“Mr. Harrigan’s Phone” di John Lee Hancock

(USA, 2022)

Primo adattamento dell’omonimo racconto “Il telefono del Signor Harrigan” di Stephen King, che apre la raccolta “Se scorre il sangue”, pubblicata dal Re nel 2020.

2003, in una cittadina del Maine il piccolo Craig ha dovuto accompagnare al cimitero – …suo malgrado – il feretro di sua madre prematuramente scomparsa. A tenergli la mano c’era suo padre con il quale, disperato, è tornato a casa.

Poco tempo dopo, dalla grande casa in cima alla collina dove finisce la strada in cui abita, arriva una singolare proposta. Il facoltoso signor Harrigan (un inquietante e sempre bravo Donald Sutherland), che da New York si è appena trasferito lì, avendo dei seri problemi di artrite alle mani e per assecondare la sua passione per la lettura, gli chiede di leggere per lui. Così, per pochi dollari all’ora, Craig inizia quasi ogni pomeriggio a salire fino a casa del Signor Harrigan per leggere ad alta voce.

Nei cinque anni trascorsi, Craig (Jeaden Martell, che partecipa anche alla nuova versione cinematografica di “It” del 2019) e Harrigan sono diventati amici e, fra un grande classico della letteratura mondiale e l’altro, si confrontano scambiandosi idee e riflessioni. Il ragazzo non riesce a comprendere come l’anziano posso rifiutare, nonostante i grandi mezzi, tutta la tecnologia che il progresso offre, non possedendo alcun televisore, ma solo una vecchia radio dove ascolta la sua tanto amata musica country.

Eppure, nella dimora di Harrigan, arrivano quotidianamente i più importanti giornali economici del Paese, e non solo, perché li suo ospite, ha scoperto Craig nel corso del tempo, è stato uno dei più scaltri e implacabili assi della finanza della Borsa di New York.   

Siamo agli albori della rivoluzione che gli smartphone porteranno in tutto il globo che, in pochi anni, cambierà lo stile di vita di tutti noi. Anche Craig, quindi, anela il suo primo Iphone e quando il padre, per il suo compleanno gliene regala uno, si sente in paradiso. Vorrebbe condividere la sua gioia con Harrigan, ma l’anziano gli confida di essere molto scettico e prevenuto su questi nuovi “aggeggi”.

Fra le consuetudini di Harrigan c’è quella di regalare per le ricorrenze dei “gratta e vinci” alle persone che lavorano per lui, cosa che naturalmente comprende anche Craig. E proprio il “gratta e vinci” regalatogli consente a Craig di riscuotere 3.000 dollari. Con una parte della somma il ragazzo decide di regalare un Iphone ad Harrigan, che però ne rimane perplesso.

Solo quando Craig gli mostra come è possibile collegarsi in tempo reale col mondo là fuori, come per esempio con la Borsa di New York, l’asso della finanza cambia opinione. Negli incontri successivi Harrigan, che ha preso sempre più dimestichezza con il suo cellulare, confida al giovane tutte le sue perplessità sugli smartphone, oggetti che in mano alle persone sbagliate possono diventare davvero molto pericolosi. Craig, che reputa le riflessioni del suo anziano amico esagerate, sorride divertito.           

Non troppo tempo dopo, un pomeriggio, il ragazzo trova l’anziano morto a causa di un attacco cardiaco nel suo salone, con in mano ancora il cellulare attivo. Craig deve affrontare così un nuovo lutto, e nel momento dell’ultimo saluto, senza che nessuno lo veda, per calmare il suo dolore infila nella tasca della giacca con cui l’anziano è stato vestito il cellulare che gli ha regalato, acceso.

Passano i giorni e il ragazzo scopre che Harrigan gli ha lasciato un lauto fondo fiduciario per consentirgli di fare tranquillamente l’università. Ma la sicurezza economica a volte non basta a tutelare dagli eventi più duri e spiacevoli che la vita ci riserva. Così Craig deve affrontare da solo il bullismo violento di Kenny Yankovich (Cyrus Arnold), irrisolto e scostante compagno di scuola che è convinto che sia stato lui ad informare i professori della sua attività di spacciatore.

Dolorante e preso dallo sconforto, Craig fa il numero di Harrigan che incredibilmente trova attivo, nonostante l’uomo sia stato seppellito già da qualche tempo. Quando parte la segreteria gli lascia istintivamente un messaggio raccontandogli le violenze di Yankovich.

Il giorno dopo Craig viene informato che il suo aguzzino è morto cadendo violentemente a terra, mentre tentava di scappare di casa…

Con una sceneggiatura, scritta dallo stesso Hancock, questa pellicola riporta in maniera quasi integra il suo spirito graffiante e angosciante del racconto originale. Così come lo scritto di King, anche questo film è un’ottima metafora dei pericoli che un uso sconsiderato, superficiale e aggressivo del cellulare – che in pochi istanti ci consente di collegarci al mondo intero – può provocare.

La pandemia e i fatti di cronaca quotidiani ci ricordano quanto questo aspetto oscuro del nostro cellulare sia reale. D’altronde, lo dice anche il grande Vasco Rossi: “Al diavolo non si vende …si regala”.

“Dolce veleno” di Noel Black

(USA, 1968)

Nel 1966 Stephen Geller (classe 1940) pubblica il suo primo romanzo, il thriller noir “She Let Him Continue”, che riscuote un discreto successo di pubblico e critica. Il libro racconta, in maniera originale, la storia di Dennis, un giovane che ha passato molti anni in un riformatorio per aver dato fuoco alla casa in cui abitava, uccidendo involontariamente la zia che lo ospitava.

Due anni dopo Noel Black dirige l’adattamento cinematografico la cui sceneggiatura è firmata da Lorenzo Semple Jr., fra i più capaci autori del periodo e autore di script di pellicole come: “Papillon” (1973) di Franklin J. Schaffner che scrive assieme a Dalton Trumbo, “Perché un assassino” (1974) di Alan J. Pakula, “Detective Harper: acqua alla gola” (1975) di Stuart Rosenberg e “I tre giorni del condor” (1975) diretto da Sidney Pollack, per il quale vince l’Oscar.

Dennis Pitt (un bravo e ambiguo Anthony Perkins) esce finalmente dal riformatorio dove ha passato la gran parte dell’adolescenza e la maturità da poco raggiunta. A 15 anni ha incendiato la casa in cui viveva assieme alla zia, che è rimasta vittima del rogo.

Il dottor Morton Azenaur (John Randolph) che è il direttore dell’istituto nel quale Dennis è stato rinchiuso, oltre a comunicargli le ferree regole della sua nuova libertà – che è ovviamente vigilata – gli ricorda che fuori da quelle mura la sua incontenibile fantasia difficilmente verrà apprezzata.

Anche se Azenaur gli ha trovato un posto in una falegnameria nei dintorni dell’istituto, Dennis preferisce trasferirsi a Winslow, una piccola cittadina della provincia americana, dove trova lavoro in uno stabilimento chimico.

Pitt non sopporta come la fabbrica scarichi impunemente i suoi rifiuti nel grande fiume della città e così decide di boicottarla, nonostante il suo burbero capo Bud Munsch (Dick O’Neill) lo tenga costantemente d’occhio. Intanto, un pomeriggio, nel parco pubblico Dennis osserva l’esibizione delle majorette della cittadina e rimane incantato dalla porta bandiera, la giovane e prorompente liceale Sue Ann Stepanek (Tuesday Weld).

Decide così di avvicinarla, fingendosi un agente della CIA in incognito, pronto a sferrare un attacco alla fabbrica nella quale lavora. Sue Ann rimane affascinata da Dennis, credendogli subito e assecondandolo senza remore, ma…

Originale thriller noir che ci racconta come sia difficile uscire dalla gabbia che, nel bene e soprattutto nel male, la società ci impone e ci mette addosso, e per questo alla fine siamo fin troppo vulnerabili alle manipolazioni altrui.

Grazie anche all’ottima interpretazione dei due protagonisti Anthony Perkins e Tuesday Weld, oltre alla sceneggiatura di Semple Jr., questa pellicola è un piccolo e sfizioso gioiellino noir che resiste al tempo.

Per la chicca: il dolce veleno del titolo – che è quello anche della versione originale “Pretty Poison” – si lega ad una delle scene finali del film.

“L’appartamento” di Billy Wilder

(USA, 1960)

C.C. Baxter (uno straordinario Jack Lemmon) è uno degli oltre trentamila dipendenti della compagnia assicurativa che ha la sua sede in uno dei grattacieli più grandi nel centro di Manhattan. Per evitare inutili e prolissi affollamenti, per tutti i numerosissimi impiegati – che superano in numero gli abitanti di Gallarate… – gli orari di entrata e di uscita sono scaglionati.

Nonostante questo, e perché alla propria anonima scrivania si può lavorare e basta in piena solitudine, uno dei maggiori punti d’incontro fra i dipendenti sono gli ascensori stessi, manovrati da un apposito personale. Baxter, quando ci riesce, preferisce sempre prendere quello alla cui pulsantiera c’è Fran Kubelik (Shirley MacLaine) per la quale non nasconde un debole.

Ma oltre Miss Kubelik, Baxter ha altri importanti progetti, come quello di diventare il prima possibile dirigente. Avendo intuito che le sue capacità probabilmente potrebbero non bastare, Baxter ha trovato, quasi per caso, una strada alternativa.

Visto che non è sposato e vive da solo, presta il suo piccolo appartamento in affitto ad alcuni dirigenti che lì possono consumare i propri incontri extraconiugali. I problemi inizieranno quando l’alto dirigente Jeff D. Sheldrake (Fred MacMurray) gli chiederà l’appartamento per i suoi incontri clandestini proprio con Miss Kubelik…

Billy Wilder scrive, assieme a I.A.L. Diamond, e poi dirige una delle commedie sentimentali più divertenti e al tempo stesse graffianti della seconda metà del Novecento. Perché il grande cineasta punta il dito sull’esasperante omologazione che la nuova rivoluzione industriale del secondo dopoguerra provoca negli individui, che diventano dei semplici e scoloriti numeri di matricola, appartenenti a mastodontiche società i cui vertici sono distanti e sconosciuti da tutti.

Questo calzante punto di vista, tema centrale dell’economia occidentale degli anni Cinquanta e Sessanta, accomuna questo film al toccante “I giganti uccidono” diretto da Fielder Cook nel 1956, che già nel decennio precedente lo anticipava.

Sempre come ispirazione, lo stesso Wilder dichiarò più di una volta che, fra le varie pellicole, quella che gli aveva fatto venire l’idea del soggetto era stata soprattutto lo splendido “Breve incontro” diretto da David Lean nel 1945, in cui i protagonisti hanno un incontro fugace in un appartamento “prestato” da un collega di lui. 

In originale in soggetto Wilder lo aveva pensato per una commedia teatrale, ma agli inizi degli anni Sessanta era impossibile ricreare in teatro una scenografia così imponente per degli uffici quasi senza fine. Su questo lo stesso Wilder dichiarò, inoltre, che per rendere sconfinato e impersonale il luogo di lavoro di C.C. Baxter, durante le riprese vennero usati specchi, mobili di dimensioni ridotte e persone affette da nanismo.  

La redenzione di C.C. Baxter ha a sua volta ha ispirato molte pellicole, fra le quali spicca senza dubbio “Harry ti presento Sally” diretta da Rob Reiner nel 1989, la cui scena finale calca di fatto, con canzone di fine anno e corsa verso l’amore della propria vita, quella di questo film.

La pellicola riscuote un grande successo di pubblico e vince premi in tutto il mondo: alla Mostra del Cinema di Venezia Shirley MacLaine vince la Coppa Volpi per la sua interpretazione, così come il Golden Globe assieme a Lemmon. In USA il film colleziona 10 candidature agli Oscar aggiudicandosene 5: miglior film, miglior regista, miglior sceneggiatura originale, miglior montaggio e migliore scenografia in bianco e nero.

Infine, non si possono non ricordare nella nostra versione i grandi artisti che donarono le voci ai protagonisti quando il film approdò nelle nostre sale, a partire da Giuseppe Rinaldi che doppia magistralmente Lemmon/C.C. Baxter il cui soprannome in italiano è “Ciccibello” mentre in originale è “Bud”, Maria Pia Di Meo doppia MacLaine/Bubelik e l’immortale Emilio Cigoli MacMurray/Shaldrake.      

Da vedere a intervalli regolari.  

“Buon compleanno Mr. Grape” di Lasse Hallström

(USA, 1993)

Peter Hedges (classe 1962) pubblica nel 1991 il romanzo “What’s Eating Gilbert Grape” che racconta, in maniera molto particolare, la drammatica storia di una famiglia della provincia rurale americana.

Due anni dopo Lasse Hallström, regista svedese ma ormai stabilitosi a Hollywood (dove ha firmato pellicole come “Chocolat” o “Le regole della casa del sidro”) dirige il suo adattamento cinematografico, la cui sceneggiatura è firmata dallo stesso Hedges.

Nella piccola cittadina di Eldora, nello stato dell’Iowa, tutti si conoscono da sempre. Ma la famiglia più chiacchierata è senza dubbio quella dei Grape, che vivono in una vecchia e malandata casa di campagna.

Il motivo è soprattutto la tragedia, consumatasi 17 anni prima, e le sue tristi conseguenze. Il signor Grape, infatti, si è impiccato nello scantinato della casa. La scomparsa del marito ha portato la signora Grape (Darlene Cates) a rifiutarsi di uscire di casa per rimanere tutto il giorno e tutta la notte seduta sul divano per vedere la televisione e per mangiare voracemente, ingrassando sempre di più.

I cinque figli, nonostante la giovane età, sono stati così costretti ad occuparsi della madre e gli uni degli altri. Il maggiore Gilbert (Johnny Depp), per portare i soldi a casa ha abbandonato gli studi per fare l’inserviente presso il grande negozio di alimentari di Eldora, dove si occupa anche delle consegne domiciliari.

Oltre che della madre e delle sue due sorelle, Amy (Laura Harrington) ed Ellen (Mary Kate Schellhardt), Gilbert si sente responsabile soprattutto di Arnie (uno stratosferico Leonardo DiCaprio) suo fratello minore, affetto da un ritardo cognitivo, che ha una incontenibile passione per l’alta cisterna dell’acquedotto della città.

Fra i pochi che aiutano Gilbert c’è il suo amico Tucker Van Dyke (John C. Reilly), ottimo carpentiere, che cerca in ogni modo di tenere in piedi la vecchia casa. Nel mondo di Gilbert ha un ruolo importante anche la signora Carver (Mary Steenburgen), assidua cliente del negozio di alimentari, che vuole regolarmente le consegne a casa visto che ha una relazione extraconiugale con lo stesso Gilbert.

Annualmente a Eldora passa una carovana di camper, cosa che rappresenta un vero e proprio evento per Arnie. Proprio accompagnando il fratello sulla statale per vedere la lunga fila di veicoli, Gilbert incontra Becky (Juliette Lewis) una ragazza che gira il Paese nel camper della nonna…

Insolita e struggente pellicola intimista, ottimamente diretta, che ci parla di come l’amore, quello vero, sia fondamentale nella vita. In un mondo fatto troppo spesso di egoismo, vigliaccheria e cattiveria, solo chi è veramente disposto ad amare e farsi amare, sapendo anche lasciare andare le cose – anche quelle più devastanti – forse alla fine può sopravvivere.

Con un ottimo cast composto da bravissimi giovani attori allora poco conosciuti – ad esclusione di Depp già abbastanza famoso – che però nel corso degli anni sono diventati delle vere icone di Hollywood, questo fil merita sempre di essere visto.

Su tutti però deve essere sottolineata la superba interpretazione di Leonardo DiCaprio che riceve, giustamente, la candidatura all’Oscar come migliore attore non protagonista, che però inspiegabilmente poi non vince.

“Maria e l’amore” di Lauriane Escaffre e Yvo Muller

(Francia, 2022)

Maria (una bravissima Karin Viard) è una donna di mezz’età che lavora come addetta alle pulizie. E’ sposata da molti anni con Philippe (Philippe Ucham) con il quale ha avuto Charlotte (Pauline Clément), la loro unica figlia.

Il rapporto con Charlotte però si è bruscamente interrotto quando la ragazza, qualche mese prima, ha deciso di andare a vivere con il migliore amico e coetaneo del padre. Indignato e scandalizzato, Philippe, ha deciso di chiudere tutti i canali di comunicazione con la figlia ed il suo ex amico, costringendo suo malgrado Maria a fare lo stesso.

Fra i lavori che la sua agenzia le trova, Maria inizia quello per le pulizie presso la storica Accademia delle Belle Arti di Parigi. L’ambiente è molto particolare e Maria all’inizio si sente letteralmente un pesce fuor d’acqua. La responsabile amministrativa dell’istituto Florence Desnoyers (la stessa regista e sceneggiatrice Lauriane Escaffre) le indica come referente per qualsiasi problematica il custode dell’edificio Hubert (Grégory Gadelbois), figlio della storica precedente custode dell’Accademia.

L’atmosfera, il contatto diretto con gli studenti e, soprattutto, con le loro opere risveglia in Maria una parte emotiva che credeva sopita per sempre. Per aiutare una studentessa a terminare la prova per un esame, Maria passa la notte a lavorare assieme a Hubert. Fra i due nasce un’affinità che turba Maria, che ogni volta che rientra a casa, la trova sempre più “stretta” e “povera” emotivamente.

Così la donna decide di mettere da parte le opinioni del marito e tentare di riallacciare i rapporti con la figlia, decidendo, inoltre, di posare senza veli per gli studenti…

Lauriane Escaffre e Yvo Muller scrivono e dirigono una deliziosa commedia sentimentale centrata su una donna che ha passato la propria esistenza convinta di non meritare niente di più ma che, grazie all’amore per l’arte e a quello l’arte suscita negli individui disposti a viverla senza remore o fronzoli radical chic, comprende finalmente se stessa.

Un piccolo gioiellino che ci riconcilia con il mondo.

“Orion e il buio” di Sean Charmatz

(USA/Francia, 2024)

Tratto dal libro illustrato “Orion and the Dark” firmato da Emma Yarlett e pubblicato nel 2014, questo sfizioso film d’animazione ci parla dell’atavica paura del buoi che tutti gli essere umani, prima o poi, hanno almeno una volta provato nella loro esistenza.

E’ fondamentale sottolineare come la sceneggiatura è stata firmata da Charlie Kaufman, visionario e geniale scrittore di Hollywood, che ha al suo attivo script di film come “Se mi lasci ti cancello” di Michel Gondry o “Essere John Malkovich” di Spike Jonze o il romanzo “Formichità“.

Perché il viaggio nelle sue paure che compie il piccolo Orion – ed assieme a lui noi spettatori – è fantastico ma anche spiazzante e affatto lineare, proprio nella maniera che ama Kaufman. Perché una notte, stanco di essere biasimato e insultato il Buio, proprio lui, si ferma nella stanza di Orion che, terrorizzato, si appresta a passare l’ennesima notte insonne in preda alle sue innumerevoli paure, su cui svetta quella per l’oscurità.

E così il Buio gli propone di seguirlo per 24 ore e assistere a tutte le cose belle che compie nel suo infinito giro intorno al mondo, lasciandosi sempre la luce alle spalle. Ma Orion, che accetta quasi a forza, non è un bambino qualsiasi, e così i suoi dubbi e le sue angosce rischieranno di influenzare anche il Buio e i suoi antichi collaboratori…

Sfiziosa e divertente commedia d’animazione che ci parla del bene e del male, e di come sia importante conoscere ed accettare i propri limiti, e di come nella vita siano importanti le cose belle e quelle meno belle, che hanno il fondamentale compito di ricordarci quanto siano importanti le prime.

“Gli ordini sono ordini” di Franco Giraldi

(Italia/Francia, 1972)

Tratto dall’omonimo racconto di Alberto Moravia, questo film ci racconta la storia di una donna italiana che, come tante, è ingabbiata nel suo matrimonio patriarcale.

Giorgia (Monica Vitti) è “felicemente” sposata con Amedeo (Orazio Orlando), direttore di banca. Hanno una bella casa e una routine ben stabilita dove lui esce di casa per andare in banca, e lei si occupa della casa, per poi accudirlo quando torna la sera.

Tutta l’esistenza della donna ruota intorno ai bisogni, anche quelli più banali, del marito ma lei, apparentemente, non sembra soffrirne. Un giorno, però, nella testa di Giorgia risuona una voce maschile decisa e al tempo stesso suadente, che le ordina di compiere degli atti impensabili per lei, come prendere l’auto e fermarsi sulla spiaggia per fare l’amore con un ragazzo che sta ridipingendo le cabine di uno stabilimento balneare.

Sconvolta, Giorgia torna a casa e racconta tutto a Amedeo, che però non le crede. La voce torna insistente nella sua testa e la costringe a lasciare la tanto “amata” casa. La donna torna così della madre, una delle sensali più famose della zona, che le ricorda però l’importanza del matrimonio: senza il quale una donna non ha di fatto alcuna rilevanza sociale.

Rassegnata, la donna si allontana e, mentre vaga incerta, incontra Nancy (Claudine Auger) una studiosa di tradizioni vocali che gira la regione registrando canzoni, poesie e filastrocche tradizionali. Le due decidono di convivere e Giorgia diviene la sua assistente. Casualmente le due assistono ad una performance pubblica dell’artista Mario Pasini (Gigi Proietti) di cui subito Giorgia si innamora.

La donna decide così di convivere con l’artista. Se il primo periodo sembra idilliaco, lentamente però lei si ritrova in un meccanismo sentimentale e materiale del tutto simile a quello che aveva con Amedeo, e così quella vocina torna a farsi sentire…

Bisogna riconoscere che, nonostante il grande cast artistico e gli autori della sceneggiatura che sono nientemeno che Tonino Guerra e Ruggero Maccari, questa pellicola ha dei limiti strutturali che la rendono meno graffiante e pungente di quello che avrebbe potuto essere.

Ma è giusto ricordarla perché, oltre cinquant’anni fa, quando il nostro Paese aveva appena introdotto la legge sul Divorzio (1970) la nostra società e, soprattutto la maggior parte delle donne italiane, non erano preparate. Perché dopo secoli di educazione patriarcale, poche sapevano esattamente affermare le proprie esigenze e i propri diritti, pubblici e privati.

Così, rivedendo questo film, apprezziamo sempre di più quel “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi che ci racconta una storia che sembra lontana nel tempo, ma che in realtà non lo è. Nonostante una regia e una trama un pò troppo legate al momento storico in cui venne realizzato, “Gli ordini sono ordini” rimane un originale e prezioso documento storico dell’evoluzione e dei cambiamenti del nostro Paese.

Nel cast anche Corrado Pani, nella parte di un malvivente che accetta di dare un passaggio a Giorgia.

“Benny & Joon” di Jeremiah S. Chechik

(USA, 1993)

Questa pellicola, apparsa sul grande schermo agli inizi degli anni Novanta, è divenuta nel corso del tempo una delle più rappresentative del giovane cinema americano di quel decennio.

E questo non solo perché alcuni dei suoi protagonisti, a partire da Johnny Depp, sono diventati vere e proprie star di Hollywood – come anche Julianne Moore – ma perché parla con sincerità e lucidità della generazione che quel decennio lo stava affrontando da poco più che adulta.

Inoltre, mi è già capitato di sottolineare come nel mondo anglosassone, e soprattutto nella cultura degli Stati Uniti, parlare di disabilità sia molto più semplice e onesto, rispetto che nella nostra, dove è difficile per qualcuno evitare compassione o pietà, che spesso nascondono poi ignoranza e pregiudizi.

Così, questa pellicola, ci parla senza ipocrisie dell’autismo e delle sue problematiche nella vita quotidiana di una ragazza di vent’anni.

In una piccola cittadina nella provincia degli Stati Uniti vivono Benny (Aidan Quinn) e Joon (Mary Stuart Masterson) Pearl. Abitano da soli in una grande casa sul fiume, perché poco più di dieci anni prima i loro genitori sono morti in un incidente automobilistico.

Benny è il proprietario di un’officina e la sua vita consiste, soprattutto, nel lavorare e badare a sua sorella minore Joon, che è afflitta dai disturbi dello spettro autistico. Col passare del tempo Benny ha sacrificato tutta la sua vita personale per la sorella, ma lo sente come un dovere irrinunciabile che i suoi genitori idealmente gli hanno lasciato.

Uno dei pochi svaghi del ragazzo è la partita settimanale a poker con gli amici, fra cui spicca Eric (Oliver Platt) il suo aiutante in officina. Le partite però non si giocano a soldi, ma a beni che ogni giocatore è pronto a scommettere. Proprio durante una di queste Joon, approfittando dell’assenza temporanea del fratello, decide di giocare una mano alla fine della quale vince la posta in gioco: Sam (Johnny Depp) il cugino “strambo” di Mike (Joe Grifasi), uno degli amici del fratello.

Benny è così costretto a portarsi a casa il ragazzo che, col passare del tempo, allaccerà con Joon un rapporto sempre più profondo. Intanto, nel locale dove va a fare colazione, Benny incontra Ruthie (Julianne Moore) un ex attrice di film dell’orrore che ha abbandonato i suoi sogni di gloria per fare la cameriera e la portinaia…

Commedia originale che ci regala dei veri momenti di poesia, soprattutto grazie all’interpretazione di Depp che cita e richiama le gag più famose di grandi artisti come Charlie Chaplin e Buster Keaton. Scritto da Lesley McNeil e Barry Berman, “Benny & Joon” ci ricorda quanto le piccole cose della vita siano fondamentali come le grandi, e che l’amore, la tolleranza e la fiducia sono le cose che ci permettono di consumare un’esistenza degna di questo nome.

“Povere creature!” di Yorgos Lanthimos

(USA/UK/Irlanda, 2023)

Nel 1992 lo scozzese Alasdair Gray (1934-2019) pubblica il romanzo surreale e gotico “Poor Things”, che nel nostro Paese viene pubblicato prima col titolo “Poveracci!” e successivamente con quello “Vita e misteri della prima donna medico d’Inghilterra”.

Il regista greco Yorgo Lanthimos (già autore di pellicole caustiche e assai originali come “The Lobster” del 2015 e “La favorita” del 2018) ne dirige l’adattamento cinematografico con la sceneggiatura scritta da Tony McNamara, autore di fiducia dello stesso regista nonché coautore dello script di “Crudelia“.

Nei primi anni del Novecento, il dottor Godwin “God” Baxter (un davvero bravo Willem Dafoe) è uno dei più rinomati scienziati e chirurghi di Londra. Oltre ad insegnare all’Università, Baxter ha un laboratorio e una funzionale ed efficiente camera operatoria nella sua residenza privata.

Sul suo corpo e sul suo viso, Baxter, porta le terribili cicatrici degli esperimenti che suo padre, anche lui medico chirurgo e scienziato rinomato, gli fece sin dalla tenera età per portare a termine i propri esperimenti nel nome della ricerca.

Godwin Baxter ama incondizionatamente la scienza e così, per sviluppare i suoi studi, accetta in casa i corpi di sconosciuti appena morti che, in cambio di qualche sterlina, ogni tanto qualcuno senza scrupoli gli porta.

E proprio su quello di una giovane donna in stato interessante, che si è buttata nel Tamigi poche ore prima, compie un esperimento senza precedenti. Nel corpo della suicida inserisce il cervello del suo feto. L’intervento riesce e così per casa Baxter si aggira la giovane donna, con la mente e la coscienza di un neonato, che lui decide di chiamare Bella (una bravissima Emma Stone).

Come aiutante personale Baxter sceglie il suo studente Max McCandles (Ramy Youssef) dandogli il compito di seguire e annotare attentamente ogni progresso della ragazza. Quando Bella, però, scopre il sesso attraverso la masturbazione, le cose per McCandles si complicano. Il giovane studente, infatti, non riesce più a mantenere quel distacco necessario all’analisi scientifica.

Godwin Baxter ha un’idea: far sposare i due e farli vivere nella sua grande magione, impedendo così alla ragazza definitivamente di allontanarsi. Per stilare il contratto matrimoniale fra lui e il suo studente, Baxter chiama il legale Duncan Wedderburn (un ottimo Mark Ruffalo). Il nuovo venuto, impenitente libertino, compresa la particolare situazione di Bella, la esorta a fuggire con lui a Lisbona.

Bella accetta entusiasta e alla fine anche lo stesso Godwin non può che darle il suo benestare. I due amanti così arrivano in Portogallo dove esplorano ogni angolo dei loro corpi. Ma Bella, oltre al sesso, ama la conoscenza e così, mentre Duncan riposa esausto, lei vaga per Lisbona dove la sua mente giovane e fresca si espande.

La cosa, però, inizia a creare delle profonde gelosie in Duncan, scapolo impenitente e donnaiolo con sulla coscienza non poche giovani donna “traviate”. E col passare del tempo e delle esperienze la libertà di Bella diventa insostenibile per Duncan, che alla fine la costringe a seguirlo su una lunga crociera nel Mediterraneo, dove lei “finalmente”, non potrà più allontanarsi.

Sulla nave la ragazza conosce Martha von Kurtzroc (Hanna Schygulla) e Harry Astley (Jerrod Carmichael) che contribuiranno ad aprirle ancora di più gli orizzonti mentali ed emotivi. Anche per questo, la ragazza donerà tutti i soldi di Duncan ai poveri, cosa che li costringerà ad essere sbarcati come clandestini a Marsiglia.

Raggiunta faticosamente Parigi, Bella inizierà a lavorare in un bordello per mantenersi e per comprendere ancora di più l’umanità, mentre Duncan, ferito nell’orgoglio, passerà definitivamente da attraente e fatale playboy a patetico e meschino innamorato rifiutato. Ma un giorno arriva a Bella la lettera di Goodwin in fin di vita…

Cattivissima e originale pellicola gotica che ci parla in maniera diretta e senza sconti, nella tradizione del suo regista, della situazione della donna nella società contemporanea. Anche se la storia è ambientata oltre un secolo fa, Bella deve continuamente subire, come accade fin troppo spesso ancora oggi, le scelte degli uomini e delle donne che aderiscono al più feroce patriarcato, lei che vuole più di ogni altra cosa la conoscenza.

E alla fine appariranno addirittura meno meschini quelli che la pagheranno per avere il suo corpo rispetto a quelli che dicono di amarla, ma che in realtà vogliono solo controllarla e possederla, perché la cosa che li terrorizza di più, senza dubbio, è una donna libera moralmente.

Personalmente reputo molto più efficace e segnate, soprattutto in relazione alla discriminazione di genere, questa pellicola surreale e claustrofobica – grazie anche all’ottima regia – rispetto alla tanto osannata “Barbie” che trovo, invece, molto più superficiale e furbetta.

Il film vince il Leone d’Oro alla Festa del Cinema di Venezia 2023, incassa 11 candidature agli Oscar e 7 ai Golden Globe, premio che Emma Stone conquista assieme a numerosi altri in tutto il mondo.

Da vedere.

“Everything Everywhere all at Once” di Daniel Kwan e Daniel Scheinert

(USA, 2022)

Il rapporto fra genitori e figli, raramente, è sempre sereno. Se i figli, per loro natura, a partire dall’adolescenza stentano a capire i propri genitori, anche questi hanno serie difficoltà nel comprendere i loro bambini che stanno diventando adulti.

Su questo ancestrale conflitto generazionale si è detto e raccontato tanto nel corso del tempo, e così diventa sempre più difficile farlo senza rischierare di essere noiosi o ripetitivi. Ma Daniel Kwan e Daniel Scheinert ci sono riusciti, scrivendo prima e dirigendo poi una pellicola straordinaria, onirica e surreale.

Evelyn Quan Wang (Michelle Yeoh) è emigrata dalla Repubblica Popolare Cinese negli Stati Uniti per cercare una vita migliore. A convincerla è stato, anni prima, il suo giovane fidanzato e ora marito Waymond (Ke Huy Quan, che da piccolo ha partecipato alle pellicole cult “Indiana Jones e il tempio maledetto” e “I Goonies“) col quale ha avviato una lavanderia a gettoni.

La loro figlia adolescente Joy (Stephanie Hsu) da tempo ormai sta cercando di confessarle la propria omosessualità e, sopratutto, che la sua “migliore amica” Becky è in realtà la sua compagna. Ma Evelyn certe cose proprio non le vuole vedere, visto poi che suo padre Gong Gong (James Hong, storico comprimario della TV americana e di Hollywood, che ha partecipato, tra le altre cose, al mitico “Grosso guaio a Chinatown“) che era contrario alla sua fuga d’amore con Waymond, sta arrivando per una tanto attesa visita di cortesia da Hong Kong.

Ma non basta: l’Internal Revenue Service – paragonabile in tutto e per tutto alla nostra Agenzia delle Entrate – attraverso gli occhi glaciali e implacabili della sua integerrima ispettrice Deirdre Beaubeirdre (una bravissima e cattivissima Jamie Lee Curtis) sta eseguendo un controllo fiscale nel quale sono emerse alcune gravi irregolarità. Irregolarità che però Evelyn proprio non condivide visto che non riesce a comprenderle.

Le cose che le contesta Beaubeirdre non sembrano aver senso, fatto che la indispone profondamente, visto che lei deve aver sempre tutto ben chiaro e sotto controllo. Forse per questo Waymond ha preparato le carte per divorziare, carte che però stenta a mostrale. Ma, proprio quando l’ispettrice sembra concedere l’ennesima proroga, il mondo di Evelyn si spacca in infiniti multiversi, tutti messi in pericolo dal terribile Jobu Tupaki…

Scintillante e frenetica pellicola visionaria che ci ricorda quanto siano importanti gli affetti cari e sinceri, e come i genitori – anche con sforzi al limite dell’umano – dovrebbero diventare quegli archi dai quali scoccare le frecce che sono i loro figli, come diceva nel suo splendido “Il profeta” Khalil Gibram. Farlo, però, può diventare l’avventura più devastante e massacrante di tutte, ma al tempo stesso anche la più incredibile e indimenticabile della propria esistenza.

Fra i numerosi premi che questo film indipendente ha vinto il tutto il mondo – quasi 400… – ci sono anche 7 Oscar – su 11 candidature – fra cui miglior film, miglior sceneggiatura, miglior attrice protagonista a Michelle Yeoh, miglior attrice non protagonista a Jamie Lee Curtis, e miglior attore non protagonista a Ke Huy Quan.

Da vedere, sia da figli che da genitori.

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