La Foglia d’Acanto: un podcast per chi ama libri, film e serie tv senza spoiler!

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“La Foglia d’Acanto”, è il podcast che nasce dall’amore – o forse sarebbe meglio dire, dall’ossessione… – per le storie. Che siano scritte su carta, proiettate su un grande schermo o diluite in più puntate da divorare sul divano, io le vivo sempre con un occhio attento e, non lo nascondiamo, anche con un pizzico di ironia.

Dopo aver trascorso anni a scrivere recensioni per questo blog, ho deciso di portare questa passione anche in formato audio, per permettervi di ascoltare le mie riflessioni mentre andate al lavoro, preparate la cena o semplicemente cercate un po’ di compagnia durante le giornate frenetiche. In ogni episodio parlerò di libri che meritano di essere letti (e, a volte, ma molto più raramente di quelli che avrei dovuto evitare), di film che lasciano un segno (e di quelli che sarebbe meglio non vedere mai) e di serie tv che creano dipendenza (o che, talvolta, ci fanno pentire di aver acceso il televisore).

Il titolo, La Foglia d’Acanto, richiama una pianta che da sempre simboleggia l’arte e la creatività, ma è anche una metafora di quelle storie che nascono da una semplice idea, per poi crescere e avvolgerci come una pianta, anche quando meno ce lo aspettiamo. In questo podcast, però, ci sarà sempre spazio per l’ironia, perché sono convinto che il modo migliore per parlare di cultura sia farlo sempre con passione, ma anche con leggerezza.

Quindi, se siete alla ricerca di consigli, di spunti o semplicemente di un po’ di sano intrattenimento, La Foglia d’Acanto è il posto giusto. Sedetevi, rilassatevi e lasciatevi trasportare da recensioni, riflessioni e qualche battuta qua e là. Prometto che non vi annoierete.

Lo potete trovare gratuitamente su Spotify, Amazon Music e YouTube.

Buon ascolto,
Valerio

“Sperandina”

In primo piano

Per Sperandina Rimedi la speranza è solo una parte del nome perché la vita si presenta presto priva di aspettative e con ben pochi sogni da realizzare.

A cavallo tra due secoli le drammatiche vicende del nostro Paese, dalla seconda guerra mondiale al terrorismo, sino alla pandemia, scandiscono il trascorrere di una vita, nel cui inesorabile dipanarsi per nove decenni, emerge la dolorosa consapevolezza di un prezioso ”durante”.

Sperandina, soprattutto, ci mostra le difficoltà di crescere donna in una società patriarcale, con un padre maschilista e tanti, troppi, pregiudizi da superare, ma l’indipendenza conquistata a fatica le consente di godere comunque del bello della vita, di sognare attraverso il cinema, il teatro, la musica e di toccare anche l’amore.

Sperandina, che dopo aver lasciato Roma, rassegnata e disillusa, decide di vivere definitivamente a Perugia, la speranza non la perde mai davvero. Così la speranza per Sperandina brilla anche nelle sue ultime brevi e sospirate parole, che guardano al futuro con fiducia e amore.

Parabola umana di una straordinaria figura femminile, delineata con estrema sensibilità e delicatezza in un quadro sociologico, storico e familiare destinato a suscitare profonde emozioni.

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“Infedelmente tua” di Preston Sturges

(USA, 1948)

Quando si parla di Preston Sturges, si tocca una delle vette più alte della commedia americana del cinema classico perché, non a caso, è stato il primo grande sceneggiatore di Hollywood a passare direttamente dietro la macchina da presa. Con il suo stile inconfondibile, caratterizzato da dialoghi brillanti, personaggi esuberanti e trame che oscillano tra il comico e il surreale, Sturges ha firmato alcune delle pellicole più originali e spiazzanti degli anni Quaranta. E “Infedelmente tua”, realizzato nel 1948, non fa eccezione.

Il film racconta la storia di Alfred de Carter, un celebre direttore d’orchestra inglese interpretato da un magnifico Rex Harrison, che si trova travolto da una gelosia devastante verso la giovane e affascinante moglie Daphne (Linda Darnell). Il tarlo della gelosia nasce da un sospetto instillato da un investigatore privato, ma la grande trovata di Sturges sta nel trasformare questo classico spunto drammatico in una commedia sofisticata e a tratti geniale.

Alfred, durante un’esecuzione musicale, inizia a fantasticare su tre diversi modi di vendicarsi della presunta infedeltà della moglie. Ogni fantasia si sviluppa durante l’esecuzione di un pezzo musicale, e qui Sturges mostra tutto il suo talento nel fondere immaginazione e realtà, trasformando la musica in un pretesto per svelare la follia dei pensieri del protagonista. Harrison, con la sua eleganza innata e il suo sottile umorismo britannico, è perfetto nel dare vita a un uomo che si destreggia tra il contegno formale e l’assurdità dei suoi piani vendicativi.

Ma come spesso accade nelle commedie di Sturges, niente va come previsto. Ogni piano ideato da Alfred si rivela un disastro totale, esponendo la goffaggine della natura umana e ridicolizzando l’ossessione della gelosia. Ed è proprio questo l’aspetto più affascinante del film: sotto la patina di commedia leggera si nasconde una riflessione più profonda sui limiti dell’immaginazione e sulle trappole mentali in cui spesso ci cacciamo.

Nonostante il film non ebbe un grande successo al botteghino alla sua uscita, “Infedelmente tua” è una delle opere più raffinate e sottili di Sturges. Il suo humor nero e il suo modo di giocare con le aspettative dello spettatore lo rendono ancora oggi una commedia che, per chi ama il genere, merita di essere riscoperta.

Rex Harrison, che poi avrebbe vinto l’Oscar per la sua interpretazione in “My Fair Lady” di George Cukor, dimostra qui tutta la sua classe, passando con disinvoltura da momenti di intensa gravità a situazioni di puro slapstick. E Linda Darnell, con il suo fascino enigmatico, aggiunge una dimensione ulteriore al mistero che circonda la sua presunta infedeltà.

“Infedelmente tua” è una di quelle pellicole che non ti aspetti: una commedia brillante e sofisticata che, sotto la superficie, racconta con intelligenza e umorismo la fragilità delle relazioni umane. Sturges, ancora una volta, riesce a orchestrare una sinfonia perfetta di risate e riflessioni.

Un film da vedere e apprezzare, soprattutto per chi è alla ricerca di una commedia che non si limita a far sorridere, ma che sa anche far pensare.

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 “Ombre e nebbia” di Woody Allen

(USA, 1991)

Con “Ombre e nebbia” Woody Allen ci porta in un territorio inusuale per il suo stile, ma non per il suo spirito irrequieto e curioso. Questo film del 1991, girato interamente in un bianco e nero meravigliosamente espressionista, è una sorta di omaggio al genio di Franz Kafka e al cinema muto, ai thriller noir degli anni ’30 e a quel mondo visionario che registi come Fritz Lang e Friedrich Wilhelm Murnau hanno saputo creare. Per girarlo, la produzione ha realizzato un set di oltre 2.000 metri quadrati, uno dei più grandi mai creati a New York.

Tratto dal racconto “Morte” che lo stesso Allen pubblicò nel 1972 nella raccolta “Citarsi addosso” – poi ripubblicata nel nostro Paese col titolo “Senza piume” nel 2023 – la trama del film segue Kleinman, interpretato dallo stesso Allen, un uomo qualsiasi che si trova, suo malgrado, coinvolto in una caccia a un misterioso assassino che terrorizza una città avvolta dalla nebbia. Sembra quasi una fiaba, ma di quelle oscure, dove il protagonista si muove senza una vera direzione, perso in un mondo popolato da figure eccentriche, tutte in qualche modo distaccate dalla realtà. La caccia all’assassino, in fondo, è solo una scusa per esplorare i grandi temi che Allen ama affrontare: la paura, l’incertezza, il significato (…o la mancanza di significato) dell’esistenza.

L’atmosfera onirica è resa perfettamente grazie a una regia che non ha paura di prendersi i suoi tempi e un cast di altissimo livello: oltre a Mia Farrow, ci sono John Malkovich, Jodie Foster, Kathy Bates, John C. Reilly, Madonna e tanti altri come John Cusack, che poi interpreterà il delizioso “Pallottole su Broadway” diretto dallo stesso Allen nel 1995. Ognuno dei personaggi interpreta una piccola parte di questo strano mosaico umano. Ciascuno è alla ricerca di qualcosa, e come spesso accade nei film di Allen, alla fine non trovano molto, se non ulteriori domande.

“Ombre e nebbia” è un film che non offre risposte semplici né confortanti. È un’opera che ti lascia con la sensazione che tutto sia effimero e fugace, come la nebbia che copre e scopre le strade della città senza nome, fotografata superbamente da Carlo Di Palma. Allen non ci risparmia il suo umorismo sottile e intellettuale, ma qui è più cupo, quasi cinico, come se volesse ricordarci che la vita, alla fine, è solo una lunga serie di tentativi di sfuggire alle nostre paure.

Non è un film facile o convenzionale. Chi ama il Woody Allen più leggero e spensierato, quello delle commedie romantiche o dei dialoghi fulminanti, potrebbe trovare questo lavoro troppo distante dai suoi gusti. Ma per chi è disposto a seguire Allen in questa incursione nel crepuscolo, “Ombre e nebbia” è un’esperienza affascinante, che riflette sul cinema, sulla filosofia e sulla nostra fragile condizione umana.

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“La voce della tortora” di Irving Rapper

(USA, 1948)

Tratto dall’omonima commedia teatrale di John Van Druten (i cui diritti la produzione, visto il successo a Broadway, pagò ben 500.000 dollari) “La voce della tortora”, diretto da Irving Rapper, è una leggera e piacevole commedia romantica che si inserisce perfettamente nella Hollywood del dopoguerra. Con protagonisti Eleanor Parker e Ronald Reagan, il film riesce a intrattenere e divertire, ma è Eve Arden a rubare la scena con una performance brillante e irresistibile.

New York, 1945, la guerra in Europa, come l’inverno, sembra non finire più. Sally Middleton (Eleanor Parker), un’attrice di New York delusa dall’amore, accetta di ospitare per un weekend il sergente Bill Page (Ronald Reagan), rimasto senza appuntamento dopo essere stato scaricato all’ultimo minuto da Olive, amica e collega di palcoscenico della stessa Sally. Tra incomprensioni, battute romantiche e momenti di tenerezza, il legame tra i due protagonisti cresce lentamente, ma ciò che realmente dà al film la sua energia è la presenza di Eve Arden nei panni di Olive Lashbrooke, l’amica sarcastica e cinica della protagonista.

Arden, con il suo inimitabile tempismo comico, riesce a far risaltare ogni battuta che le viene affidata. Il suo personaggio è la perfetta incarnazione della sagacia disincantata: ogni suo commento è una freccia lanciata con precisione contro le ingenuità romantiche di Sally e le goffaggini di Bill. È lei, con il suo cinismo e la sua ironia, a bilanciare i toni dolci e sentimentali del film, evitando che scivoli nel melenso. In un’epoca in cui le spalle comiche femminili erano spesso relegate a ruoli minori, Eve Arden dimostra tutto il suo talento, trasformando Olive in un personaggio che resta impresso nella memoria dello spettatore.

La sua interpretazione è brillante, leggera ma al tempo stesso incisiva, e rende evidente come il talento di Arden sia stato spesso sottovalutato. Mentre Eleanor Parker e Ronald Reagan portano avanti la trama principale con grazia e dolcezza, è la saggezza cinica e divertente di Arden a dare alla pellicola un sapore unico, facendoci sorridere e ridere di cuore.

Irving Rapper (che all’inizio aveva cercato di scritturare Cary Grant per la parte di Bill e che era restio alla scelta di Reagan che reputava un attore mediocre), regista dallo stile sobrio e funzionale, lascia giustamente spazio ai suoi attori, permettendo loro di brillare nei rispettivi ruoli. Ma se Parker e Reagan seguono un percorso prevedibile e ben battuto nella commedia romantica classica, Arden si muove su un altro livello, con un’energia e un’intelligenza che elevano ogni scena in cui compare. Le generazioni successive, come la mia, possono apprezzare la Arden anche in pellicole più recenti, come l’intramontabile “Grease”, in cui l’attrice interpreta la professoressa McGee, la preside della Rydell High School.

In conclusione, “La voce della tortora” è una commedia piacevole, che scorre via in maniera leggera, senza troppe pretese. Ma se c’è un motivo per cui vale davvero la pena guardarlo, questo è senza dubbio la straordinaria interpretazione di Eve Arden – attrice molto amata da Woody Allen che considera questa pellicola una delle sue preferita del tempo – che con il suo sarcasmo arguto e la sua presenza scenica magnetica riesce a trasformare un film altrimenti ordinario in una piccola gemma di intrattenimento.

Nella nostra versione, fatta quando la pellicola uscì nella nostre sale, da ricordare l’immortale Rina Morelli che dona la voce a Eleanor Parker e Clelia Bernacchi a Eve Arden.

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“Happiness” di Todd Solondz

(USA, 1998)

Todd Solondz non è certo un regista che gira intorno alle cose. Anzi, le affronta di petto e lo fa sempre senza paura di sporcarsi le mani, anzi, le sprofonda direttamente nel fango dell’animo umano. “Happiness”, il suo terzo lungometraggio, non fa eccezione, ed è forse il film che più di tutti ha segnato la sua carriera. Un’opera che ha fatto discutere e continua a dividere, grazie (o a causa) della sua capacità di portare sullo schermo le parti più nascoste e inquietanti della società americana, e non solo.

La storia ruota attorno alla famiglia Jordan, il cui patriarca è Lenny (interpretato fa Ben Gazzara) sposato da molti decenni con Mona (Louise Lasser). Le loro tre figlie Trish, Helen e Joy sono l’emblema di un’apparente normalità che nasconde profondi abissi emotivi e segreti inconfessabili. La bella e ricca Helen (Lara Flynn Boyle), scrittrice di successo, è intrappolata in una vita in cui tutto le sembra troppo facile e banale. Sua sorella minore Joy (Jane Adams), invece, è l’eterna perdente, una donna fragile e insicura alla ricerca di un posto nel mondo, che sembra sfuggirle ogni volta che pensa di averlo trovato.

Ma se i drammi di queste due sorelle già mettono in evidenza le contraddizioni della vita borghese, è con i personaggi maschili che Solondz spinge davvero sull’acceleratore. Allen (un grande Philip Seymour Hoffman) è un uomo solitario e socialmente inetto, ossessionato da fantasie sessuali che lo rendono incapace di qualsiasi forma di interazione normale con l’altro sesso. L’altro volto oscuro è Bill (Dylan Baker), marito di Trish (Cynthia Stevenson) padre di famiglia e stimato psichiatra, che nasconde terribili pulsioni dietro la sua facciata rispettabile.

Ciò che colpisce di “Happiness” è come Solondz riesca a trattare temi tabù – la pedofilia, la perversione sessuale, la solitudine e l’alienazione – senza mai cedere alla provocazione fine a se stessa o alla morbosità gratuita. Ogni personaggio, per quanto moralmente discutibile o repellente, è tratteggiato con una tale umanità che diventa difficile giudicarlo con superficialità. Anzi, il regista ci obbliga a guardarli da vicino, costringendoci a confrontarci con le nostre stesse ipocrisie e debolezze.

Il cast è straordinario: Lara Flynn Boyle è perfetta nel ruolo della glaciale Helen, mentre Philip Seymour Hoffman regala una delle sue interpretazioni più intense e scomode, così come sono taglienti i dialoghi fra Lenny e Mona che si ritrovano sull’orlo del divorzio. Ma è Dylan Baker a sorprendere: il suo Bill è un personaggio che lascia un segno indelebile, grazie alla sua capacità di incarnare il male più subdolo sotto le sembianze della normalità quotidiana.

Nonostante la durezza dei temi trattati, Solondz mantiene uno stile narrativo asciutto e freddo, alternando momenti di crudo realismo a sprazzi di humor nero, talmente sottile da risultare quasi impercettibile. È proprio questa miscela a rendere “Happiness” un film così disturbante: lo spettatore si ritrova a ridere di situazioni tragiche o a sentirsi a disagio di fronte a scene che normalmente dovrebbe rifiutare senza esitazione.

Non è un film per tutti. Solondz non fa sconti, non offre redenzione o vie d’uscita. Chi guarda “Happiness” deve essere disposto a confrontarsi con una visione del mondo che mette a nudo le peggiori fragilità umane. Ma per chi è disposto a intraprendere questo viaggio scomodo, il film regala una riflessione profonda e sconvolgente sulla natura della felicità e sul prezzo che siamo disposti a pagare per ottenerla.

Un’opera d’arte nel vero senso del termine, che non lascia indifferenti e che, a più di vent’anni dalla sua uscita, continua a essere un punto di riferimento per il cinema indipendente e per tutti coloro che cercano qualcosa di più di una semplice evasione dalla realtà. Da ricordare anche la colonna sonora, curata da Robby Kondor, che volutamente commenta le scene con musica opposta agli eventi e alle emozioni che provano i personaggi.

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“Una relazione privata” di Frédéric Fonteyne

(Francia/Svizzera/Belgio/Lussemburgo, 1999)

Se una volta tanto i distributori italiani ci hanno azzeccato con il titolo del film, qualcosa vorrà pur dire.

Il regista belga Frédéric Fonteyne, infatti, con questa pellicola del 1999 – il cui titolo originale è “Une liaison pornographique”, dove il pornografico è intenso come qualcosa di intimo che viene reso pubblico – ci racconta la storia fra un uomo e una donna, entrambi senza nome, che si incontrano per dare vita a una relazione puramente fisica, senza coinvolgimenti emotivi né complicazioni sentimentali. Almeno nelle loro intenzioni.

Interpretati magistralmente da Nathalie Baye (attrice di vari film del maestro François Truffaut come “Effetto notte”, “L’uomo che amava le donne” e “La camera verde”) e Sergi López (che poi vestirà i panni del crudele e sanguinario capitano Vidal nello struggente “Il labirinto del fauno” di Guillermo Del Toro) i due protagonisti si sono conosciuti tramite un annuncio e hanno stabilito delle regole ferree per il loro rapporto: nessun contatto al di fuori delle loro “sessioni” e nessuna curiosità sulle rispettive vite private. Ma, come sappiamo, mettere delle barriere ai sentimenti, quelli veri, è spesso un’impresa vana e fuori da ogni possibilità umana.

La storia è raccontata in modo singolare: il film alterna le scene del loro rapporto clandestino a interviste postume dei due protagonisti, che rivelano il loro punto di vista sugli eventi, dopo che la relazione è ormai giunta al termine. Questo espediente non solo aggiunge una dimensione riflessiva alla narrazione, ma ci permette anche di conoscere a fondo i pensieri più intimi dei due, che forse non avrebbero mai osato confessare l’una all’altro.

Fonteyne riesce, con una regia asciutta e mai invadente, a costruire un racconto dove il non detto ha lo stesso peso delle parole pronunciate. Le scene di intimità, sebbene presenti, non scivolano mai nel voyeurismo o nella volgarità, e sono sempre al servizio della trama e dello sviluppo psicologico dei personaggi. La camera si sofferma sui loro volti, sui gesti e sui silenzi, restituendo allo spettatore un senso di autenticità e fragilità che rende la loro storia tanto comune quanto unica.

Il film ci interroga su quanto sia possibile tenere separati i sentimenti dal desiderio fisico. I protagonisti, pur cercando di vivere una relazione priva di complicazioni emotive, scoprono che il coinvolgimento personale è inevitabile, e che il contatto fisico è spesso l’anticamera di qualcosa di più profondo e difficile da gestire.

Nathalie Baye, con la sua interpretazione misurata ma intensa, dona al suo personaggio una complessità che si svela piano piano, mentre Sergi López riesce a trasmettere con straordinaria naturalezza il conflitto interiore del suo protagonista. Entrambi si ritrovano coinvolti in una rete di sentimenti dalla quale non sanno – …e forse non vogliono – più fuggire.

“Una relazione privata”, scritto da Philippe Blasband, è un piccolo gioiello del cinema europeo, che con pochi elementi e tanta sensibilità ci racconta una storia che tocca corde profonde. Non cerca mai di sorprendere con colpi di scena o trovate narrative, ma ci avvolge lentamente in un’atmosfera intima e malinconica, dove le parole non dette pesano più di quelle pronunciate.

Un film da vedere per chi ama le storie d’amore non convenzionali e il cinema che sa indagare con discrezione nell’animo umano.

“Your Sister’s Sister” di Lynn Shelton

(USA, 2011)

Ci sono film che riescono a toccare corde profonde con una delicatezza disarmante, e “Your Sister’s Sister” di Lynn Shelton (1965-2020) è uno di questi. Questo gioiellino indipendente, infatti, dimostra come la semplicità possa essere il veicolo ideale per esplorare le complessità delle relazioni umane, attraverso una narrazione intima e autentica.

La storia ruota attorno a Jack (Mark Duplass), un uomo ancora devastato dalla recente morte del fratello. La sua migliore amica, Iris (Emily Blunt), lo convince a prendersi una pausa dalla vita quotidiana, invitandolo a trascorrere qualche giorno di isolamento nella casa di famiglia su un’isola del Pacifico nord-occidentale. Quello che dovrebbe essere un rifugio tranquillo si trasforma in qualcosa di molto diverso quando Jack scopre che la casa è già occupata dalla sorella di Iris, Hannah (Rosemarie DeWitt), che si sta riprendendo dalla fine di una lunga relazione.

L’incontro tra Jack e Hannah dà il via a una serie di eventi imprevedibili che coinvolgono segreti, rivelazioni e dinamiche familiari complesse. Il film si snoda tra momenti di intenso dramma e situazioni di sottile umorismo, mantenendo sempre una tonalità sincera e profondamente umana. Shelton, che ha anche scritto la sceneggiatura, riesce a creare personaggi incredibilmente realistici, con dialoghi che sembrano emergere spontaneamente, come conversazioni reali tra persone che conosciamo da sempre.

Uno degli aspetti più affascinanti di “Your Sister’s Sister” è la sua capacità di esplorare le sfumature dell’intimità e del legame fraterno. La relazione tra Iris e Hannah è centrale al film, e l’alchimia tra Emily Blunt e Rosemarie DeWitt è palpabile, rendendo credibile ogni interazione. La loro dinamica è complicata, a tratti conflittuale, ma sempre intrisa di un profondo affetto, che risuona con una verità universale.

Mark Duplass, con la sua interpretazione naturale e non forzata, incarna perfettamente l’antieroe moderno: imperfetto, vulnerabile e, in fin dei conti, straordinariamente umano. Jack è un personaggio con cui è facile identificarsi, qualcuno che lotta con il dolore e la confusione, ma che trova anche momenti di leggerezza e conforto nelle connessioni che stabilisce.

La regia di Shelton è discreta, quasi invisibile, lasciando che siano i personaggi e la storia a guidare l’esperienza dello spettatore. Il film è stato girato con un budget modesto e con un approccio quasi documentaristico, il che contribuisce a creare un’atmosfera intima e immediata. I paesaggi dell’isola, fotografati con una luce naturale, aggiungono un ulteriore strato di bellezza e isolamento, rispecchiando lo stato d’animo dei personaggi.

“Your Sister’s Sister” è un film che non ha bisogno di grandi colpi di scena o di effetti speciali per catturare l’attenzione. È una storia semplice ma profondamente risonante, che parla di dolore, amore, e del complicato groviglio di emozioni che spesso accompagna le nostre relazioni più strette. È un’opera che lascia spazio alla riflessione e che invita lo spettatore a confrontarsi con le proprie esperienze e i propri sentimenti.

In un’epoca in cui il cinema sembra spesso puntare su spettacoli grandiosi e trame complesse, “Your Sister’s Sister” ci ricorda che la forza di un film può risiedere nella sua semplicità e nella sua capacità di raccontare storie che toccano il cuore. Lynn Shelton, con la sua sensibilità unica, ha creato una pellicola che rimane impressa nella memoria, offrendo un’esperienza cinematografica tanto intima quanto universale. Una volta, anche la nostra cinematografia, era capace di sfornare pietre preziose a basso costo come questa.

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“Harper” di Jack Smight

(USA, 1966)

Il 1966 ha regalato agli amanti del cinema noir un piccolo gioiello intitolato Harper, un film diretto con mano sapiente da Jack Smight e reso indimenticabile dalla straordinaria interpretazione di Paul Newman. In un’epoca in cui il cinema era popolato da eroi monolitici e investigatori dai metodi ortodossi, Harper emerge come un’opera che sfida le convenzioni del genere, portando sul grande schermo un detective dai tratti cinici, disillusi, ma anche incredibilmente affascinanti.

Il film è un adattamento del romanzo “The Moving Target” di Ross Macdonald, e vede Newman vestire i panni di Lew Harper, un investigatore privato che sembra uscito direttamente dalle pagine di Chandler o Hammett, ma con quel tocco di modernità che solo Newman poteva dare. Harper è un personaggio complesso, un uomo la cui vita personale è in rovina, ma che riesce a trovare un equilibrio instabile attraverso il suo lavoro, fatto di casi intricati e relazioni ambigue.

La trama segue Harper mentre indaga sulla scomparsa di un ricco magnate, un caso che lo porterà a confrontarsi con una Los Angeles decadente, piena di personaggi ambigui e situazioni al limite del legale. È qui che il talento di Smight emerge con prepotenza, riuscendo a creare un’atmosfera densa e opprimente, in cui ogni scena è intrisa di una tensione sottile ma persistente. La regia di Smight, pur non avendo il tocco autoriale dei più grandi, è funzionale e incisiva, capace di tenere lo spettatore costantemente sul filo del rasoio.

Ma il vero cuore pulsante di Harper è Paul Newman. Con la sua interpretazione, l’attore riesce a rendere il personaggio di Lew Harper non solo credibile, ma anche profondamente umano. Newman gioca con le sfumature, passando con naturalezza dal sarcasmo al dolore, dalla determinazione alla vulnerabilità. È una performance che cattura l’essenza stessa del detective noir: un uomo che non si ferma davanti a nulla, ma che è anche consapevole delle proprie fragilità.

Il cast di supporto non è da meno, con una brillante Lauren Bacall nel ruolo della moglie del magnate scomparso e un’ottima Janet Leigh che interpreta la moglie di Harper, una presenza costante che ci ricorda il lato più oscuro e malinconico della vita del protagonista.

Harper non è solo un film noir, ma anche un ritratto di un’epoca e di una città. La Los Angeles degli anni ’60 è rappresentata come una metropoli in cui il sogno americano sembra essersi infranto, lasciando spazio solo a illusioni e corruzione. Smight, attraverso la lente di Harper, ci mostra un mondo in cui il confine tra giusto e sbagliato è sempre più sfumato, e in cui i personaggi sono costretti a navigare in acque torbide, alla ricerca di una verità che, forse, non esiste.

In conclusione, Harper è un film che merita di essere riscoperto, non solo per la straordinaria interpretazione di Paul Newman, ma anche per la sua capacità di catturare lo spirito di un genere e di un’epoca. È un’opera che, nonostante i suoi quasi sessant’anni, riesce ancora a coinvolgere e a far riflettere, dimostrando come il noir, quando fatto con intelligenza e passione, possa ancora parlare al cuore e alla mente dello spettatore moderno.

Nel 1975 Stuart Rosenberg dirige il sequel “Detective Harper: acqua alla gola”, sempre tratto da un romanzo di Macdonald e sempre con un grande Paul Newman nei panni del protagonista.

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“Miss Violence” di Alexandros Avranas

(Grecia, 2013)

Alcuni film riescono a sconvolgere lo spettatore non tanto per ciò che mostrano esplicitamente, ma per il mondo oscuro che lasciano intravedere dietro le apparenze. “Miss Violence”, diretto da Alexandros Avranas e presentato alla 70ª Mostra del Cinema di Venezia, rientra a pieno titolo in questa categoria.

La pellicola si apre con una scena che toglie immediatamente il fiato: Angeliki, una ragazzina di undici anni, durante la sua festa di compleanno si getta dalla finestra di casa, con un sorriso ambiguo che segna l’inizio di una discesa negli abissi dell’animo umano. Da quel momento, Avranas costruisce un thriller psicologico cupo e soffocante, dove l’apparente normalità nasconde una realtà di abusi e violenze indicibili.

La forza del film sta nel suo impianto visivo e narrativo: Avranas sceglie di mantenere un approccio stilistico glaciale, quasi clinico. La casa dove si svolge gran parte della vicenda è immacolata, ordinata in maniera ossessiva, specchio di una famiglia che sembra, agli occhi del mondo, perfettamente in controllo. Ma proprio in questo controllo si annida il male, come il regista greco ci svela gradualmente con una regia fatta di inquadrature statiche e silenzi assordanti. Ogni sguardo, ogni gesto quotidiano è impregnato di tensione.

Il cast, guidato da un magistrale Themis Panou (che non a caso vince la Coppa Volpi per la sua interpretazione), è perfetto nel rendere l’atmosfera malsana e opprimente che pervade il film. Panou interpreta il patriarca con un’aura di calma autorità che nasconde una violenza subdola e totalizzante. I membri della famiglia sembrano pedine in un gioco malato, costretti a obbedire a regole non dette, ma ferree.

“Miss Violence” non fa sconti e non lascia spazio a vie di fuga, né per i personaggi né per chi guarda. La violenza non è mai spettacolarizzata, ma permea ogni scena in modo quasi invisibile, insinuandosi sotto la pelle dello spettatore, fino a rivelare una realtà agghiacciante e dolorosamente plausibile.

La critica alla società greca è evidente, ma Avranas – che vince anche il Leone d’Argento per la sua regia – riesce a creare un racconto universale: in qualsiasi contesto culturale, dietro l’apparente perfezione di certe famiglie possono celarsi dinamiche di controllo e sottomissione che difficilmente riusciamo a immaginare.

Non è un film facile da affrontare, né da dimenticare. La sua narrazione asciutta, priva di facili spiegazioni, lascia aperte domande che continuano a tormentare a lungo: fino a che punto possiamo davvero conoscere chi ci sta accanto? E quanto possiamo ignorare prima di ammettere che il male, a volte, è proprio dove meno ce lo aspettiamo?

“Corte d’Assise” di Georges Simenon

(Adelphi, 2010)

Ci sono scrittori capaci di raccontare l’animo umano con una semplicità disarmante, e poi c’è Georges Simenon, che fa sembrare questa capacità quasi un gioco da ragazzi. Pubblicato per la prima volta nel 1941 – ma scritto nel 1937 e rifiutato molte volte perché tacciato di “assoluta immoralità” – “Corte d’assise” è uno di quei romanzi in cui l’autore, senza i soliti riflettori puntati su Maigret, si addentra nei territori più oscuri dell’animo umano, con una precisione chirurgica e un tocco di poesia che lascia il segno.

Il protagonista di questa tragedia umana è Louis Bert, detto Petit Louis, un uomo che sembra già condannato fin dal primo capitolo. Accusato dell’omicidio della sua amante Jeanne Ropiquet, Louis si ritrova in un’aula di tribunale, dove si gioca non solo il suo futuro, ma anche la comprensione di ciò che lo ha portato fin lì. Simenon ci guida attraverso il processo con una narrazione che va avanti e indietro nel tempo, mostrandoci la vita del protagonista come un film a pezzi, fatto di miseria, disperazione e scelte sbagliate.

Louis non è un mostro, non è un criminale spietato; è un uomo fragile, spezzato dalle circostanze, incapace di fuggire da una vita che sembra decisa per lui sin dalla nascita. È proprio in questo tratteggio psicologico che Simenon dà il meglio di sé. L’autore non ci offre la storia di un assassino da condannare o da assolvere, ma di un essere umano che cade, quasi inevitabilmente, nel vortice degli eventi.

Se vi aspettate una riflessione su giustizia e morale, siete nel posto giusto, ma sappiate che Simenon non è uno scrittore da soluzioni facili. In “Corte d’assise“, la giustizia non è mai bianca o nera e così, come nell'”Antigone” di Sofocle, la Legge si scontra inevitabilmente con la Morale. L’aula di tribunale diventa il teatro di una rappresentazione in cui le parti in causa — giuria, pubblico, giudici — non sono altro che attori in un gioco prestabilito. E noi lettori ci ritroviamo a osservare, con lo stesso senso di impotenza di Louis, il suo destino scivolare via.

Simenon non ci dice mai apertamente se Louis è colpevole o innocente, perché la colpa non è una questione di leggi scritte, ma di umanità. Le vite dei personaggi di Simenon non si possono spiegare con formule giuridiche: sono troppo complesse, troppo imperfette.

Come al solito, Simenon colpisce con la sua prosa asciutta e precisa. Ogni parola sembra scelta con cura maniacale, ogni dialogo affilato come una lama. Non c’è spazio per fronzoli o descrizioni inutili, perché ciò che conta è la tensione che cresce pagina dopo pagina, fino al climax inevitabile. E quella tensione è costante, palpabile, senza mai risultare forzata o esagerata.

L’atmosfera del romanzo è cupa e opprimente, tanto che sembra di sentire l’odore della polvere nell’aula di tribunale, di percepire il rumore dei passi degli avvocati, il fruscio dei documenti maneggiati dalla giuria. Non è solo un romanzo, è un’esperienza che ti avvolge e ti lascia un senso di disagio profondo, proprio come un buon Simenon dovrebbe fare.

Corte d’assise” non è tra i titoli più noti del prolifico autore belga, ma è uno di quei romanzi che una volta finiti ti rimangono attaccati addosso. Simenon ha il dono di farti riflettere sul destino e sulla fragilità della condizione umana, senza mai risultare moralista o didascalico. Se vi piacciono i romanzi che scavano nell’animo umano, che non hanno paura di mostrarvi le debolezze dei personaggi, allora questo libro è una tappa obbligata. Perché in fondo, come ci insegna Simenon, siamo tutti un po’ come Petit Louis: schiavi delle nostre scelte e vittime di un mondo che non ci capisce davvero.

E se vi aspettate un lieto fine, beh, state leggendo l’autore sbagliato.

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