(Mondadori, 1952/2000)
Per parlare di questo romanzo breve (uno dei più famosi del Novecento) mi tocca prima parlare di Francesco Guccini e della sua “Incontro”, che ascoltavo spesso durante la mia adolescenza fricchettona, arrogante e molto spesso solitaria (con tutte le situazioni che il fatto lo stare soli comporta…) e mi fermavo spesso a riflettere sui versi, immaginandomi giù adulto e maturo, e mi chiedevo: ma quando avrei scoperto pure io Hemingway?
Mi avvicinai così al grande scrittore americano, ma la scintilla non brillò (evidentemente ero ancora troppo immaturamente maturo…).
Poi un’estate di qualche anno dopo, come accadeva spesso, andai a casa dei miei zii al mare.
Mio zio Adulio nella vita aveva fatto il fotografo ma, come quasi tutti gli uomini nati in riva al mare, era un appassionato pescatore. Quell’estate, fra un’uscita in barca e l’altra, stava realizzando una personale traduzione dall’inglese de “Il vecchio e il mare”.
La curiosità ebbe il sopravvento, soprattutto per la stima che avevo – e che ho per lui anche se ora governa la sua barca in lidi molto più belli e splendidi di quelli che possiamo vedere noi sulla Terra – e appena tornato a casa, senza dire niente a nessuno, comincia di soppiatto il romanzo.
Lo divorai in poche ore, e anche oggi, ogni volta che lo rileggo – oltre a ripensare piacevolmente a mio zio Adulio e alla sua barca – è sempre una grande emozione.