Informazioni su Valerio

Sono nato a Roma alla fine dell'inverno del 1970. Da bambino ho amato molto le favole che mi si raccontavano o leggevano la sera per farmi addormentare, e fra tutte "Biancaneve e i sette nani" e le "Favole al telefono" di Gianni Rodari. Il primo libro che ho letto è stato "Pinocchio", che mi ha terrorizzato con quel pescecane che inghiotte Geppetto e con la terribile trasformazione in asino di Pinocchio e Lucignolo. Poi sono arrivati "La coscienza di Zeno" e la sua "u.s." - quell'ultima sigaretta che sembra non arrivare mai - e Italo Calvino, da "Il Barone rampante" a "Se una notte d'inverno un viaggiatore", che hanno sancito definitivamente il mio amore per la lettura. Un'estate, quando proprio non me lo aspettavo, quasi casualmente è arrivato il Re. E' Stephen King che mi fa esplodere la voglia incontrollabile di scrivere. E' leggendo "La zona morta" e subito dopo "It" che comincio a fermare sulla carta i fatti e i personaggi che mi ronzano nella testa. E la stessa cosa accade con Giorgio Scerbanenco, anche lui incontrato casualmente su una bancarella estiva. Inizio così a scrivere i miei primi veri racconti, che finiscono in un cassetto. Col passare del tempo però il cassetto diventa sempre più piccolo, i miei personaggi stipati là dentro si lamentano e mi accusano, sempre più violentemente, di vigliaccheria: non ho il coraggio di far nascere, vivere e morire - narrativamente - un personaggio capace di essere il protagonista di una storia con un più ampio respiro come quello di un romanzo. Dopo innumerevoli insulti, minacce e vessazioni, non riesco più a scappare e mi metto seduto davanti al mio computer per scrivere un cavolo di romanzo. Così, finalmente, i personaggi dei miei racconti mi danno un po' di tregua.

“Il barone rampante” di Italo Calvino

(Einaudi, 2015)

Pubblicato per la prima volta nel 1957, “Il barone rampante” è uno dei romanzi più originali e affascinanti della letteratura italiana del XX secolo, capace di conquistare lettori di ogni età con la sua inventiva narrativa e le sue profonde riflessioni filosofiche.

La storia è ambientata nel XVIII secolo e narra le vicende di Cosimo Piovasco di Rondò, un giovane nobile che, a soli dodici anni, decide di ribellarsi alle convenzioni sociali e all’autorità paterna, scegliendo di vivere sugli alberi. Una volta salito su una quercia, Cosimo giura di non scendere mai più, e da quel momento in poi, tutta la sua esistenza si svolge tra i rami degli alberi che costeggiano il piccolo borgo ligure in cui è nato.

Accanto a Cosimo si muovono una serie di personaggi che arricchiscono la narrazione e danno vita a un universo variegato e complesso: Viola, il grande amore della sua vita, con la quale intrattiene un rapporto tanto passionale quanto tormentato; il fratello Biagio, che osserva e racconta le sue gesta con affetto e ammirazione; e un susseguirsi di incontri e avventure che lo vedono interagire con contadini, banditi, filosofi e persino con Napoleone Bonaparte.

Il romanzo è un’esplorazione profonda dell’individualismo e della ricerca di libertà, della ribellione contro le convenzioni e della tensione tra il desiderio di autonomia e il bisogno di appartenere a una comunità. Calvino arricchisce la narrazione con simboli e allegorie che riflettono temi universali, rendendo “Il barone rampante” un’opera aperta a molteplici interpretazioni.

Uno degli aspetti più affascinanti del romanzo è la sua struttura, che riflette la scelta radicale di Cosimo di vivere al di fuori delle regole imposte dalla società. La prosa di Calvino è a tratti poetica e sempre carica di ironia, capace di trasportare il lettore in un mondo sospeso tra realtà e fantasia, dove la vita quotidiana si intreccia con l’immaginario, e dove ogni gesto, ogni scelta, assume un significato simbolico.

“Il barone rampante” non è solo una storia di ribellione e anticonformismo, ma anche una profonda riflessione sull’esistenza e sul rapporto tra l’essere umano e la natura. È un romanzo che sfida e stimola il lettore, invitandolo a riflettere su temi come la libertà, la solitudine e la ricerca di senso nella vita.

Calvino, attraverso la figura indimenticabile di Cosimo, ci offre uno specchio in cui riflettere le nostre stesse aspirazioni e contraddizioni, ricordandoci quanto sia preziosa e fragile la libertà di pensare e di essere se stessi. “Il barone rampante” è, senza dubbio, un capolavoro della letteratura mondiale, un libro che continua a risuonare nel cuore di chiunque abbia il coraggio di lasciarsi trasportare tra …i rami della sua incredibile foresta narrativa.

Non è solo una favola, né solo un romanzo di formazione, ma è proprio questa commistione di generi e registri a renderlo un’opera straordinaria, capace di affascinare e ispirare generazioni di lettori, un inno immortale alla libertà e alla fantasia.

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“L’occhio che uccide” di Michael Powell

(UK, 1960)

In una carriera costellata di capolavori, Michael Powell, nel 1960 raggiunge una vetta assoluta con “L’occhio che uccide” – il cui titolo originale è “Peeping Tom”, che si può tradurre col termine “guardone” – un film che ha suscitato sdegno e disapprovazione alla sua uscita, ma che oggi possiamo ammirare come una straordinaria opera di avanguardia e introspezione psicologica. Questa pellicola, al pari delle opere di Alfred Hitchcock, sfida e ridefinisce i confini del thriller e dell’horror.

La narrazione segue Mark Lewis, interpretato con gelida precisione da Karlheinz Böhm, un cameraman ossessionato dall’idea di catturare il terrore puro. Armato di una cinepresa modificata con una lama nascosta, Mark filma i suoi omicidi, trasformando la morte in un’arte visiva. La cinepresa non è solo un mezzo per documentare, ma diventa un’estensione della sua psiche disturbata, una finestra sulla sua anima tormentata.

Powell, maestro nel manipolare il linguaggio cinematografico, ci costringe a diventare complici di Mark, immergendoci nel suo punto di vista distorto. L’uso della soggettiva, l’intensità dei colori e l’illuminazione espressionista creano un’atmosfera di costante tensione, un’esperienza visiva che non permette distrazioni o distacco emotivo. La cinepresa, nelle mani di Powell, diventa uno strumento di introspezione e, al contempo, di condanna.

La tematica del voyeurismo, già esplorata in maniera sublime dallo stesso Hitchcock in “La finestra sul cortile” del 1954, trova qui una rappresentazione ancora più diretta e inquietante. “L’occhio che uccide” non solo ci fa osservare, ma ci interroga sul nostro stesso desiderio di guardare, mettendo a nudo la nostra complicità nel consumo visivo della sofferenza altrui. Questo gioco metacinematografico è condotto con una precisione chirurgica, rivelando la natura predatoria dello sguardo cinematografico.

La performance di Karlheinz Böhm è fondamentale nell’alchimia del film. Il suo Mark Lewis è un personaggio di grande complessità, che evoca al tempo stesso profonda compassione e grande repulsione. Böhm riesce a catturare le sfumature di un uomo intrappolato tra il trauma della sua infanzia funestata dal padre, e la sua ossessione per la paura. Anche Anna Massey, nel ruolo di Helen, offre un’interpretazione di grande sensibilità, rappresentando una luce di speranza nell’oscurità che avvolge inesorabilmente Mark.

Alla sua uscita, “L’occhio che uccide” fu frainteso e aspramente criticato, ma oggi emerge come un’opera visionaria che anticipa temi e stili che diventeranno centrali nel cinema degli anni successivi. Powell ci offre un’esplorazione coraggiosa e senza compromessi della psiche umana, realizzando un film che è al contempo un thriller avvincente e una profonda riflessione sull’atto stesso del guardare, che è l’essenza stessa del cinema.

Questa pellicola merita di essere riscoperta e celebrata, perché è un’opera che sfida le convenzioni e invita lo spettatore a un confronto diretto con i propri demoni interiori, e Powell è un maestro nel manipolare la luce e il colore per creare un’atmosfera di crescente tensione.

Ogni inquadratura è studiata per mettere a disagio lo spettatore, per farlo sentire intrappolato nello stesso incubo di Mark. È un film che non si limita a mostrare il terrore, ma lo fa sentire, lo fa vivere sulla pelle. Michael Powell – che non a caso sceglie di impersonare il padre aguzzino del piccolo Mark – dimostra ancora una volta di essere un maestro del cinema, capace di spingersi oltre i limiti e di esplorare territori inesplorati con una visione artistica unica e inimitabile.

Se avete il coraggio di affrontare le vostre paure, questo è un film che non potete perdere. Ma ricordate: una volta che avrete guardato nell’abisso, come dice Nietzsche, l’abisso potrebbe iniziare a guardare voi…

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“L’assassinio di Roger Ackroyd” di Agatha Christie

(Mondadori, 2011)

Tra i pilastri della letteratura gialla, “L’assassinio di Roger Ackroyd” di Agatha Christie occupa un posto di rilievo, non solo per la genialità della trama, ma anche per l’innovativo approccio narrativo che ha saputo sorprendere generazioni di lettori. Pubblicato per la prima volta nel 1926, questo romanzo ha contribuito a definire il genere, rendendo Agatha Christie una delle autrici più celebrate e influenti del ventesimo secolo.

La trama si sviluppa nell’immaginaria cittadina inglese di King’s Abbot, un luogo apparentemente tranquillo dove la vita scorre placida fino all’assassinio del facoltoso Roger Ackroyd. La storia è narrata in prima persona dal dottor James Sheppard, il medico del paese, che si trova coinvolto nelle indagini condotte dal celebre investigatore belga Hercule Poirot, ormai in pensione e residente nei pressi.

Uno degli elementi che rende questo romanzo un capolavoro è il colpo di scena finale. Senza rivelare troppo per chi ancora non avesse avuto il piacere di leggerlo (abbasso gli spoiler!), Christie sfrutta magistralmente la narrazione in prima persona per depistare il lettore, offrendo un esempio di come il narratore possa essere utilizzato per creare un effetto sorpresa di straordinaria potenza. Questo espediente narrativo ha fatto scuola ed è stato oggetto di numerosi studi e imitazioni.

I personaggi sono delineati con la consueta maestria di Christie. Hercule Poirot, con la sua logica infallibile e le sue eccentricità, si conferma un investigatore di razza, capace di vedere oltre le apparenze e di scoprire la verità celata dai segreti dei personaggi. Il dottor Sheppard, invece, emerge come un personaggio complesso e intrigante, la cui presenza al centro della narrazione è cruciale per il dipanarsi della trama.

Il ritmo del romanzo è sostenuto e avvincente, con ogni capitolo che aggiunge un nuovo pezzo al puzzle, mantenendo alta la tensione e la curiosità del lettore. Le descrizioni ambientali e i dialoghi, sempre vivaci e realistici, contribuiscono a creare un’atmosfera ricca e dettagliata, immersiva al punto giusto.

“L’assassinio di Roger Ackroyd” non è solo un giallo ben congegnato, ma anche una riflessione sulle apparenze e sui segreti che si celano dietro la facciata di rispettabilità della società. Agatha Christie ci invita a non fidarci delle prime impressioni e a guardare più in profondità, un insegnamento che va oltre le pagine del libro.

In conclusione, “L’assassinio di Roger Ackroyd” è un romanzo imperdibile per gli amanti del giallo e per chiunque apprezzi una trama ben costruita, personaggi indimenticabili e un finale che lascia senza fiato. Agatha Christie dimostra ancora una volta di essere la regina del mistero, capace di regalare ai suoi lettori ore di pura suspense e intrattenimento intelligente. Se non l’avete ancora letto, vi consiglio vivamente di farlo: vi aspetta un viaggio nel cuore del mistero che non dimenticherete facilmente.

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“22/11/’63” di Stephen King

(Sperling & Kupfer, 2011)

Nella vasta produzione letteraria del maestro Stephen King, “22/11/’63” si distingue come un’opera che va oltre i confini tradizionali del thriller e dell’horror, per esplorare territori più profondi e complessi. Questo romanzo, pubblicato nel 2011, non è solo un’odissea nel tempo, ma un’esplorazione del destino, del rimpianto e della capacità umana di cambiare il corso della storia, con tutte le implicazioni morali che ne derivano.

La trama ruota attorno a Jake Epping, un insegnante di inglese di una cittadina del Maine, la cui vita ordinaria viene sconvolta quando Al, il proprietario di una tavola calda locale, gli rivela l’esistenza di un portale temporale nel suo retrobottega. Questo varco conduce sempre e solo al 9 settembre 1958. Al, ormai malato terminale, convince Jake a prendere il suo posto in una missione impossibile: impedire l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, avvenuto il 22 novembre 1963.

Il Re ci porta così in un viaggio affascinante attraverso un’America degli anni ’50 e ’60 ricostruita con una precisione quasi maniacale. La descrizione di quel periodo è vibrante, con una cura dei dettagli che fa immergere il lettore in un’epoca diversa, fatta di colori vividi, suoni e odori che sembrano uscire dalle pagine del libro. Ma il romanzo non si limita a essere una semplice cronaca del passato. Attraverso Jake, King esplora la natura del tempo stesso, dipingendolo come qualcosa di resiliente e pericolosamente determinato a mantenere il suo corso.

Uno degli aspetti più intriganti di “22/11/’63” è proprio la rappresentazione del tempo come un’entità quasi viva, che resiste ai cambiamenti. Ogni volta che Jake tenta di alterare eventi del passato, il tempo reagisce, spesso in modi violenti e imprevedibili, quasi a proteggere se stesso. Questa tensione tra il desiderio umano di cambiare il passato e l’ineluttabilità del destino è uno dei temi più potenti del romanzo.

King riesce, come in altri suoi lavori, a fondere elementi di fantascienza con una profonda riflessione sul peso delle scelte individuali. La questione centrale del libro, infatti, non è tanto se Jake riuscirà o meno a salvare Kennedy, ma piuttosto se farlo porterà davvero a un mondo migliore. Il lettore è costantemente sfidato a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni, e su come il desiderio di correggere gli errori del passato possa avere ripercussioni inaspettate e, a volte, disastrose.

Il personaggio di Jake Epping è sviluppato con una grande sensibilità. È un uomo comune, con le sue debolezze e le sue paure, che si trova improvvisamente caricato di una responsabilità enorme. La sua crescita personale, il suo amore per Sadie Dunhill, una donna che incontra nel passato, e i dilemmi morali che affronta rendono Jake uno dei protagonisti più memorabili della produzione di King.

In definitiva, “22/11/’63” è un’opera che si distingue non solo per la sua trama avvincente e l’abilità narrativa del Re, ma anche per la profondità delle domande che solleva. È un romanzo che parla di nostalgia, di amore e di perdita, e che esplora il desiderio universale di poter tornare indietro e cambiare il corso della propria esistenza. Ma, come King ci ricorda con maestria, ogni azione ha un prezzo, e il passato, per quanto tentiamo di cambiarlo, è un fardello che portiamo sempre con noi.

Il maestro Stephen King, ancora una volta, ci regala una storia che è tanto avvincente quanto emozionante, capace di farci riflettere sul tempo, sul destino e sulle scelte che modellano le nostre vite.

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“Perfect Days” di Wim Wenders

(Giappone, 2023)

Con “Perfect Days”, Wim Wenders ci consegna un’opera che sembra distillata dall’essenza stessa del suo cinema: la capacità di catturare la bellezza della vita quotidiana con uno sguardo delicato e profondamente umano. In un’epoca cinematografica dominata dalla velocità e dal rumore, Wenders ci invita a rallentare, a soffermarci sui dettagli più minuti, sulle pieghe del tempo che si srotola in silenzio, offrendo uno sguardo inedito su Tokyo e sui suoi abitanti.

Il protagonista, Hirayama (interpretato magistralmente da Koji Yakusho), è un uomo che ha fatto della semplicità il suo regno. Addetto alla pulizia dei bagni pubblici della città, vive in un appartamento spartano, arredato con pochi, essenziali oggetti. La sua vita è scandita da rituali quotidiani: la cura delle piante, la lettura di libri, l’ascolto di musica su audiocassette. Wenders, con una regia che si fa discreta, quasi invisibile, trasforma questi gesti ordinari in momenti di contemplazione poetica.

“Perfect Days” – la cui sceneggiatura è firmata da Takuma Takasaki oltre che dallo stesso Wenders – non è un film che racconta una storia nel senso tradizionale del termine. Non c’è un conflitto centrale, non ci sono svolte narrative drammatiche. Eppure, c’è una profondità emotiva che si costruisce progressivamente, strato dopo strato, come una fotografia sviluppata lentamente. Wenders ci conduce in un viaggio intimo attraverso le giornate di Hirayama, dove ogni incontro, ogni scambio di sguardi, ogni suono della città diventa parte di un mosaico più grande, un ritratto di un uomo che ha trovato una sua forma di serenità.

La Tokyo di Wenders è lontana anni luce dalle rappresentazioni iperattive e futuristiche a cui siamo abituati. Qui, la città diventa uno spazio di quiete, di riflessione, quasi un personaggio a sé stante, con i suoi angoli nascosti e le sue strade secondarie che sembrano condurre fuori dal tempo, proprio come quella della serie “Midnight Diner – Tokyo Stories”. La fotografia limpida e cristallina curata da Franz Lustig, enfatizza questa dimensione sospesa, restituendo una Tokyo che è al contempo reale e trasfigurata, uno spazio in cui il tempo sembra rallentare per permettere allo spettatore di cogliere ogni sfumatura, ogni dettaglio.

In “Perfect Days”, Wenders riesce a toccare corde profonde senza mai ricorrere a facili sentimentalismi. Il film si costruisce attraverso un minimalismo narrativo che diventa il suo punto di forza. Ogni scena è un frammento di vita, un tassello che si inserisce in un mosaico più grande, quello della ricerca della bellezza nel quotidiano. Hirayama è un eroe del nostro tempo, un uomo che, nel suo silenzio, riesce a trovare una connessione profonda con il mondo che lo circonda, ricordandoci che la felicità non risiede negli eventi straordinari, ma nella capacità di apprezzare i piccoli momenti di cui è fatta la vita.

Wenders non ha paura di lasciare spazio al silenzio, di lasciare che siano i volti, gli sguardi, i movimenti lenti dei personaggi a raccontare la storia. È un cinema che richiede attenzione, che chiede allo spettatore di lasciarsi trasportare in un flusso di immagini e suoni che, pur nella loro apparente semplicità, costruiscono una narrazione ricca di sfumature.

Con “Perfect Days”, Wim Wenders ci consegna un’opera che è al tempo stesso un atto di resistenza e un omaggio all’essenzialità. È un film che parla di un mondo in cui il tempo è tornato ad avere un valore, in cui la bellezza si trova negli atti più semplici, nella ripetizione dei gesti quotidiani. Un’opera che, in definitiva, ci invita a riscoprire la poesia della vita ordinaria, facendoci sentire, almeno per un momento, parte di qualcosa di più grande, di più profondo.

Wenders, con la sua consueta maestria, ci ricorda che il cinema, come la vita, non ha bisogno di essere urlato per essere ascoltato. Basta saper guardare, saper ascoltare, per trovare in ogni giornata un “perfect day”.

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“Le ali della libertà” di Frank Darabont

(USA, 1994)

Devo essere onesto: mi sono sempre tenuto a distanza dai film che promettono di essere edificanti o, peggio ancora, “di grande ispirazione”. Troppo spesso, questo tipo di pellicole si rivelano moraliste, ricattatorie, o addirittura melense. Ma poi, arriva “Le ali della libertà” (“The Shawshank Redemption”), diretto da Frank Darabont, che con un colpo magistrale riesce a sfuggire a tutte queste trappole, consegnandoci un film che, pur toccando corde profondamente umane, non scade mai nel facile sentimentalismo.

Il film, non a caso tratto dal racconto del Re Stephen King “Rita Heyworth e la redenzione del carcere di Shawshank” (contenuto nella mirabile raccolta “Stagioni diverse” del 1982, che annovera anche “The Body” da cui Rob Reiner ha tratto “Stand By Me – Ricordo di un’estate” e “L’allievo” dal quale Bryan Singer si è ispirato per il suo omonimo film interpretato da un agghiacciante Ian McKellen), si concentra sulla storia di Andy Dufresne (un Tim Robbins davvero in stato di grazia), vice presidente di banca condannato ingiustamente per l’omicidio della moglie e del suo amante.

Da qui ci si potrebbe aspettare un dramma giudiziario o una classica storia di vendetta. E invece no. “Le ali della libertà” sceglie un’altra strada, più sottile, più lenta, ma anche più incisiva. La prigione di Shawshank, che in qualsiasi altro film sarebbe semplicemente lo sfondo di una vicenda di soprusi e violenza, qui diventa un luogo di crescita, un campo di battaglia per l’anima.

Darabont, alla sua prima prova da regista, ha la saggezza di non forzare mai la mano. La sua regia è discreta, rispettosa dei tempi e degli spazi emotivi dei personaggi. La vera forza del film risiede nei piccoli dettagli: lo sguardo sperduto di Andy all’inizio della sua detenzione, l’amicizia che lentamente si costruisce tra lui e Red (un monumentale Morgan Freeman), e il modo in cui la speranza si insinua, quasi furtivamente, tra le crepe della disperazione.

Uno dei temi portanti del film è la libertà. Non quella fisica, che è negata a tutti i detenuti di Shawshank, ma quella mentale, interiore. Andy, pur rinchiuso tra le mura spesse della prigione, riesce a mantenere viva la fiamma della sua dignità e del suo spirito. E lo fa attraverso gesti che sembrano insignificanti: un piccolo sasso scolpito, un vinile delle “Nozze di Figaro” di Wolfgang Amadeus Mozart fatto suonare ad alto volume per tutti i carcerati, una biblioteca costruita con pazienza e determinazione. Sono questi gesti che, alla fine, si rivelano rivoluzionari.

La forza del film sta anche nella sua capacità di non cedere mai alla retorica. Anche nei momenti più toccanti, Darabont – autore pure della sceneggiatura – mantiene un equilibrio narrativo che impedisce al racconto di scivolare nel patetico. Questo equilibrio è amplificato dalla splendida fotografia di Roger Deakins, che sa essere tanto claustrofobica quanto ariosa, con i suoi giochi di luce e ombra che sembrano commentare la condizione esistenziale dei personaggi.

E poi c’è il finale. Non lo svelo per chi non avesse ancora visto il film, ma posso dire che è uno di quei finali che ti lasciano con un nodo alla gola e un senso di catarsi. Non perché sia sorprendente o pieno di colpi di scena, ma perché è onesto, autentico. Un finale che rende giustizia a tutto ciò che è venuto prima, e che ci ricorda che la speranza, quella vera, non è mai ingenua o facile, ma nasce dalla sofferenza e dalla resistenza.

Le ali della libertà” non è un film perfetto, ma è un film necessario. Un’opera che parla della capacità dell’animo umano di resistere, di trovare luce anche nell’oscurità più profonda, e di spiccare il volo quando tutto sembra perduto. In un mondo in cui spesso siamo prigionieri di noi stessi e delle nostre paure, questo film ci ricorda che la libertà, quella vera, inizia e finisce nella nostra mente.

Quindi, se non lo avete ancora fatto, prendetevi due ore e mezza, e lasciatevi trasportare a Shawshank. Potreste scoprire che, in fondo, le ali della libertà sono già dentro di voi.

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“Sotto il vulcano” di John Huston

(USA/Messico, 1984)

Diretto dal leggendario John Huston e uscito nelle sale nel 1984, questo film è l’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo “Sotto il vulcano” di Malcolm Lowry, uno dei testi più complessi e affascinanti del XX secolo. Huston, con la sua consueta maestria, riesce a catturare l’essenza della storia, trasportando sul grande schermo la tormentata esistenza del protagonista Geoffrey Firmin e la vibrante atmosfera del Messico degli anni ’30, sull’orlo del baratro della Seconda Guerra Mondiale.

La trama del film segue fedelmente il romanzo, concentrandosi su una singola, fatidica giornata: il Giorno dei Morti del 1938, nella città di Quauhnahuac. Geoffrey Firmin, interpretato magistralmente da Albert Finney, è un ex console britannico in rovina, divorato dall’alcolismo e dai rimorsi. La sua discesa nell’abisso è rappresentata con una tale intensità che lo spettatore non può che sentirsi trascinato nella spirale autodistruttiva del protagonista.

Accanto a Geoffrey, troviamo sua moglie Yvonne (Jacqueline Bisset) che, dopo il divorzio, torna a Quauhnahuac con la speranza di salvarlo, e suo fratellastro Hugh (Anthony Andrews), un giornalista idealista, appena tornato dalla Spagna, dove ha combattuto vanamente contro i militari di Franco. Le dinamiche tra i tre personaggi si sviluppano sullo sfondo di un Messico reso con un realismo quasi tangibile, grazie alla straordinaria fotografia di Gabriel Figueroa, che cattura superbamente la bellezza e la brutalità del paesaggio messicano.

Figueroa, direttore della fotografia preferito dal cineasta messicano Emilio Fernández, autore di numerose pellicole a partire dagli anni Cinquanta, collabora con Huston grazie soprattutto all’amicizia personale fra Fernández e lo stesso cineasta americano. Non è un caso quindi se Huston, in questo film, affida allo stesso Fernández la parte del proprietario di galli da combattimento che apre la sequenza finale.

Il film riesce a mantenere la complessità emotiva del romanzo, esplorando temi come la disperazione, la redenzione, la solitudine e la comunione. Huston, con il suo tocco inconfondibile, infonde nella pellicola una serie di simboli e riferimenti che arricchiscono la narrazione, proprio come Lowry fa nel suo romanzo. La struttura del film, sebbene più lineare rispetto alla prosa frammentaria di Lowry, riflette comunque il caos interiore di Geoffrey, portando lo spettatore in un viaggio onirico attraverso la sua psiche tormentata.

Uno degli aspetti più sorprendenti del film è la sua capacità di trasmettere la stessa sensazione di inesorabile discesa verso l’abisso che si prova leggendo il romanzo. La regia di Huston è a tratti ipnotica, immergendo lo spettatore nelle profondità della mente del console, dove il confine tra realtà e allucinazione si fa sempre più labile.

“Sotto il vulcano” di John Huston non è solo una storia di autodistruzione, ma anche una meditazione sull’amore e la perdita, sul senso di colpa e sulla possibilità di redenzione. È un film che sfida e coinvolge, richiedendo allo spettatore un impegno totale per essere pienamente compreso e apprezzato, proprio come il romanzo da cui è tratto.

Attraverso la figura tragica di Geoffrey Firmin, Huston, seguendo le orme di Lowry, ci offre uno specchio in cui riflettere sulle nostre stesse paure e debolezze, ricordandoci quanto sia fragile l’equilibrio tra l’ordine e il caos nella vita di ciascuno di noi. “Sotto il vulcano” è, senza dubbio, un capolavoro cinematografico che continua a risuonare con forza nel cuore di chiunque abbia il coraggio di immergersi nelle sue profondità. E pensare che per decenni il romanzo di Lowry è stato considerato “infilmabile”.

Sono passati quarant’anni dall’uscita di questa pellicola nelle sale cinematografiche di tutto il mondo ma, per comprendere al meglio la modernità e la contemporaneità del genio di Huston, basta osservare quanto l’umanità sia oggi ancora davanti ad un baratro.

“Sotto il vulcano” di Malcom Lowry

(Feltrinelli, 2000)

Pubblicato per la prima volta nel 1947, “Sotto il vulcano” di Malcolm Lowry è senza dubbio uno dei romanzi più complessi e affascinanti della letteratura del XX secolo, capace di stregare lettori di tutto il mondo con la sua prosa opulenta e la sua profondità emotiva.

La storia si svolge in un’unica giornata, il Giorno dei Morti del 1938, nella città messicana di Quauhnahuac. Il protagonista, Geoffrey Firmin, è un ex console britannico in rovina, devastato dall’alcolismo e da un dolore inestinguibile. Attraverso una narrazione intrecciata e frammentaria, Lowry ci guida in un viaggio nella psiche tormentata del console, i cui ricordi e rimorsi emergono incessantemente nel corso di quella fatidica giornata.

Accanto a Geoffrey, troviamo sua moglie Yvonne, che torna a Quauhnahuac con la speranza di riconciliarsi e salvarlo dalla spirale autodistruttiva in cui è caduto, e il suo fratellastro Hugh, un giornalista idealista con i propri demoni interiori. La relazione tra questi personaggi si sviluppa sullo sfondo di un Messico vibrante e misterioso, che Lowry descrive con un realismo sensoriale sorprendente, quasi tangibile.

Il romanzo è un’esplorazione profonda della disperazione e della redenzione, della solitudine e del riscatto. Lowry utilizza una serie di simboli e riferimenti letterari, biblici e mitologici per arricchire la narrazione, rendendo “Sotto il vulcano” un’opera densa di significati e aperta a molteplici interpretazioni.

Uno degli aspetti più sorprendenti del romanzo è la sua struttura, che riflette il caos interiore di Geoffrey. La prosa di Lowry è a tratti onirica, quasi ipnotica, capace di trasportare il lettore nelle profondità della mente del console, dove il confine tra realtà e allucinazione si fa sempre più labile.

“Sotto il vulcano” non è solo una storia di autodistruzione, ma anche una meditazione sull’amore e la perdita, sul senso di colpa e sulla possibilità di redenzione. È un romanzo che sfida e coinvolge, richiedendo al lettore un impegno totale per essere pienamente compreso e apprezzato.

Malcolm Lowry, attraverso la figura tragica di Geoffrey Firmin, ci offre uno specchio in cui riflettere le nostre stesse paure e debolezze, ricordandoci quanto sia fragile l’equilibrio tra l’ordine e il caos nella vita di ciascuno di noi. “Sotto il vulcano” è, senza dubbio, un capolavoro della letteratura mondiale, un libro che continua a risuonare con forza nel cuore di chiunque abbia il coraggio di immergersi nelle sue pagine. Non è un libro facile, né è facile leggero, ma è proprio questo a renderlo un capolavoro, una pietra miliare per più di una generazione.

Nel 1984 il maestro John Huston dirige l’ottimo adattamento cinematografico “Sotto il vulcano” con Albert Finney nel ruolo di Firmin e Jacqueline Bisset in quello di Yvonne.

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“Se succede qualcosa, vi voglio bene” di Michael Govier e Will McCormack

(USA, 2020)

Questo cortometraggio animato, il cui titolo originale è “If Anything Happens I Love You”, rappresenta una pietra miliare nell’animazione contemporanea, un’opera di rara intensità che esplora il dolore della perdita terrificante con una delicatezza squisita. In un panorama cinematografico spesso dominato dalla verbosità, questo film si distingue per l’uso magistrale del silenzio, lasciando che le immagini e le suggestioni visive parlino al cuore dello spettatore.

L’animazione minimalista, che ricorda le linee essenziali e stilizzate dell’arte orientale, serve non solo come veicolo estetico ma come potente strumento narrativo. Le ombre che accompagnano i genitori, protagonisti silenziosi e disperati, incarnano i loro pensieri inespressi, il loro rimpianto, e l’amore che, pur nella sofferenza, continua a legarli. Queste figure evanescenti, quasi spettrali, trasformano la casa in un luogo di memorie in cui il tempo sembra essersi fermato, cristallizzando un momento di irrevocabile perdita.

Govier e McCormack, con un tocco che richiama l’eleganza sobria di registi come Ozu o Bresson, evitano il rischio del melodramma e scelgono una narrazione visiva che si concentra sull’essenziale. Una scelta che risuona fragorosamente, specialmente in scene chiave come quella del disegno ritrovato, simbolo di una felicità irrimediabilmente spezzata, ma mai dimenticata. La forza del cortometraggio risiede proprio in questa capacità di evocare emozioni autentiche e universali, senza ricorrere a facili soluzioni narrative.

“Se succede qualcosa, vi voglio bene” non è solo un racconto di dolore, ma un inno alla resilienza umana, alla capacità di trovare speranza anche nelle circostanze più buie e tragiche, come quella di due genitori che sono sopravvissuti alla loro giovane figlia appena adolescente, perita in una sparatoria scolastica. È un’opera che, pur nella sua brevità, offre una riflessione profonda sul significato della perdita e sull’importanza della memoria, temi cari a molto del cinema d’autore.

Questo cortometraggio ha meritatamente vinto l’Oscar per il Miglior Cortometraggio d’Animazione, riconoscimento che celebra non solo la qualità tecnica e artistica del film, ma anche la sua capacità di comunicare in modo diretto e senza mediazioni con il pubblico.

Un’opera da vedere e rivedere, capace di restare impressa nella mente e nel cuore di chi la guarda.

2 agosto 1980 – 2 agosto 2024

Copertina Ora e sempre

Care lettrici e cari lettori,

oggi, 2 agosto 2024, ricorre il 44° anniversario della strage di Bologna del 1980, un evento tragico che ha segnato profondamente la storia del nostro Paese. È con un nodo alla gola che mi unisco al ricordo delle 85 vittime innocenti e dei 200 feriti, persone la cui vita è stata spezzata vai o compromessa in un attimo di violenza cieca, vile e infame.

Nel mio romanzo “Ora e sempre“, pubblicato nel 2012, ho cercato di esplorare le oscure profondità del terrorismo che ha insanguinato l’Italia durante gli anni di piombo. Il libro si chiude proprio con la strage di Bologna, un evento che rappresenta il culmine di un periodo di terrore e sofferenza. Attraverso le vicende dei miei personaggi, ho voluto rendere omaggio a tutte le vittime del terrorismo, cercando di dar voce a chi ha vissuto quei momenti drammatici.

Scrivere di quegli anni è stato un viaggio intenso e doloroso, ma necessario. Ho voluto ricordare le vittime, coloro che erano occupati semplicemente a portare avanti le proprie esistenze, ma anche il coraggio di chi ha lottato contro il terrorismo, di chi ha cercato la verità e la giustizia, chi si è opposto senza remore alla violenza. La strage di Bologna non deve essere dimenticata, perché la memoria è l’unico antidoto contro la ripetizione degli errori del passato.

Oggi, mentre ricordiamo e onoriamo le vittime, dobbiamo anche riflettere sul valore della pace, della democrazia e della giustizia. La nostra società deve continuare a lavorare affinché tali atrocità non abbiano mai più luogo. Dobbiamo coltivare la memoria storica e trasmetterla alle nuove generazioni, affinché sappiano e comprendano.

Vi invito a rileggere “Ora e sempre” con questa consapevolezza, a immergervi nelle storie dei miei personaggi e a riflettere sul significato profondo di quegli eventi. La letteratura ha il potere di farci sentire, di farci capire e di farci ricordare. È attraverso la condivisione di queste storie che possiamo mantenere viva la memoria e costruire un futuro migliore.

Chi vorrà, per oggi, potrà scrivere una mail a info@valeriotagliaferri.it e ricevere una copia digitale gratuita di “Ora e sempre”. 

Con affetto e speranza, Valerio Tagliaferri