“Nimona” di Nick Bruno e Troy Quane

(USA, 2023)

Tratto dal bestseller “Nimona” scritto dal fumettista ND Stevenson nel 2012 (pubblicato nel nostro Paese dalla Bao Publishing) questo lungometraggio animato, prodotto da Netflix, ci porta in un mondo fantastico che però ha anche alcune tristi e superficiali caratteristiche di quello reale come il razzismo e l’intolleranza.

Così ci prepariamo alla definitiva nomina a cavaliere di Ballister Boldheart il primo, dopo oltre mille anni, a non provenire da una famiglia storica e nobile del regno. A volerlo addestrare, fin da bambino, è stata l’illuminata regina Valerin che, stanca delle ferree tradizioni, ha deciso di aprire l’accademia dei cavalieri a un orfano plebeo.

Ma il malumore per la nomina a cavaliere di Ballister serpeggia sia per tutto il regno che all’interno dell’accademia dove molti cadetti lo trattano da inferiore. Solo Ambrosius Goldenloin, il cadetto più famoso e diretto discendente di Gloreth (colei che mille anni prima sconfisse il terribile mostro, fece costruire le mura ciclopiche a protezione del regno e fondò l’ordine dei cavalieri a sua protezione) lo tratta alla pari e con amore, visto che da tempo lo ama ricambiato.

Durante la cerimonia del cavalierato però dal manico della spada di Ballister un raggio mortale colpisce la regina che cade e terra senza vita. Ambrosius ha solo il tempo di amputare il braccio di Ballister che teneva la spada prima che questo, anche se ferito, sparisca.

A prendere le redini del regno è la direttrice dell’accademia che ordina a tutti di catturare Ballister il traditore. Solo, e senza un braccio, il giovane cavaliere incredulo e spaesato si ritrova in un tugurio cercando di capire cosa sia successo veramente, chi abbia ucciso la regine e perché. Ad interrompere i suoi pensieri ci pensa una ragazzina invadente e facinorosa, Nimona che avendolo riconosciuto vuole unirsi a lui per mandare il regno a gambe all’aria. Ma…

Deliziosa favola d’azione contro ogni intolleranza e discriminazione che ci ricorda quanto, purtroppo, siano ancora presenti nella nostra società. Un atto d’amore a favore di chi, suo malgrado e per colpa degli altri, si sente “diverso”.

Siamo nel 2023 e c’è chi nel nostro Paese ancora parla con scetticismo del diritto d’aborto. Allora ben vengano film come questi che lasciano libere le nuove generazioni – e non solo – di sognare e vivere un’avventura fantastica che si conclude con il classico bacio d’amore fra i due eroi, indipendentemente che siano un uomo e una donna, due donne o due uomini.

Viva l’amore, la tolleranza e la fantasia.

“Questo mondo non mi renderà cattivo” di Zerocalcare

(Italia, 2023)

Su Netflix è approdata la seconda serie animata creata, scritta e diretta da Zerocalcare.

Dopo “Strappare lungo i bordi” del 2021, torniamo nel quartiere di Rebibbia a Roma, dove vive e lavora Zerocalcare. Fra quelle strade e quei grandi palazzi popolari “Calcare” è cresciuto accanto a persone con le quali ha stretto una profonda amicizia, come con Secco o Sara, e con altre, come Cesare, che col passare del tempo ha perso di vista.

Quando Cesare torna nella zona, dopo aver passato alcuni anni in una comunità per il recupero dalla sua tossicodipendenza, l’incontro con Zerocalcare è formale e molto freddo. Perché Cesare ha affrontato i propri mostri da solo, lontano da tutti – Zerocalcare compreso – e quando è tornato a casa ha trovato il deserto emotivo.

Come tutto il Paese, anche Rebibbia sta vivendo la netta frattura della nostra società che si divide in tolleranti e intolleranti, in accoglienti e sovranisti, in sinistrorsi e nazisti che, come ci spiega l’autore, comprendono anche i fascisti che ormai sono stati fin troppo facilmente sdoganati. Ma se per Zerocalcare fino a quel momento la divisione è sempre stata netta, adesso scopre – come molti altri suoi connazionali… – che fra il bianco e il nero ci sono milioni di sfumature. E così “Calcare” deve imparare a convivere con le numerose tonalità di grigio.

Se i nazisti rimangono e rimarranno sempre dei nazisti, Zerocalcare ci racconta – non senza sublimi citazioni e battute esilaranti – come il mancato riconoscimento delle tante sfumature non fa altro che fomentare i nazisti e chi li manipola e li usa a proprio tornaconto.

Come nella serie precedente, anche in questa è Valerio Mastandrea a doppiare l’Armadillo, la coscienza ingombrante di Zerocalcare, mentre Silvio Orlando dona la voce ad un dirigente della Digos.

Zerocalcare è sempre lui.

“Nessuno sa che io sono qui” di Gaspar Antillo

(Cile, 2020)

Guillermo “Memo” Garrido (un bravissimo Jorge Garcia, divenuto famoso per essere uno dei protagonisti della serie televisiva “Lost”) vive insieme allo zio Braulio (Luis Gnecco) su un’isola nelle coste del Cile. Col fratello del padre alleva pecore delle quali poi lavora la lana ed il pellame.

Memo è un tipo solitario che vive quasi sempre ascoltando musica con le sue cuffie. Le poche volte che qualcuno viene sull’isola lui si nasconde. E’ un uomo alto quasi due metri e affetto da una grave obesità, ma non è per questo che vuole nascondersi dal mondo, anche se conosce molto bene come le persone possono essere cattive nel giudicare superficialmente un altro essere umano.

La sua routine viene però destabilizzata da Marta (Millaray Lobos) la nipote e sostituta temporanea del fornitore di pelli di Braulio. La ragazza è curiosa e tenta di avvicinarsi a Memo che all’inizio però la fugge. Le cose precipitano rapidamente a causa del grave incidente che subisce Braulio mentre tenta di aggiustare il motore di una barca.

Rimasto solo sull’isola – Braulio deve subire numerose operazioni ad una mano – Memo trova conforto solo negli incontri con Marta e per paura che lei se ne vada inizia a cantare, sua grande e vera passione, mentre la ragazza istintivamente lo riprende col cellulare. Il filmato viene visto casualmente da un ragazzo che Marta frequenta e che fa il giornalista: tutto il doloroso passato di Memo irrompe violentemente e inesorabilmente sull’isola dove si era nascosto trovando un pò di pace…

Scritta dallo stesso Gaspar Antillo assieme a Josefina Fernández ed Enrique Videla, questa originale e intimista pellicola ci racconta la storia di un bambino a cui è stata tolta una parte di esistenza e che è costretto a convivere con i propri fantasmi per colpa dell’egoismo e della prepotenza dei “grandi”.

Sono le immagini e la musica a contare, i dialoghi hanno invece una parte secondaria. La struttura narrativa è basata su flashback che si sovrappongono alla storia al presente in modo da illuminare lo spettatore sull’intera vicenda solo nelle scene finali. Ottima sceneggiatura che, nonostante si sveli completamente solo nell’epilogo, riesce a catturare lo spettatore in ogni fotogramma; come nel film, con una struttura analoga, “Exotica” diretto da Atom Egoyan nel 1994.

Commissionato e prodotto da Netflix, purtroppo questo film ha subito il duro impatto della pandemia causata dal Covid che ne ha compromesso la distribuzione, privandolo dei giusti riconoscimenti internazionali che merita, fatto salvo il premio come miglior regista esordiente vinto da Antillo al Tribeca Film Festival del 2020.

Da vedere.

“Avvocata Woo” di Ji-Won Moon

(Corea del Sud, 2022)

La cinematografia della Corea del Sud è ormai, da alcuni decenni, fra le più produttive e originali del Pianeta. Non sono pochi, infatti, i film realizzati a Seul che poi vengono rifatti in Occidente o che collezionano riconoscimenti prestigiosi in ambito internazionale. Negli ultimi tempi anche la televisione coreana realizza serie che spopolano in molti altri Paesi, come il vero e proprio fenomeno planetario di “Squid Game”.

Con questa serie “Avvocata Woo” la televisione coreana, in collaborazione con Netflix, sposta l’asticella ancora più su, raccontandoci la storia di Woo Young-woo (la bravissima Eun-bin Park) una giovane avvocata con il QI di 164 e migliore del suo corso universitario, assunta come “novellina” nello studio Hanbada, uno dei più prestigiosi di Seul.

Ma nonostante la sua preparazione, il suo acume e la sua incredibile memoria, sono molti quelli che provano disagio a lavorare con lei, così come sono pochi i clienti che non rimangono titubanti stringendole la mano. Perché Woo Young-woo, dalla nascita, vive nello spettro autistico.

Ha proferito le sue prime parole a cinque anni citando a memoria il libro di giurisprudenza del padre, che le ha fatto conoscere e amare il Diritto parlandogliene come se fosse una favola della buonanotte fin da piccola. Ricorda tutti i libri che ha letto da quando è nata ma questo, per molta parte del mondo, non basta.

Per il suo modo di interagire con gli altri lei sarà sempre e comunque una disabile della quale magari si può avere pena, ma di cui certo non ci si può fidare, soprattutto nel mondo duro e tagliente come quello degli avvocati. Inoltre Woo Young-woo deve fare i conti anche col resto della società patriarcale per gran parte della quale lei ha due grandi e insormontabili limiti: oltre ad avere una “fin troppo evidente” disabilità …è pure una donna.

Ma Woo Young-woo è abituata a essere guardata con gli occhi superficiali e compassionevoli, e così porta l’ingiusto e vergognoso fardello che gli altri miseramente le caricano sulle spalle, triste sì, ma mai rassegnata…

Bellissima serie dalle caratteristiche del classico Courtroom Drama che ci parla soprattutto della vita e delle relazioni fra gli essere umani che troppo spesso sanno essere spietati, meschini e ipocriti.

Nel nostro Paese, purtroppo, la disabilità nel mondo delle fiction resta ancora un tabù. Sono troppo pochi e spesso non perfettamente riusciti i film o le serie che l’affrontano senza ipocrisie o amorevole e odiosa compassione. Ma per fortuna esistono altre cinematografie o televisioni come quella coreana, appunto. Prima o poi arriveremo anche noi a realizzare una serie così, forse più poi …che prima.

Da vedere.

“LOVE DEATH + ROBOTS” di David Fincher e Tim Miller

(USA, dal 2019)

Alla fine del primo decennio del nuovo millennio i registi David Fincher e Tim Miller volevano realizzare un remale del cult assoluto “Heavy Metal” diretto da Gerald Potterton e prodotto da Ivan Reitman nel 1981.

Ma i tempi non sembrarono maturi e nessuno era pronto a investire per un lungometraggio di animazione per adulti che, citando il grande Zerocalcare, non è un cartone animato “zozzo” ma un lungometraggio che per argomenti e scene spesso crude e cruenti è dedicato ad un pubblico maggiorenne.

Il successo planetario del film “Deadpool” diretto dallo stesso Miller nel 2016 cambia le cose e permette ai due di trovare i finanziamenti per il loro vecchio progetto che diventa una serie antologica distribuita da Netflix a partire dal 2019.

La prima stagione è composta da 18 episodi, la seconda da 8 e la terza da 9, che durano fra i 6 e i 21 minuti, spesso ispirati a racconti di fantascienza contemporanei e diretti da artisti provenienti da tutto il globo. L’episodio “Mutaforma”, ad esempio, è diretto da Gabriele Pennacchioli, storico disegnatore di “Diabolik”, “Martin Mystère” e “Dylan Dog”, e poi assunto alla Dreamworks dove ha partecipato a successi internazionali come “Shrek”, “Kung Fu Panda” o “Dragon Trainer”.

Così come nella prima serie, anche nelle successive ci sono episodi realizzati in vari studi sparsi per il Pianeta, ma anche “Un brutto viaggio”, tosto fino all’ultimo frame, diretto dallo stesso Fincher e scritto dall’autore cyberpunk Neal Asher.

Se proprio mi costringete a fare una scelta dico “Tre robot” (che apre la prima stagione) e “Tre robot: Strategie d’uscita” (che apre la terza) nonché il delizioso “L’era glaciale” diretto dallo stesso Miller, tratto da un racconto di Michael Swanwick, con Mary Elizabeth Winstead e Topher Grace.

Da vedere.

“Due estranei” di Travon Free e Martin Desmond Roe

(USA, 2020)

Carter (Joey Bada$$) si sveglia in una luminosa mattina newyorkese nel letto di Perri (Zaria Simone). I due si sono conosciuti la sera prima in un locale e hanno passato la notte insieme. Dopo il primo classico imbarazzo del risveglio Perri chiede a Carter di rimanere a mangiare qualcosa, ma lui deve tornare a casa dal suo cane, che dalla sera prima è rimasto solo.

Così, un pò a malincuore e un pò per farsi desiderare, Carter esce per tornare nel suo quartiere e coccolare il suo fedele amico. Ma appena uscito dal portone viene fermato bruscamente dall’agente Mark (Andrew Howard) del Dipartimento di Polizia di New York insospettito dal fatto che un uomo di colore “come” lui giri per una strada così elegante nel centro di Manhattan.

Carter, che è un ricco disegnatore, protesta cosa che fa imbestialire il poliziotto che subito lo atterra e lo immobilizza con l’aiuto di altri due agenti che accorrono poco dopo. Carter non riesce più a muoversi e alla fine neanche più a respirare…

Il ragazzo si risveglia esattamente nel letto di Perri e rivive le stesse cose fino al fatale incontro con l’agente Mark. Ma ogni tentativo di fuga o di cambiare il corso degli eventi è inutile: alla fine il poliziotto lo uccide, in mille modi diversi, ma lo uccide sempre. E lui si risveglia sempre nel letto di Perri.

Arrivato al centesimo loop Carter decide di parlare con l’agente. Il poliziotto, dopo averlo ascoltato, decide di accompagnarlo a casa. Durante il tragitto Carter tenta di convincere l’agente Mark che il modo in cui l’attuale società americana premia quelli “come” lui è fondamentalmente e tragicamente sbagliato, visto che li premia per l’unica cosa di cui non hanno alcuna responsabilità: nascere bianchi.

Finalmente l’auto del NYPD arriva sotto casa di Carter e il ragazzo scende e si avvia verso la porta di casa ma Mark, dopo aver platealmente applaudito il lungo discorso del disegnatore, tira fuori la pistola e lo fredda in mezzo alla strada, proprio a pochi metri del suo cane che sente morire il padrone dietro la porta.

Al risveglio successivo Carter, sconvolto, racconta l’accaduto a Perri che gli offre la sua protezione proponendogli di nascondersi, ma il ragazzo si rifiuta. Ormai ha compreso che è inutile tentare di sfuggire al proprio destino nell’attuale società a stelle e strisce, anche se ormai le persone di colore hanno un’educazione e un tenore di vita spesso molto più alti degli agenti che li uccidono. Ma sa anche che: “…prima o poi riuscirà a tornare a casa sua, dal suo amato cane”.

Scritto dallo stesso Travon Free “Two Distant Strangers” è davvero un duro colpo allo stomaco, visto anche che i sanguinari modi in cui Carter viene ucciso dall’agente Mark sono gli stessi dei reali casi di cronaca più tragicamente noti come quello di George Floyd o Breonna Taylor.

Un ottimo cortometraggio che lancia un grido di protesta contro le innumerevoli e continue morti di persone di colore per mano di agenti della polizia bianchi, vittime che vengono ricordate nei titoli di coda, per non dimenticare. Gli ultimi anni di pandemia e le ultime settimane di guerra dovrebbero averci fatto finalmente capire che siamo tutti esseri umani e che tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri per sopravvivere e vivere dignitosamente. Dovrebbero…

E se pensate che il problema vergognoso del razzismo sia solo al di là dell’oceano, basta che vi leggiate alcuni post firmati da italici figuri che sottilizzano sulla differenza di “autenticità” fra profughi e profughi in relazione al colore della loro pelle.

“Due estranei”, fra gli altri premi, ha vinto anche l’Oscar come miglior cortometraggio nel 2021.

Al momento è disponibile su Netflix.

“Strappare lungo i bordi” di Zerocalcare

(Italia, 2021)

E’ finalmente arrivata su Netflix la serie di animazione ideata, scritta e diretta da Zerocalcare.

“Strappare lungo i bordi”, nelle sue 6 puntante da circa 20 minuti l’una, ci parla di temi al fumettista – anche se ormai chiamarlo solo autore di fumetti è davvero riduttivo – molto cari come il sopravvivere all’amara e cruda adolescenza e, soprattutto, a se stessi.

Purtroppo nella vita non basta “strappare lungo i bordi” la nostra figura dal foglio che il destino ci pone, perché lo strappo fin troppo spesso sconfina con imponderabili conseguenze…

Anche se si tratta di argomenti che abbiamo già affrontato in altre opere di Zerocalcare come “La profezia dell’armadillo” o “Un polpo alla gola”, grazie al suo modo unico e originale di raccontarceli e approfondirli non smettono mai di essere interessanti, divertenti e, naturalmente, anche tristi.

A doppiare l’Armadillo, forma in carne e corazza della coscienza del protagonista, è Valerio Mastandrea che duetta deliziosamente con Zerocalcare, che fino all’ultima parte dell’ultima puntata doppia da solo tutti i personaggi – come nei suoi indimenticabili video che sui social ci hanno aiutato ad affrontare il primo famigerato lockdown – tranne appunto il mammifero corazzato.

Ma, come in ogni fumetto, non è solo la storia centrale ad appassionarci, ma anche i piccoli dettagli sullo sfondo, come le locandine dei film di fantascienza appese sui muri di casa di Zero, fra le quali su tutte: “ROG UAN – NA STORIA DE GUERRA FRA ‘E STELLE” e “L’IMPERO RIATTACCA E MO SO’ CAZZI”.

“Midnight Diner – Tokyo Stories”

(Giappone, dal 2016)

Tratto dall’ottimo manga “La taverna di mezzanotte” di Yaro Abe, questa serie ci porta in un piccolo ristorante nei pressi di Shinzoku, il quartiere di Tokyo col nodo ferroviario più frequentato al mondo, che apre ogni notte da mezzanotte alle sette del mattino.

Tutti i clienti, sia quelli abituali che quelli nuovi, hanno una ricetta preferita che chiedono allo chef. Attraverso i loro gusti apprendiamo in ogni puntata la loro storia, rimanendo immersi nei sapori e negli odori della cucina giapponese.

Con un cast di noti attori nipponici, questa serie ci parla della cultura e della società giapponese contemporanea che è tanto legata alla propria antica tradizione, così come all’innovazione e alle contaminazioni cosmopolite. E’ disponibile su Netflix (che l’ha co-prodotta) in lingua originale con sottotitoli, cosa che ci aiuta ancora di più ad entrare negli usi e nei costumi di un popolo che sembra così lontano ma che poi in realtà non lo è.

Per gli amanti del buon sapore e delle storie piccole, ma vere.

Lo stesso Yaro Abe ha curato la sceneggiatura di numerosi episodi che, pur riprendendo le atmosfere e le emozioni del suo manga, raccontano vicende differenti. Di questa particolare serie sono state realizzate due stagioni, la prima nel 2016 e la seconda nel 2019, e comunque la serie al momento, fortunatamente, non risulta chiusa.

“Il pianeta verde” di Coline Serreau

(Francia, 1996)

Questo gioiellino satirico e – purtroppo – anche molto attuale, dopo essere stato brevemente distribuito nelle nostre sale solo grazie ad un circuito indipendente, è letteralmente sparito dalla circolazione, almeno nella nostra versione per molto tempo.

Eppure la sua regista e sceneggiatrice Coline Serreau è l’autrice di uno dei film francesi più famosi degli anni Ottanta: “Tre uomini e una culla”. E allora perché Hollywood, che non ha perso tempo a realizzarne una remake americano di enorme successo ha completamente ignorato questa pellicola divertente e ironica che, alla sua uscita, ha riscosso anche un discreto successo in Francia?

Anche se non posso entrare nella capoccia degli amministratori delegati delle grandi major americane, la risposta è abbastanza semplice: perché è una critica all’acido muriatico della luminosamente ottusa società occidentale. “Il piante verde” è un ritratto impietosamente lucido e intelligente dei numerosi vizi, dei numerosi limiti e delle numerose ipocrisie del nostro tempo. E, soprattutto, punta il dito contro tutti quei comportamenti superficiali e/o arroganti che stavano nel 1996 (e continuano ancora oggi…) uccidendo il nostro pianeta.

Mila (la stessa Serreau) abita serenamente sul Pianeta Verde, un piccolo e felice corpo celeste dove ognuno vive in perfetta simbiosi con gli altri e con l’ambiente. Gli abitanti, la cui vita supera in media ben oltre i duecento anni, sono del tutto identici agli essere umani, solo che la loro storia è avanti di circa tremila anni. Sul Pianeta Verde, infatti, l’era industriale è passata da tre millenni, e il popolo è sopravvissuto alle sue tirannie e al suo inquinamento smettendo di comprare cose inutili e tornando a rispettare animali e piante.

Si è sviluppata in maniera incredibile anche la telepatia, che permette agli abitanti del piccolo pianeta di viaggiare attraverso il cosmo sugli altri corpi celesti dove scambiano nozioni, esperienze e pensieri. Ma da oltre duecento anni nessuno vuole tornare sulla Terra, visto che è considerato un posto selvaggio e tanto arretrato, socialmente e culturalmente.

Prima di morire il padre di Mila le ha confessato però che sua madre era una terrestre, conosciuta durante l’ultimo viaggio fatto sulla Terra, e che è morta dandola alla luce. Spinta da una incontenibile curiosità, Mila si offre volontaria per compiere una spedizione informativa sul nostro pianeta, cosa che provocherà un impatto indimenticabile per lei, ma soprattutto per gli umani che avranno la “fortuna” di incrociarla…

Nel cast appaiono, oltre alla regista (autrice anche della colonna sonora), Vincent Lindon e una giovanissima Marion Cotiliard. Negli anni Novanta nel nostro Paese non era ancora così universalmente riconosciuto il problema ambientale. O meglio, chi già se ne preoccupava non spostava troppi elettori o spettatori. E allora perché anche da noi questo film è scomparso?

Perché osa toccare due argomenti tabù per la nostra cultura “nazional-popolare”. Il primo infatti è il Cattolicesimo: Mila entrando a Nostre-Dame de Paris riconosce nell’uomo inchiodato alla croce che domina una cappella Gesù, un antico abitante del Pianeta Verde sceso sulla Terra duemila anni prima per emancipare i suoi abitanti e mai più tornato…

Ma non basta!

La Serreau, oltre a scherzare sulla nostra religione ufficiale, si permette di toccare la cosa che arde in ogni focolare domestico da Trieste in giù, forse anche di più dell’amor patrio. Coline Serreau osa burlarsi …del calcio.

Mila viene invitata ad assistere ad una partita di calcio al Parco dei Principi, e mentre si consuma il match lei scombussola le menti di giocatori, arbitro (cha corre per il campo cantando “‘O sole mio”) e guardialinee… bagarre che si conclude con un bacio finale e alquanto appassionato fra i due portieri.

Come diceva mia nonna: “Scherza coi Fanti, ma non toccare gli Attaccanti!” …o forse non era così.

“Il giovane Wallander” di Ben Harris

(UK, 2020)

Nel 1991 viene pubblicato in Svezia “Assassinio senza volto” di Henning Mankell, in cui appare per la pima volta fra le righe di un libro il commissario Kurt Wallander. Dopo Martin Beck, nato dalla penna geniale della coppia Maj Sjöwall e Per Wahlöö, Kurt Wallander è senza dubbio il commissario più famoso della Scandinavia, protagonista di una dozzina di libri che nel corso degli anni sono stati tradotti in quasi tutte le lingue.

Purtroppo Mankell è scomparso nel 2015 dopo aver combattuto strenuamente contro un cancro, facendo fede al credo del suo personaggio più famoso: “…non arrendersi mai”. Così, noi tristi lettori, ci eravamo già rassegnati a non vivere più una nuova indagine del suo commissario, ma dallo scorso 3 settembre è disponibile su Netflix la serie, di produzione inglese e in sei puntate, “Il giovane Wallander” ideata da Ben Harris.

Sulla scia del maestro Andrea Camilleri che in maniera geniale ha donato nuovo spunto e fascino al suo già intramontabile commissario televisivo ideando “Il giovane Montalbano”, Harris torna alle origini. La serie inizia infatti quando il “giovane” Kurt è ancora un semplice agente della Polizia svedese che ha scelto di vivere in una delle periferie più disagiate di Malmö, nella Scania meridionale.

Una sera, proprio sotto il piccolo e solitario appartamento in cui vive Wallander (Adam Pålsson), davanti ai suoi occhi, viene fatta esplodere una granata nella bocca di un ragazzo. La tragedia non fa altro che alimentare la feroce e reazionaria protesta di alcuni svedesi, che vedono negli immigrati che la città sta accogliendo la ragione di ogni male e violenza nel loro Paese.

Proprio perché sul posto al momento del delitto e residente nel quartiere, Wallander viene trasferito quasi di peso nella sezione Grandi Crimini della Polizia di Malmö. A volerlo è il responsabile, il sovrintendete Hemberg (Richard Dillane) che per primo intravede nel giovane le sue grandi doti investigative. Ma…

Gradevole e intrigante serie giallo/noir che centra l’animo del Wallander di Mankell, che in “Assassino senza volto” esterna il suo credo: “Il concetto di giustizia non significa solo che le persone che commettono reati vengano condannate. Significa anche non arrendersi mai”. Così come all’attenzione che Mankell poneva in favore dei più deboli della società come gli immigrati o il sub proletariato urbano.

Ottimo connubio artistico fra la Gran Bretagna e la Svezia che di fatto sono i genitori storici del grande giallo europeo.