore privato fornito di macchina da presa e microfoni perimetrali – incaricato dall’assicurazione di verificare l’autenticità dei danni subiti da Hinkle, Willie Gringrich riesce ad organizzare un piano a prova di bomba. L’avvocato ha pensato proprio a tutto, tranne all’anima di suo cognato che è un illuso sì, ma onesto…
Superba commedia firmata dal grande Billy Wilder maestro indiscusso del genere hollywoodiano, che rappresenta una neanche troppo velata critica alla televisione e soprattutto al lato voyeuristico e opportunistico che questa fomenta nella società. Ne sono un esempio il morboso spionaggio di Chester Purkey (Cliff Osmond), l’investigatore privato che riprende ed ascolta 24 ore su 24 Hinkle per conto dello studio legale dell’assicurazione; e l’illusione di Sandy di poter diventare un’artista famosa solamente presentandosi “come si deve” in televisione.
Come tutte le opere del maestro Billy Wilder: graffiante e sempre attuale. La pellicola sancisce la definitiva ascesa di Walter Matthau nell’olimpo delle stelle di prima grandezza del firmamento del cinema americano. La bravura di Matthau, in questo ruolo, oscura anche quella del grandissimo Lemmon.
Per la chicca: il titolo originale del film è “The Fortune Cookie” e si riferisce al biscotto della fortuna che Harry apre e nel quale c’è la famosa frase di Abraham Lincoln – che lo stesso Willie Grigrich definisce: “un ottimo presidente, ma un pessimo avvocato…” – che dice: “Potete ingannare tutti per qualche tempo e alcuni per sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre”. Frase che forse Wilder e I.A.L. Diamond, autori della sceneggiatura, volevano riferire anche alla televisione? …Ai posteri l’ardua sentenza.
Da ricordare, nella nostra versione, gli stratosferici Renato Turi ed Emilio Cigoli che donano, come sempre superbamente, le voci rispettivamente e Walter Matthau e Jack Lemmon.
Il medioevo è ricordato spesso come il momento dei secoli bui, di quando regnavano soprattutto la forza, la prepotenza e le superstizioni. E mentre gli uomini non lesinavano colpi mortali e fendenti alla schiena, alle donne non restava che sperare nella provvidenza per vivere una vita il meno dolorosa e frustrante possibile.
Ma il quel funesto e spietato momento storico appare una luce, una piccola luce che squarcia il buio. E’ quella del giovane e ingenuo Aldobrando che, ancora bambino, venne affidato alla cure e agli insegnamenti di un vecchio che molti considerano uno stregone.
Il padre, un cavaliere rimasto vedovo, glielo consegna sapendo che all’alba dovrà morire nella “fossa”, l’arena nella quale si risolvono le dispute fra il “bene” e il “male”, che naturalmente finiscono sempre per rafforzare il potere e le casse dell’avido re.
Aldobrando cresce sotto gli insegnamenti del vecchio imparando a leggere e a scrivere, vera rarità in quel tempo in cui la Chiesa si teneva ben stretta e cara la sapienza. Forse per questo, il giovane, ha tanta paura di affrontare il mondo che è fatto di cose vere e non solo di teorie o formule.
Arriva il giorno, però, che l’anziano tutore rimane gravemente ferito ad un occhio proprio a causa di un errore di Aldobrando, e l’unico modo per evitare una devastante infezione è quella di trovare il prima possibile l’erba del lupo, l’unica pianta capace di guarire una lacerazione così grave e pericolosa.
Il benessere dello stregone è l’unica cosa capace di superare le sue profonde paure e così il gracile Aldobrando è costretto ad uscire dalla capanna del suo mentore e ad affrontare il mondo. Lo farà solo con la sua coscienza, la sua intelligenza, la sua ingenuità e con un piccola e malridotta spada di legno.
Gli eventi e il destino gli faranno fare incontri e vivere eventi attraverso i quali conoscerà il mondo e, soprattutto, se stesso passando anche su quell’arena sanguinosa dove molti anni prima è perito suo padre.
Delizioso romanzo grafico adatto ai giovani ma anche ai meno giovani come me, che amano viaggiare fra parole e disegni davvero molti belli e accattivanti. La storia è di GIPI, uno dei nostri più brillanti autori, i disegni di Luigi Critone e i colori di Francesco Daniele e Claudia Palescandolo.
Marcel Féron è un uomo mite. I suoi gravi problemi agli occhi lo hanno reso un bambino sempre molto pacato prima e un adulto sempre molto calmo poi. Data la sua salute cagionevole – è stato affetto anche dalla tubercolosi – e la sua vista limitata, a causa della quale Julien ha dovuto portare quasi da subito degli occhiali con delle enormi lenti a “fondo di bottiglia”, è stato sempre convinto di dover passare una vita solitaria.
Ma grazie alla sua passione per la meccanica e per l’elettricità è riuscito ad aprirsi un laboratorio di riparazioni e vendita di apparecchi radiofonici. Ma soprattutto Marcel, contro ogni sua aspettativa, ha creato una famiglia. Si è sposato con Jeanne e da lei ha avuto la piccola Sophie.
Adesso sua moglie è nuovamente incinta, ed è al settimo mese di gravidanza. Tutto sembra procedere nei binari ordinari e pacifici che tanto si addicono a Marcel, ma invece vacilla nel maggio del 1940 quando le truppe della Wehrmacht invadono il Belgio.
La località francese dove vive Marcel, con la sua famiglia, si trova nelle Ardenne ed è proprio al confine col Belgio. Già dall’alba le strade della cittadina si riempiono di numerosi furgoncini o automobili belgi, che fuggono dalle truppe tedesche.
Marcel, in poche ore, decide di partire per proteggere sua moglie e sua figlia. Ma non possedendo alcun mezzo di trasporto, fatta eccezione di un piccolo carretto in legno che usa per riconsegnare le radio ai clienti, è costretto a recarsi nella piccola stazione locale, che è già invasa da decine di persone che come lui vogliono mettersi in salvo.
I volontari e le ausiliare fanno salire, visto il suo stato, Jeanne e la piccola Sophie sul vagone di prima classe, mentre Marcel riesce a trovare un angolo in uno dei vagoni merci in fondo al convoglio.
In pochi instanti i Féron diventano una famiglia di profughi senza più una casa e una vera destinazione, se non un luogo che sia il più lontano possibile dalla guerra. Inizia così un viaggio allucinante, fatto di separazione, di interminabili ore fermi in un binario morto, senza spesso poter neanche scendere.
Col passare del tempo, sul vagone, si crea una micro società con le sue regole e le sue concessioni. E proprio sul vagone Marcel incrocia lo sguardo di Anna, una giovane donna austera e volitiva, e come lui sola…
Ancora un indimenticabile viaggio – è proprio il caso di dirlo – che il maestro Simenon ci fa fare nell’animo di un uomo che tutti, a partire da se stesso, hanno sempre considerato semplice e forse anche mediocre. Ma gli eventi lo porteranno a precipitare negli occhi di una donna enigmatica ma al tempo stesso limpida. Una donna molto particolare, irrisolta e per questo tanto reale, come forse solo il maestro Simenon sapeva tratteggiare.
Scritto nel 1961, questo bel romanzo acquista oggi un sapore ancora più particolare raccontandoci di profughi, viaggi della speranza e treni che portano lontano dalla guerra, argomento funesto tragico e tanto – …troppo – attuale.
Nel 1973 Pierre Granier-Deferre dirige l’adattamento cinematografico dal titolo “Noi due senza domani” con Jean-Louis Trintignant e Romy Schneider.
La saga di “Star Wars”, nel corso dei decenni, ha ispirato centinaia di parodie, nonché di fan movie. Lo stesso George Lucas, almeno fino a quando è stato in possesso dei diritti commerciali della sua opera più famosa, ha sempre dichiarato di guardare piacevolmente ogni fan movie e ogni parodia, senza poi mai chiedere alcuna royalty.
Il maestro delle parodie e del cinema comico americano Mel Brooks decide così di contribuire al filone e firmare un’intera pellicola dedicata al mondo creato da Lucas e al cinema di fantascienza in generale più famoso, come quello di “Star Trek” e “Alien”.
Scritto dallo stesso Brooks assieme a Ronny Graham – che nel film interpreta l’alto prelato preposto a celebrare il matrimonio fra la principessa Vespa e il principe Valium – e Thomas Meehan questo “Balle spaziali” ci porta in una galassia “…molto, molto, molto, molto” lontana dove viveva la spietata razza nota come Spaceballs.
Sul pianeta Druida si sta per celebrare il matrimonio fra la principessa Vespa (Daphne Zuniga) e il principe Valium, ma la ragazza alla fine preferisce fuggire assieme alla sua droide nonché damigella Dorothy.
La principessa viene però catturata dalle truppe di Lord Casco Nero (Rick Moranis) che, assecondando l’ordine del presidente degli Spaceballs Scrocco (lo stesso Mel Brooks) intende ricattare re Rolando (Dick Van Patten) per rubargli 10.000 anni di aria pura e fresca, visto che il pianeta Spaceball è ormai al collasso a causa dell’inquinamento.
Ma re Rolando chiama in suo aiuto il mercenario Stella Solitaria (Bill Pullman) e il suo fedele amico mezzo umano e mezzo cane Rutto (John Candy). Così i due sfidano i potenti e implacabili Spaceballs per liberare Vespa e l’intera galassia…
Forse non fra i migliori film di Mel Brooks, probabilmente anche a causa di un doppiaggio in italiano dove molte battute e gag verbali si sono inesorabilmente perse a favore di facili allusioni sessuali e banali parolacce. Ma rimane comunque una pellicola da vedere per tutti gli amanti della saga creata da Lucas e dei famigerati e intramontabili – …ahimé – anni Ottanta.
Per la chicca: nella versione originale a doppiare il robot Dorothy – che nella nostra ha la voce di Emanuela Rossi che imita quella della grande Tina Pica – è Joan Rivers: la prima grande stand up comedian americana, ancora oggi citata e omaggiata. Nella parte del perfido Pizza Margherita, il boss caricatura di Jabba The Hutt, c’è Dom DeLuise.
Le radici sono importanti, e non solo per i vegetali, ma anche per gli esseri umani.
Ce lo ricorda molto bene Craig Thompson in questo primo libro di una trilogia di romanzi grafici dedicata alla sue di radici, annodate nel profondo con quelle delle piante di gingseng che da bambino e da adolescente aiutava a coltivare.
Nato nel 1975 e trasferitosi con la sua famiglia nel Wisconsin, il piccolo Craig impara presto cosa significa crescere in una famiglia con pochi mezzi economici. Così durante la vacanze estive Craig, suo fratello minore Phil sua sorella e sua madre, lavorano nei campi di gingseng di alcuni coltivatori per togliere l’erbacce o le pietre che possono rovinare i mezzi agricoli.
E’ un lavoro duro e stancante, ma Craig e Phil ne sono entusiasti perché con la maggior parte della paga che ottengono possono comprarsi tutti i fumetti che vogliono. Adulto, Craig, decide di tornare con i fratelli a casa dei propri genitori per scrivere questa trilogia dedicata alle sue radici, compresa quella del ginseng che nel Wisconsin ha una storia del tutto particolare.
Infatti è l’unico posto al mondo, fuori dai confini della Repubblica Popolare Cinese, dove cresce un’ottima e preziosa qualità della pianta da millenni considerata fra le più curative e importanti della tradizione orientale, e non solo cinese.
Così Craig torna a visitare le fattorie dove da bambino e ragazzo ha lavorato per parlare con i proprietari e ricordare la sua vita e quella di tutta la sua piccola comunità, che per due settimane all’anno diventava una dei luoghi più importanti del mercato planetario di gingseng.