“Prima pagina” di Billy Wilder

(USA, 1974)

Siamo agli inizi degli anni Settanta, e la carta stampata ma soprattutto la televisione plasmano, spesso senza remore, l’opinione pubblica. Così il grande Billy Wilder decide di riportare sul grande schermo la commedia teatrale “The Front Page” scritta da Ben Hecht (fra i più importanti e prolifici sceneggiatori della prima epoca d’oro di Hollywood, autore di script come “Scarface – Lo sfregiato”, “Pericolo pubblico n.1”, “Ombre rosse”, “Notorius – L’amante perduta” o “Nulla di serio“) e Charles MacArthur nel 1928, che già vanta numerosi adattamenti cinematografici a partire dall’omonimo “The Front Page” di Lewis Milestone del 1931, passando per il divertente “La signora del venerdì” diretto da Howard Hawks nel 1940 con Cary Grant e Rosalind Russell.

Quest’ultimo cambia il protagonista da Hildebrand ‘Hildy’ Johnson in Hildegard “Hildy” Johnson, facendone vestire i panni alla Russell, scelta narrativa importante e ispirata a Nellie Bly (1864-1922) la grande giornalista americana, collaboratrice di fiducia di Joseph Pultizer. Con lo stesso cambio narrativo, e ambientandolo direttamente negli studi di un network televisivo, Ted Kotcheff dirige nel 1988 “Cambio marito” con Burt Reynolds, nel ruolo del direttore, Kathleen Turner in quello della sua giornalista di punta – nonché sua ex moglie – e Christopher Reeve in quello del suo nuovo e ingenuo aspirante marito.

Billy Wilder, invece, assieme al suo fidato coscenaggiatore I.A.L. Diamond decide di rimanere fedele all’opera originale di Hecht e MacArthur, ambientandola l’anno dopo in cui venne per la prima volta rappresentata, il 1929. Chicago, per le 7.00 della mattina del 6 giugno è stata fissata l’esecuzione di Earl Williams (Austin Pendleton) condannato all’impiccagione per l’uccisione di un poliziotto, avvenuta mentre questi lo stava arrestando perché distribuiva volantini a favore dell’organizzazione anarchica e sinistrorsa “Friends of American Liberty”.

Anche se il colpo è partito involontariamente durante la colluttazione, Williams è stato condannato molto rapidamente, così da programmare la sua esecuzione proprio a ridosso delle elezioni. Il sindaco (Harold Gould) e lo sceriffo (Vincent Gardenia) hanno fatto di tutto per accelerare il processo proprio per poter sfruttare al meglio la situazione, visto poi che il poliziotto deceduto era di colore, si sono trovati fra le mani l’occasione per prendere anche i voti della comunità afroamericana della città.

Walter Burns (un arcigno e perfido Walter Matthau) direttore del “Chicago Examiner” ha messo sull’esecuzione il suo uomo migliore Hildebrand “Hildy” Johnson (Jack Lemmon) che però si è reso incredibilmente introvabile. Quando finalmente Hildy torna al giornale lo fa per presentare le sue dimissioni: la sera stessa partirà per Philadelphia per poi sposarsi nei giorni successivi con la candida Peggy (Susan Sarandon).

Burns sarà disposto a tutto, anche a mentire e truffare, pur di non perdere il suo miglior cronista, ma a mettere davvero nei guai Hildy sarà proprio il suo viscerale amore per il giornalismo…

Wilder dirige una commedia divertente e graffiante, atto d’accusa contro un certo tipo di giornalismo aggressivo e spietato, soprattutto con coloro che usa e poi getta via, come: ” …la prima pagina di un quotidiano che quando esce può fare molto scalpore, ma il giorno dopo è usata tranquillamente per incartare il pesce al mercato”, frase che lo stesso Burns pronuncia a Hildy.

A quasi cinquant’anni di distanza dalla sua uscita nelle sale americane, “Prima pagina” rimane sempre un’ottima commedia, vittima però di mode e superficialità che oggi sarebbero, giustamente, inaccettabili. Come la bassa stereotipizzazione dell’omosessualità del giornalista Bensiger (interpretato da David Wayne) che risulta ancora più evidente dalla grande dignità che Wilder e Diamond donano a Molly Malloy (interpretata da Carol Burnett) la prostituta dei bassi fondi innamorata di Williams.

Se Molly, che rappresenta gli ultimi della società, è il personaggio più puro e sincero del film – che ricorda molto quelli cantanti magistralmente dal grande Fabrizio De Andrè – Bensinger è “solo” un personaggio secondario bizzoso e antipatico, dai modi “strani” dei quali tutti possono ridere. D’altronde in Gran Bretagna solo sette anni prima la realizzazione di questo film l’omosessualità smise di essere reato.

I duetti fra Lemmon e Matthau sono comunque sempre irresistibili e indimenticabili, grazie anche agli attori di supporto, tutti grandi artisti, come i già citati Gardenia e Gould, a cui si aggiungono Charles Durning e Herb Edelman nei ruoli di alcuni giornalisti colleghi di Hildy.

Nella nostra versione a doppiare Matthau non è il grande Renato Turi, ma un altrettanto bravissimo Ferruccio Amendola, mentre Giuseppe Rinaldi dona come sempre magistralmente la voce a Lemmon.

“Renzo e Luciana” di Mario Monicelli

(Italia, 1962)

Il film “Boccaccio ’70” prodotto da Carlo Ponti nasce da un’idea di Cesare Zavattini, che prevedeva quattro differenti episodi: “Il lavoro” diretto da Luchino Visconti, “La riffa” diretto da Vittorio De Sica, “Le tentazioni del dottor Antonio” diretto da Federico Fellini e “Renzo e Luciana” diretto da Mario Monicelli.

Al Festival di Cannes, dove il film sarebbe stato presentato in anteprima mondiale fuori concorso, Ponti decise di tagliare il segmento di Monicelli perché la pellicola risultava troppo lunga e non commerciabile all’estero secondo gli standard cinematografici di allora. In realtà, secondo le cronache e le testimonianze dell’epoca, fra cui quella dello stesso Monicelli, il suo episodio era quello più graffiante e al tempo stesso malinconico, con un cast sconosciuto – per questo poco vendibile all’estero – e una critica dura alla nostra società tanto ingenuamente ancora incantata dal Boom economico.

Così lo stesso regista si rivolse ad un magistrato francese che obbligò il Festival a proiettare la pellicola nella sua versione integrale, così come era stata presentata. Poche ore prima della proiezione però, Ponti riuscì ad impugnare la vertenza, con l’appoggio dell’organizzazione del Festival, e il film venne presentato senza “Renzo e Luciana”.

La cosa provocò non poche proteste, tanto che altri registi presenti a Cannes con un loro film, per solidarietà a Monicelli, non parteciparono alla kermesse e non rilasciarono interviste come Michelangelo Antonioni con il suo “La notte” e Pietro Germi con “Divorzio all’italiana”. A pensare oggi a quel 1962, con la situazione del nostro cinema contemporaneo …vengono le coliche.

Sulla scia delle polemiche, che alla fine fecero un’enorme pubblicità, nelle nostre sale il film arrivò con tutti e quattro gli episodi, e si apre proprio con “Renzo e Luciana” scritto dalla grande Suso Cecchi D’Amico, Italo Calvino, Gianni Arpino e lo stesso Monicelli.

Luciana (Marisa Solinas) e Renzo (Germano Gilioli) lavorano in una grande ditta a Milano. Lei è una addetta alla computisteria mentre lui è un magazziniere. Nella loro azienda però è vietato sposarsi fra colleghi e, per una donna, rimanere incinta: pena il licenziamento immediato.

Così i due nascondono a tutti i loro amore e, soprattutto, il loro matrimonio “clandestino” avvenuto nella pausa pranzo di un giorno feriale, nella baracca che ospita provvisoriamente la parrocchia del loro quartiere cantiere che si sta espandendo in maniera esponenziale.

Luciana ha fatto tutti i calcoli al centesimo e così, anche prima del matrimonio, i due sono riusciti a comprare, dopo aver firmato una montagna di cambiali, i mobili e gli elettrodomestici per il loro nido d’amore. Ma senza una base economica non si possono permettere ancora un appartamento.

La volitiva Luciana è riuscita, comunque, a convincere i suoi genitori a cedere loro la camera da letto, ma a partire proprio dalla prima notte di nozze la convivenza sembra molto difficile. Un forte ritardo fa temere a Luciana di essere incinta, e a complicare definitivamente le cose ci si mette il Ragioniere capo di Luciana – un prepotente arrogante ed antipatico Don Rodrigo dal colletto bianco – che, convinto che lei sia ancora nubile e senza fidanzato, inizia a farle insistentemente la corte.

I due, così, dovranno scegliere fra la loro dignità o un lavoro ben retribuito…

Tratto dal racconto “L’avventura di due sposi” scritto da Calvino nel 1958 e che appartiene alla prima parte de “Gli amori difficili”, questo “Renzo e Luciana” richiama, con ironia, l’opera massima di Alessandro Manzoni. Ma se “I promessi sposi” si chiude con il coronamento del sogno d’amore di Renzo e Lucia che ottimisti guardano al loro futuro, i loro successori Renzo e Luciana vengono fagocitati dal Boom.

Il profitto e il capitalismo spinto all’eccesso, rendono loro delle “semplici” forza lavoro ad uso e consumo di chi ha in mano i cordoni della borsa del nostro Paese. E così per loro l’importante non è più vivere il loro sogno d’amore, ma arrivare a fine mese, senza poter pensare ad altro.

Sono passati oltre sessant’anni dalla realizzazione di questa pellicola, e in questo lasso di tempo nel nostro Paese sono accadute molte cose. Ci sono state rivoluzioni ma nulla è cambiato, e forse le cose sono pure peggiorate, è crollato il Muro di Berlino, è cambiato drasticamente il panorama politico e si sono succeduti Governi di colori differenti.

Ma nell’ultimo periodo la maggior parte delle famiglie italiane, soprattutto negli ultimi due anni, ha lavorato soprattutto per pagare le utenze arrivando in bilico a fine mese. E pure siamo uno degli 8 paesi più industrializzati del Pianeta. E allora come è possibile?

Forse perché alla fine la famigerata “lotta di classe” l’hanno vinta i “ricchi”, molti dei quali protestavano ferocemente in strada nel ’68. E quello che rende immortale questo episodio è proprio la sua incredibile lungimiranza, anche prima della “contestazione” e dell’inizio “ufficiale” della lotta di classe, Cecchi D’Amico, Calvino, Arpino e lo stesso Monicelli lo avevano lucidamente intuito. Forse per questo venne così osteggiato alla sua presentazione.

A fare da sfondo a questa storia così tristemente attuale, c’è una Milano in piena espansione, un grande cantiere a cielo aperto pieno di sogni e pronto ad accogliere chi è convinto di trovare nella città meneghina un futuro migliore.

Non è un caso, quindi, se Monicelli inserisce nella colonna sonora del film “La ballata del Cerutti” interpretata da Giorgio Gaber e scritta da questo assieme a Umberto Simonetta, che è una delle canzoni simbolo di quegli anni, anni in cui Milano si trasforma, senza controllo, in una metropoli con i suoi lati positivi e purtroppo negativi.

Da vedere e far vedere a scuola.

“Non così vicino” di Marc Forster

(USA, 2023)

Tratto dal romanzo del 2014 “L’uomo che metteva in ordine il mondo” di Fredrik Backman e dal suo primo adattamento cinematografico “Mr. Ove” che Hannes Holm ha realizzato nel 2015, questo “Non così vicino” ci regala un’ottima interpretazione di Tom Hanks nei panni del protagonista.

La sceneggiatura è curata da David Magee (autore di script di film come “Vita di Pi” o “Neverland – Un sogno per la vita”) che ambienta la vicenda in una città degli Stati Uniti del nord, il cui protagonista si chiama Otto, e non più Ove. Il titolo originale di questa pellicola è infatti “A Man Called Otto” mentre quella di Holms è “En man som heter Ove”, che in inglese è tradotta “A Man Called Ove”.

Il burbero Otto vive nella sua villetta a schiera in piena solitudine. E’ rassegnato al fatto di non avere più amici e conoscenti degni di essere frequentati. Il suo mondo è finito circa sei mesi prima quando Sonya, sua moglie, è stata sconfitta da un cancro.

Il pensionamento “forzato”, poi, gli ha tolto l’ultima cosa da fare nella giornata, e così Otto ha deciso di farla finita e raggiungere la sua tanto amata Sonya. Ma ogni volta, mentre sta cercando di compiere il suo insano gesto – rivivendo i momenti più importanti della sua esistenza e soprattutto del rapporto con Sonya – la nuova vicina di casa Marisol (Mariana Treviño) lo interrompe inesorabilmente.

La donna, nata in Messico e trasferitasi negli Stati Uniti assieme al marito, alle sue due figlie piccole e in attesa del terzo genito, intuisce qualcosa di profondo ed estremamente doloroso in Otto, che allo stesso tempo possiede molti punti in comune con lei stessa. Per questo, al limite dell’ingerenza, lo costringe a frequentarla.

Otto così comprenderà che, nonostante gli enormi dolori vissuti e le gravi perdite subite, al mondo c’è sempre qualcuno capace di apprezzarci semplicemente per quello che siamo. Ed è accanto a questo “qualcuno” che vale la pena camminare quel pezzo di sentiero che il destino ci concede di percorrere.

Rispetto alla pellicola diretta da Holm, questo adattamento firmato da Marc Forster (regista di film come “Monster’s Ball – L’ombra della vita” o “Neverland – Un sogno per la vita”) è più edulcorato e meno graffiante. Come accade spesso, la versione a stelle e strisce ha degli snodi narrativi semplificati rispetto all’originale per rendere il film più “fruibile” al pubblico.

Ma la storia di Otto/Ove merita comunque di essere vista, sia per il messaggio di amore e tolleranza che possiede, sia per la deliziosa interpretazione di Tom Hanks.

“Ponyo sulla scogliera” di Hayao Miyazaki

(Giappone, 2008)

Per scrivere questo capolavoro della cinematografia mondiale il maestro Hayao Miyazaki si è ispirato a “Iyaiyaen”, pubblicato per la prima volta nel 1962 ed esordio della scrittrice giapponese Rieko Nakagawa – classe 1935, autrice molto amata dal grande cineasta – e illustrato da Yuriko Omura, ma soprattutto a “La sirenetta” di Hans Christian Andersen.

Il mare quindi è il centro della storia, e Miyazaki ci dice che il mare è donna, non a caso la madre di Ponyo è Granmammare, l’anima stessa dell’immenso blu che da tempo immemore è la culla della vita sul nostro Pianeta.

Come in molti altri film del genio dello Studio Ghibli, sono le donne ad avere il ruolo cruciale nella storia. Oltre a Ponyo, Sōsuke è circondato da figure femminili determinate e determinanti, come sua madre Risa, la stessa Granmammare e le signore ospitate nella casa di riposo dove lavora la stessa Risa.

Gli uomini, invece, hanno un ruolo secondario, come Fujimoto, il padre di Ponyo che prima di diventare un mago degli abissi era un essere umano e che, pensando di fare del bene, ostacola in ogni modo il desiderio della figlia di diventare umana, figlia che si ostina a voler chiamare Brunilde.

O come Kōichi, il padre di Sōsuke, che osserva la fantastica storia del figlio solo da lontano perché impegnato nel suo lavoro di marinaio. Miyazaki ci ricorda che la Natura è donna, così come il mare – che gli uomini continuano ottusamente ad inquinare… – e li si possono apprezzare e vivere a pieno solo con un cuore gentile e rispettoso come quello di Sōsuke, capace di ascoltare e assecondare con amore Ponyo.

Sull’aspetto di Ponyo e di Sōsuke circolano molte voci e teorie, come quella che quest’ultimo abbia i lineamenti da bambino di Goro Miyazaki, figlio del regista. Quello che è certo, e che lo stesso Hayao Miyazaki ha affermato più volte, è che in ogni piccolo protagonista delle sue pellicole c’è tanto di lui stesso da bambino, che sognava di vivere le avventure più fantastiche ed emozionanti.

Un grande, instancabile e completo artista capace di condividere i suoi sogni e le sue paure come pochi altri, il cui genio ricorda non a caso quelli di Steven Spielberg e George Lucas.

Una pellicola d’amore e di formazione come poche altre. Un altro capolavoro indiscusso che il maestro Miyazaki ha regalato al mondo.

La deliziosa canzone dei titoli di coda nella nostra versione è stata tradotta ed eseguita da Fabio Liberatori – ex componente degli Stadio, musicista molto amato da Lucio Dalla e autore di numerose colonne sonore di pellicole italiane, come per esempio quelle di Carlo Verdone – e sua figlia Sara.

“Flee” di Jonas Poher Rasmussen

(Danimarca/Francia/Svezia/Norvegia/Paesi Bassi/UK/USA/Finlandia/Italia/Spagna/Estonia/Slovenia, 2022)

La traduzione del verbo inglese to flee è, nella nostra lingua, fuggire. E la storia che questo bellissimo e durissimo film d’animazione ci racconta è quella lunga e straziante di una fuga dalla propria casa, dal dolore e alla fine anche da se stesso di Amin, un giovane e molto apprezzato docente universitario danese, con un passato da migrante e rifugiato politico.

Amin ha 36 anni e sta per sposarsi col suo compagno, che intende comprare una casa in comune nella campagna presso Copenaghen. E forse è anche per questo, di fronte ad un evento così importante, che Amin sente l’esigenza di raccontare la sua storia, quella vera, e non quella che è scritta nel suo fascicolo.

Così accetta di fare una lunga intervista ad un suo ex compagno delle superiori divenuto nel frattempo un regista, chiaro alter ego di Jonas Poher Rasmussen. Amin è nato negli anni Settanta a Kabul. Durante la sua infanzia in Afghanistan avviene il colpo di stato che porta il Partito Comunista nazionale a prendere il potere. Suo padre, pilota militare, viene epurato e pochi mesi dopo viene arrestato come nemico del popolo.

Tre mesi dopo la famiglia di Amin perde definitivamente le sue tracce, perché l’uomo è letteralmente scomparso nel nulla. Qualche anno dopo la situazione politica dell’Afghanistan cambia nuovamente e le truppe dell’U.R.S.S. che lo avevano invaso iniziano i loro ritiro, lasciando sempre più campo ai talebani armati indirettamente degli Stati Uniti. Col passare del tempo il pericolo di feroci e sanguinarie ritorsioni è concreto, e così la famiglia di Amin decide di lasciare definitivamente il Paese. L’unica nazione disposta a fornire loro un visto turistico è la ex Unione Sovietica che è appena tornata a chiamarsi Russia.

Amin, sua madre, le sue due sorelle e il fratello più grande vengono sistemati in un piccolo appartamento popolare a Mosca, in attesa di raggiungere il fratello maggiore in Svezia, che è anche l’unica fonte di reddito di tutti. E sarà lui, dall’Europa, a contattare e pagare i mercanti di essere umani cercando disperatamente di riunire in Svezia tutta la famiglia.

Intanto, scaduto il permesso di soggiorno, la vita a Mosca diventa terribile perché la corruzione detta legge in ogni ambito pubblico, soprattutto fra la Polizia che va letteralmente a caccia dei migranti clandestini per ricattarli, prendergli i soldi o …la dignità.

Iniziano così per Amin e i suoi cari i cosiddetti i viaggi della “speranza” che si rivelano sempre atroci e terrificanti sfruttamenti di esseri umani che fuggono da situazioni altrettanto tragiche e terribili. Quando, finalmente, Amin ancora minorenne riesce a raggiungere l’Europa, e in particolare la Danimarca, come ordinatogli dall’uomo che lo ha aiutato a viaggiare clandestinamente, racconta a chi lo accoglie che tutta la sua famiglia è stata uccisa in Afghanistan e lui è rimasto solo al mondo…

La storia di Amin (il cui nome è fittizio per tutelarne la privacy e la sicurezza) è una vicenda ancora tragicamente attuale. I nostri mari sono divenuti e continuano a diventare la tomba senza fondo di numerosi esseri umani che tentano di raggiungere la nostre coste con la speranza di poter iniziare una nuova esistenza, fuggendo da una realtà atroce e sanguinaria.

Per non parlare dell’Afghanistan la cui storia attuale ricalca esattamente quella raccontata da Amin e risalente a tre decenni fa. Le immagini delle migliaia di persone in fuga che cercano di seguire disperatamente le truppe americane che si ritirano lasciando il Paese in mano ai talebani, risalgono solo a due anni fa.

Le enormi disparità sociali ed economiche che ancora contraddistinguono il nostro Pianeta sono il motore delle enormi migrazioni umane che hanno come terra promessa soprattutto l’Occidente. Occidente che è al tempo stesso il grande responsabile di tali disparità, e che troppo spesso come unica risposta alza muri e chiude porti.

E per far accettare tale strategia all’opinione pubblica è necessario che i migranti che arrivano siano una massa anonima e informe, da contenere e isolare. Questo film, invece, raccontandoci la storia di un ragazzino ci illumina, rompendo l’ipocrisia della “massa informe” che a tanti fa così comodo per chetare la propria coscienza.

Così, anche nel nostro Paese che ha indiscutibilmente radici cristiane tolleranti e d’accoglienza, c’è ancora chi usa lo spauracchio degli immigrati per i propri scopi politici o economici. Il problema ancora più grave è chi asseconda tali soggetti.

“Flee” ha vinto, giustamente, molti premi in numerose manifestazioni in tutto il mondo fra cui spiccano: il Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival e tre candidature agli Oscar.

Da vedere e far vedere a scuola.

“Monster’s Ball – L’ombra della vita” di Marc Forster

(USA, 2001)

Il patriarcato e l’intolleranza sono fra i più grandi limiti della nostra civiltà. Se servono a pochi per mantenere il loro status e, soprattutto, i loro privilegi, devastano e soffocano la vita di tutti gli altri, anche di coloro che, cresciuti con gli ideali sbagliati, sono convinti di essere nel giusto.

Hank Grotowski (un ottimo Billy Bob Thornton) ne è un esempio. Lavora come guardia carceraria in un penitenziario della Georgia, così come ha fatto per tanti anni suo padre Buck (Peter Boyle) e come fa suo figlio Sonny (Heath Ledger) poco più che ventenne.

A casa Grotowski però sono rimasti solo gli uomini, le donne non ci sono più, come la madre di Hank che qualche anno prima si è tolta la vita. Buck, rimasto solo, ha cresciuto suo figlio, e poi suo nipote, all’insegna del più becero razzismo e della più subdola intolleranza.

Nel braccio della morte del carcere dove lavorano Hank e Sonny, c’è Lawrence Musgrowe, un afroamericano condannato alla sedia elettrica. Tutti i gradi di giudizio sono stati superati e l’uomo non può più fare appello, così il personale del carcere si prepara all’esecuzione, che verrà coordinata da Hank.

Il giorno prima si presentano nel carcere la moglie Leticia Musgrove (una bravissima Halle Berry) e il suo piccolo figlio Tyrell per salutare Lawrence. Poche ore dopo l’ultimo pasto – che nel mondo anglosassone qualcuno chiamava cinicamente “The Monster’s Ball”, il ballo o la festa del “mostro” – mentre accompagna il condannato nella stanza dell’esecuzione, Sonny ha un mancamento e vomita dallo stress, cosa che manda su tutte le furie il padre.

Prima nei bagni del carcere e poi a casa scoppia una lite furente al termine della quale Sonny, l’unico “uomo” Grotowsky che si sente palesemente oppresso dal becero e razzista patriarcato in cui vive, tragicamente aprirà gli occhi al padre…

Scritta da Milo Addica e Will Rokos, questa pellicola ci sottolinea come la tolleranza e il rispetto, oltre che essere indispensabili in una società civile, non fanno altro che rendere la vita di tutti gli esseri umani più degna di essere vissuta e assaporata. E alla fine è lecito chiedersi a quale “mostro” fa riferimento il titolo…

Un vero inno alla tolleranza e alla redenzione emotiva, questo film riceve numerosi premi internazionali. Halle Berry vince meritatamente l’Oscar come migliore attrice protagonista nonché l’Orso d’argento al Festival di Berlino, mentre Addica e Rokos incassano la candidatura per la miglior sceneggiatura sempre all’Oscar e il premio dell’American Screenwriters Associastion.

Da vedere.

Nella nostra versione a doppiare superbamente Billy Bob Thornton è Massimo Wertmuller.

“Un uomo felice” di Tristan Séguéla

(Francia, 2023)

Jean Leroy (Fabrice Luchini) è un uomo felice: a sessant’anni è serenamente sposato da quaranta con Edith (Catherine Frot) ha tre splendidi figli, una femmina e due maschi, ed è anche al suo secondo mandato come sindaco di una deliziosa cittadina della provincia francese.

Il partito a cui Leroy è iscritto è quello più tradizionale e conservatore del panorama politico d’oltralpe. I suoi elettori sono quelli che lo scelgono perché Jean è refrattario ai rinnovamenti e ai cambiamenti, soprattutto quelli della società civile.

Ma Jean Leroy ha un problema: nonostante abbia promesso a Edith di chiudere la sua carriera politica al termine del mandato e girare la Francia con lei su un camper, vuole candidarsi come primo cittadino per la terza volta. Anche perché il candidato dell’opposizione è un giovane con idee alquanto tolleranti e innovative.

Prima che la campagna elettorale prenda il via, Jean organizza un pranzo strategico con Edith durante il quale le dirà della sua scelta di ricandidarsi. Ma Edith lo anticipa, è tanto tempo che non più trattenersi e finalmente ha trovato il coraggio di parlare: da sempre lei si è sentita un uomo, anche se la natura l’ha fatta nascere nel corpo di una donna. E visto che lui ormai sta chiudendo definitivamente la sua carriera politica, lei vuole finalmente e pubblicamente assecondare il proprio essere.

L’amore che Edith ha per Jean non è in discussione ma da oggi lui, come tutti, dovrà chiamarlo Edi…

Scritta da Guy Laurent e Isabelle Lazard, questa divertente commedia indipendente pizzica la società contemporanea più conservatrice quando deve fare i conti con se stessa nell’ambito dei diritti civili. Un conto è giudicare superficialmente gli altri, un altro è giudicare se stessi…

La discriminazione di genere è una delle piaghe più gravi del nostro tempo, che ha provocato e provoca ingiustificabili e gravi danni morali, emotivi e fisici in tutto il mondo. Questa pellicola, con la sua leggerezza, prende in giro chi, per il proprio tornaconto, dell’intolleranza ne fa un cavallo di battaglia politico e al tempo stesso ci ricorda quanto siano importanti nella vita l’amore e la libertà di essere se stessi.

“Nimona” di Nick Bruno e Troy Quane

(USA, 2023)

Tratto dal bestseller “Nimona” scritto dal fumettista ND Stevenson nel 2012 (pubblicato nel nostro Paese dalla Bao Publishing) questo lungometraggio animato, prodotto da Netflix, ci porta in un mondo fantastico che però ha anche alcune tristi e superficiali caratteristiche di quello reale come il razzismo e l’intolleranza.

Così ci prepariamo alla definitiva nomina a cavaliere di Ballister Boldheart il primo, dopo oltre mille anni, a non provenire da una famiglia storica e nobile del regno. A volerlo addestrare, fin da bambino, è stata l’illuminata regina Valerin che, stanca delle ferree tradizioni, ha deciso di aprire l’accademia dei cavalieri a un orfano plebeo.

Ma il malumore per la nomina a cavaliere di Ballister serpeggia sia per tutto il regno che all’interno dell’accademia dove molti cadetti lo trattano da inferiore. Solo Ambrosius Goldenloin, il cadetto più famoso e diretto discendente di Gloreth (colei che mille anni prima sconfisse il terribile mostro, fece costruire le mura ciclopiche a protezione del regno e fondò l’ordine dei cavalieri a sua protezione) lo tratta alla pari e con amore, visto che da tempo lo ama ricambiato.

Durante la cerimonia del cavalierato però dal manico della spada di Ballister un raggio mortale colpisce la regina che cade e terra senza vita. Ambrosius ha solo il tempo di amputare il braccio di Ballister che teneva la spada prima che questo, anche se ferito, sparisca.

A prendere le redini del regno è la direttrice dell’accademia che ordina a tutti di catturare Ballister il traditore. Solo, e senza un braccio, il giovane cavaliere incredulo e spaesato si ritrova in un tugurio cercando di capire cosa sia successo veramente, chi abbia ucciso la regine e perché. Ad interrompere i suoi pensieri ci pensa una ragazzina invadente e facinorosa, Nimona che avendolo riconosciuto vuole unirsi a lui per mandare il regno a gambe all’aria. Ma…

Deliziosa favola d’azione contro ogni intolleranza e discriminazione che ci ricorda quanto, purtroppo, siano ancora presenti nella nostra società. Un atto d’amore a favore di chi, suo malgrado e per colpa degli altri, si sente “diverso”.

Siamo nel 2023 e c’è chi nel nostro Paese ancora parla con scetticismo del diritto d’aborto. Allora ben vengano film come questi che lasciano libere le nuove generazioni – e non solo – di sognare e vivere un’avventura fantastica che si conclude con il classico bacio d’amore fra i due eroi, indipendentemente che siano un uomo e una donna, due donne o due uomini.

Viva l’amore, la tolleranza e la fantasia.

“Indiana Jones e il quadrante del destino” di James Mangold

(USA, 2023)

Ci siamo, il tempo passa per tutti anche per il leggendario professor Henry Jones Jr (un sempre gajardo e tosto Harrison Ford) che tutti chiamano “Indiana”. E così, alla fine degli anni Sessanta, l’archeologo più famoso della celluloide deve andare in pensione, proprio mentre i primi esseri umani mettono il piede sulla Luna.

Ma non è la pensione ad annichilire il dottor Jones, sono le cose e le scelte fatte e, soprattutto, quelle non fatte. Fra le prime, senza dubbio, ci sono quelle che hanno portato al naufragio della sua famiglia. L’allontanamento definitivo da Marion (Karen Allen) ha minato l’anima del professore che si rassegna così a passare quello che gli rimane da vivere in assoluta e alcolica solitudine.

A scardinare questa convinzione ci pensa Helena Shaw (Phoebe Waller-Bridge), figlia di Basil Shaw (Toby Jones) vecchio amico e collaboratore di Jones, scomparso qualche anno prima. Proprio con Shaw, durante la fine del secondo conflitto mondiale, Jones era riuscito a trovare una parte della macchina di Anticitera realizzata da Archimede nel II secolo a.C., che di fatto è il più antico calcolatore meccanico conosciuto al mondo.

La macchina, che prese il nome dell’isola greca presso la quale venne rinvenuta nei primi del Novecento da due pescatori di spugne nel relitto di un’antica nave romana, era una sorta di planetario che serviva ad anticipare le stagioni, i cambiamenti climatici e gli eventi atmosferici in generale. Ma il Dottor Voller (Mads Mikkelsen), fra i matematici di spicco del Terzo Reich, la voleva portare ad Hitler perché convinto che possedesse la chiave per viaggiare nel tempo e poter vincere così ogni guerra.

E proprio dalle mani di Voller, Jones la prese assieme a Shaw che la conservò gelosamente. Però lo studio morboso della macchina di Archimede portò Shaw alla follia, tanto che alla fine era convinto che Voller avesse ragione e per questo era sul punto di distruggerla. Per conservare un reperto archeologico così importante Jones gliela portò via promettendo di distruggerla. Motivo per il quale 18 anni dopo Helena la richiede al vecchio amico di suo padre.

Ma sulle sue tracce ci sono gli uomini dell’implacabile professor Smith, il matematico che più degli altri è riuscito a mandare l’Apollo 11 sulla Luna e per questo ha il massimo appoggio della Casa Bianca. Ma la stessa Casa Bianca forse ignora che Smith è in realtà Voller, che vuole la macchina di Anticitera per cambiare la storia e il destino del mondo…

Scritto da David Koepp, Jez Butterworth, John-Henry Butterworth e James Mangold, e basato sui personaggi ideati da George Lucas, questo “Indiana Jones e il quadrante del destino” – che è il primo della serie a non essere diretto da Steven Spielberg che appare però assieme all’amico Lucas come produttore esecutivo – oltre a divertici con sequenze mozzafiato, battute e godibilissime autocitazioni, ci offre una riflessione crepuscolare sul tempo che passa inesorabilmente per tutti, anche per gli eroi immortali dei film.

Da sempre l’essere umano vorrebbe viaggiare nel tempo, spesso per poterlo cambiare a proprio favore, per correggere i propri errori o forse per non morire mai. Ma già il grande H.G. Wells nel suo splendido “La macchina del tempo” sosteneva che, anche potendo tornare indietro, il nostro destino, come quello degli altri, sarebbe comunque immutabile. E allora Indiana Jones, alla fine, ci sussurra all’orecchio che se proprio il nostro passato non lo possiamo cambiare, possiamo senza dubbio essere padroni del nostro futuro.

Nel cast appare anche Antonio Banderas, che si doppia da solo nella nostra versione. Dopo “Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta” e “Indiana Jones e l’ultima crociata” questo è il più sfizioso della serie.

Un solo appunto al film, e alla nostra versione, in cui Jones replica tagliente al Dottor Voller che nessun tedesco sa essere spiritoso. Che i nazisti, tedeschi o di qual qualsivoglia nazionalità, non siano capaci di essere spiritosi è un tragico dato di fatto scritto a ferro fuoco e sangue nella storia planetaria dell’ultimo secolo, ma non condivido assolutamente che la cosa possa valere per tutti i tedeschi in generale.

“Elemental” di Peter Sohn

(USA, 2023)

Le incomprensioni e gli attriti all’interno di una famiglia, in cui c’è comunque tanto amore incondizionato, sono fra gli elementi – …è proprio il caso di dirlo – principali della narrativa scritta e filmata contemporanea.

Se nel nostro Paese questi argomenti sono stati affrontati straordinariamente, e per la prima volta, dal maestro Eduardo De Filippo – sulla scia di Luigi Pirandello – nella sua immortale commedia “Natale in casa Cupiello”, negli Stati Uniti noti autori come Eugene O’Neill, Tennesse Williams o Arthur Miller li hanno portati superbamente sul palcoscenico, e poi sul grande schermo, nei decenni successivi.

Non c’è da stupirsi, quindi, se anche il cinema di animazione – che purtroppo ancora nel nostro Paese qualcuno considera un semplice e banale “passatempo” per i più piccoli – ha iniziato a raccontarci dei problemi e delle gravi ansie che nascono e crescono vorticosamente, spesso sotto traccia, all’interno di una famiglia.

Gli esempi sono numerosi, sia per quanto riguarda il cinema d’animazione giapponese, a partire dalle pellicole realizzate dallo Studio Ghibli ma non solo, che in quello francese con, ad esempio, lo splendido “La mia vita da zucchina“. Ma anche la stessa Disney con film come “Encanto” ci ha raccontato le pressioni e i relativi traumi di una famiglia in cui tutti si vogliono un profondo bene.

Per parlarci di questo tema Peter Sohn (che ha firmato “Il viaggio di Arlo“) si affida alla sceneggiatura scritta da John Hoberg, Kat Likkel e Brenda Hsueh che ci porta ad Elemental City, la città in cui convivono i vari elementi dell’universo: fuoco, terra, aria e acqua. Ma spesso fra i vari individui la convivenza non è facile, cosa che dà adito ad attriti e intolleranze.

Cosa succede allora quando un acquatico incontra e si innamora di una ragazza, letteralmente, di fuoco?

Per rendere più interessante e divertente la storia gli autori hanno invertito i soliti e “vecchi schemi” narrativi affidando il ruolo femminino all’acquatico Wade Ripple che, trasparente come una sorgente di alta montagna, non nasconde alcuno dei suoi sentimenti; mentre quello mascolino a Ember, una ragazza di fuoco che è convinta di dover essere sempre tutta d’un pezzo e per questo è spesso preda di un’ira incontrollabile.

Con toni leggeri e divertenti, così, entriamo in quella che spesso è la fucina di dolori e sofferenze, molto spesso evitabili, a cui tutti noi nel bene e nel male dobbiamo sopravvivere, soprattutto durante l’adolescenza: la famiglia.

Sfizioso.