“Batman – Il film” di Leslie H. Martinson

(USA, 1966)

Dite quello che vi pare ma la serie prima, e questo film poi, mi fanno impazzire.

Fra le più ironiche, grottesche e al tempo stesso rappresentative serie degli anni Sessanta, “Batman” ebbe subito un tale successo da convincere i produttori a realizzare un film, che di fatto è il primo sull’uomo pipistrello nato dalla matita di Bob Kane.

A sfidare Batman (Adam West) e il suo fido Robin (Burt Ward), questa volta ci si mettono tutti e quattro i cattivi di sempre: l’Enigmista (Frank Gorshin), il Pinguino (Burgess Meredith, vittima del maccartismo al quale per anni venne impedito di lavorare, e che dieci anni dopo diventerà famoso come l’anziano allenatore di Rocky Balboa), il Jolly – si chiamava così da noi e non ancora Joker… – (Cesar Romero) e la perfida e sensuale Catwoman (Lee Meriwether).

I quattro cattivi useranno ogni mezzo per sconfiggere il paladino della giustizia, solcando i mari i cieli e il sottosuolo. Ma l’uomo pipistrello…

Mantenendo il più possibile le caratteristiche visive del fumetto, assieme e una facile ironia, che a volte però diventa anche graffiante deridendo pungentemente la retorica del giustiziere e delle sue argute riflessioni, “Batman – Il film” ancora diverte.

Nonostante i suoi effetti speciali caserecci – come la classica camminata sul muro o la scazzottata con uno squalo troppo statico pure per essere di gomma – e le scenografie a basso costo, questo film possiede ancora il suo fascino. Sarà per il tema musicale indimenticabile, così come per il suo protagonista che col suo fisico imponente teneva la scena con una semplice calzamaglia grigia.

Trash allo stato puro Batman e Robin che, durante alcuni esperimenti chimici nella loro batcaverna, indossano i loro costumi con sopra i camici da laboratorio …SBANG!

“Latitudine Zero” di Ishiro Honda

(Giappone/USA, 1969)

E’ inutile fare troppo gli intellettuali, perché a dirigere questo visionario pamphlet è Ishiro Honda autore e regista del primo e immortale “Godzilla” girato in bianco e nero nel 1954, nonché fedele e primo collaboratore del maestro Akira Korosawa. La trama di questo film, invece, ricorda tanto “20.000 leghe sotto i mari” di Jules Verne, ma con alcune modifiche assai politicamente corrette.

Durante un’esplorazione subacquea, un giapponese, un francese e un americano (sembra proprio una barzelletta lo so, ma il fascino del trash è anche questo) rischiano di rimanere vittime dell’eruzione di un vulcano sottomarino.

A salvarli è l’Alpha, uno strabiliante sottomarino ideato e comandato da Glen MacKenzie (un Joseph Cotten ormai al tramonto delle sua carriera, la cui pettinatura stona non poco con gli strabilianti e psichedelici costumi di scena) membro di rilievo di Latitudine Zero, un mondo sommerso, creato grazie al genio di numerosi scienziati di fama mondiale, in cui ognuno vive in armonia col prossimo, e che possiede tecniche e invenzioni che sulla superficie sembrano inverosimili.

Ma sulle tracce dell’Alpha c’è lo Squalo Nero, altro sofisticato e micidiale sottomarino, che non appartiene a Latitudine Zero ma alla flotta del famigerato dottor Malic (un Cesar Romero con un sorriso diabolico a 64 denti uguale a quello che usava per fare Joker nel fantastico Batman televisivo), che da oltre un secolo cerca di conquistare il globo, ma che trova in MacKenzie il suo ultimo e insormontabile ostacolo… sì, sì, da oltre un secolo…

Con una trama ingarbugliata come la dichiarazione dei redditi di un neofita, “Latitudine Zero” è un filmaccio trash da non perdere, soprattutto per gli improbabili costumi – quelli di Cotten, come detto, sono i più stonati in assoluto – le scenografie, ma soprattutto per gli effetti speciali artigianali e per questo strepitosi!

“La signora in giallo” di Peter S. Fischer, Richard Levinson e William Link

(USA, dal 1984 al 1996)

Dite quello che vi pare, i delitti educati e senza sangue che si consumano (soprattutto quelli delle prime serie) nella ridente – ma in continuo aggiornamento del numero di abitanti… – Cabot Cove mi stregano sempre.

Ho cercato invano, per anni, una maglietta con il logo dello sceriffo di Cabot Cove, ideale per andare a dormire cullato dai ovattati e innocui sogni. E non facciamo troppo i prevenuti, perché a creare l’arzilla vedova scrittrice di fama internazionale, nonché segugio implacabile, sono stati Peter S. Fischer, Richard Levinson e William Link già autori di serie collaudate e di grande successo come “Il tenente Colombo” o “Ellery Queen”.

Come novità, rispetto alle altre, scelsero una donna come protagonista, e chi meglio di una Miss Marple a stelle e strisce?

Il titolo in originale della serie “Murder, She Wrote” richiama direttamente “Murder, She Said”, titolo orignale del film del 1961 “Assassino sul treno”, tratto dal romanzo di Agatha Christie “Istantanea di un delitto” del 1957.

Nel film a vestire i panni della Marple è la fantastica e indimenticabile Margaret Rutherford, mentre l’altrettanto indimenticabile Angela Lansbury – che nonostante la sua incredibile e decennale carriera cinematografica e teatrale legherà in maniera indelebile il suo viso a quello di Jessica Fletcher, nonostante poi sia un’inglese DOC – la interpreta in “Assassino allo specchio” del 1980 accanto a Liz Taylor e Tony Curtis.

Oltre al rebus legato all’individuazione del colpevole, le avventure della nostra Jessicona non hanno molto in comune con quelle frutto della penna di Agatha Christie.

A Cabot Cove, nonostante una continua e inesorabile strage, si vive un’aria serena e domenicale, e spesso subito dopo l’arresto del colpevole – sempre reo confesso e prodigo di spiegazioni dettagliate – ci si fa tutti una bella risata.

Ma chissenefrega, con quella casa sempre perfetta e con quella carta da parati e quelle passamanerie, sono sempre cinquanta minuti ben spesi davanti alla tv, sbracati sul divano!

“Il caso «Venere privata»” di Yves Boisset

(Francia/Italia, 1970)

Sono un amante delle opere di Giorgio Scerbanenco esattamente come amo quelle di Stephen King.

Oltre a questo, i due grandi scrittori hanno in comune i pochi adattamenti cinematografici dei loro scritti degni di nota.

E se King può vantare almeno vari grandi film ispirati alle sue opere, Scerbanenco invece neanche quelli visto che (escludendo “I ragazzi del massacro” di Ferdinando Di Leo e “La morte risale a ieri sera” di Duccio Tessari) tutte le trasposizioni cinematografiche delle sue opere sono irrispettose del suo grande genio letterario.

A partire da questo film, tratto dallo splendido “Venere privata” del 1966, che se in alcuni momenti sfiora le atmosfere del romanzo, manca invece totalmente i protagonisti e soprattutto la trama cruda e sottile, riducendola a quella di un semplice poliziottesco con pruriti erotici.

Perché lo metto nel Mio Trash?

Perché si apre col nudo integrale di un’avvenente Raffaella Carrà, basta?

“Il maestro di violino” di Giovanni Fago

(Italia, 1976)

Nel prestigioso Conservatorio “Morlacchi” di Perugia spicca l’insegnante di violino Giovanni Russo (Domenico Modugno), sia per la sua bravura che per la sua riservatezza.

La giovane allieva Laura (una carina quanto totalmente inespressiva Rena Niehaus), figlia della Contessa di Sansevero (principale sovvenzionatrice del Conservatorio), si invaghisce dell’uomo che però nasconde un triste segreto…

Un vero polpettone doc con tutti i crismi, fazzolettoni bianchi per le lacrime finali compresi (nonostante il titolo che sembra quello classico di un pecoreccio tanto di moda all’epoca).

Il grande Mimmo Modugno, che sul palcoscenico – sia per cantare che per recitare – non aveva rivali (o quasi), davanti alla macchina da presa invece rimane sempre un po’ impacciato.

Ma anche questo fa parte del fascino trash di questa pellicola realizzata comunque da ottimi artigiani cinematografici (come era nella nostra grande tradizione ormai andata).

Due chicchette: i titoli di testa con scorci da cartolina di Perugia, e i dialoghi da fotoromanzo fra Russo e la volitiva e glaciale Contessa di Sansevero.