“Lo spaventapasseri” di Jerry Schatzberg

(USA, 1973)

Sul bordo di una strada, persa fra le colline dell’immensa campagna degli Stati Uniti, si incontrano due sconosciuti in cerca di un passaggio: Max (Gene Hackman) e Francis Lionel (Al Pacino). Mentre il primo è un rude e volitivo ex detenuto con in testa l’idea che gli farà cambiare la vita e cioè metter su un autolavaggio a Pittsbugh, il secondo è un pacifico ex marinaio che vuole solo tornare a Detroit dove ha lasciato la sua ragazza incinta, sei anni prima.

I due caratteri così opposti diventano subito complementari, mentre Max ce l’ha col mondo intero ed è pronto a venire alle mani con tutti, grazie anche al suo fisico massiccio e possente, Lionel è invece un minuto e placido ottimista che è convinto, per esempio, che gli spaventapasseri facciano ridere di gusto gli uccelli, senza terrorizzarli, motivo per il quale poi lasciano in pace il campo coltivato sottostante.

Max decide così’ di fare diventare Lionel il suo socio nell’autolavaggio, ma prima di arrivare a Pittsburgh, dove lui ha in banca i soldi che gli consentiranno di aprire l’attività, decide di passare a Denver per trovare la sua ex Coley (Dorothy Tristan). Ma già prima di arrivare a Detroit, il destino impartisce una dura lezione a Lionel, ricordandogli quanto sia pericoloso il lato più ingenuo e superficiale del suo carattere…

Grazie anche ai due grandissimi protagonisti Hackman e Pacino, questa pellicola è una delle più significative del cinema americano indipendente degli anni Settanta. Dopo il sogno dei Sessanta, la dura realtà sbatte prepotentemente contro le speranze di una generazione che credeva davvero nel cambiamento e nel riuscire a realizzare i propri desideri, anche quelli più semplici e banali. Il risveglio così è senza sconti per nessuno.

Schatzberg, come avevano fatto qualche anno prima John Schlesinger nel suo splendido “Un uomo da marciapiede” o Bob Rafelson nel suo “Cinque pezzi facili“, ci tratteggia una società occidentale che inizia a fare i conti con se stessa, conti che per i più deboli, economicamente ma soprattutto emotivamente, non tornano più. E’ una società che ormai non concede loro spazio né pietà.

Scritto da Garry Michael White, con l’ottima fotografia curata da Vilmos Zsigmond (che è stato il responsabile della fotografia di pellicole come “Un tranquillo weekend di paura” di John Boorman, “Sugarland Express” e “Incontri ravvicinati del terzo tipo” di Steven Spielberg, “Obsession – Complesso di colpa” e il cult “Blow Out” di Brian De Palma” o “Il cacciatore” di Michael Cimino) questo film, fra gli altri premi, ha vinto anche la Palma d’Oro al Festival di Cannes.

Da vedere.

“Gente allegra” di Victor Fleming

(USA, 1942)

Nel 1942 il cineasta Victor Fleming, regista di pellicole memorabili come “Via col vento” o “Il mago di Oz”, dirige l’adattamento cinematografico del romanzo di John Steinbeck “Pian della Tortilla“, pubblicato per la prima volta sette anni prima.

La sceneggiatura è firmata da John Lee Mahin e Benjamin Glazer, due storici autori di Hollywood, mentre il cast raduna tre fra i più noti attori del momento: Spencer Tracy, John Garfield e Hedy Lamarr.

Tracy è uno degli interpreti con cui Fleming ha più feeling, tanto da averlo già diretto in film come “Capitani coraggiosi” e “Il dottor Jekyll e Mr. Hyde”, e per questo gli viene affidato il ruolo del protagonista Pilon, il paisanos fulcro del gruppo di scansafatiche e bevitori incalliti che vive a Pian della Tortilla, sulle colline di Monterey, in California.

All’altro attore che va per la maggiore all’epoca, John Garfield (la cui carriera qualche anno dopo, a causa delle sue simpatie verso il Partito Comunista, verrà devastata dalla famigerata “caccia alla streghe” maccartista) viene assegnato il ruolo del coprotagonista Danny, che nella nostra versione dell’epoca prende il nome di Daniele.

La star femminile è Hedy Lamarr (1914-2000) il cui nome vero era Hedwig Eva Maria Kiesler, nota ai più per essere stata la prima attrice a posare completamente nuda in un film (“Estasi” diretto da Gustav Machatý nel 1931), ma anche ottima attrice e grande inventrice: studentessa di Ingegneria presso l’Università di Vienna, trasferitasi negli USA, durante la Seconda Guerra Mondiale, studiò e brevettò un sistema per l’individuazione dei sommergibili tedeschi, sistema che oggi è alla base del wi-fi.

Alla Lamarr (cui poi Mel Brooks dedicherà un delizioso gioco di parole nel suo “Mezzogiorno e mezzo di fuoco“) viene affidato il compito di impersonare Dolores Ramirez, l’unica in grado di far battere il cuore di Danny.

Fra sotterfugi ed espedienti, più o meno leciti, vivono a Pian della Tortilla un gruppo di paisanos – i più antichi abitanti della California, con ancora sangue spagnolo nelle vene – nullatententi capitanati dallo scaltro Pillon. Le cose cambiano quando Danny riceve in eredità dal nonno due case. Diventa così un proprietario e stenta ad andare d’accordo con i suoi amici che invece vogliono spartire con lui i suoi beni.

Danny sarà diviso fra la sua antica e solida amicizia con Pilon e l’amore che gli scoppia nel cuore per Dolores, una ragazza di Salinas, che vorrebbe sposarlo. Intorno a loro ruotano le storie degli altri paisanos, fra cui quella del Pirata (Frank Morgan, che aveva interpretato proprio il famigerato mago di Oz nell’omonimo film di Fleming) un anziano vagabondo che vive con alcuni cani randagi come lui, e che nasconde un segreto nel cuore…

Anche se il film è girato tutto in studio, sia gli interni che gli esterni, e Tracy e la Lamarr sono truccati pesantemente per sembrare dei veri paisanos, questa pellicola possiede il suo fascino e mantiene, almeno fino al finale, lo spirito del romanzo di Steinbeck. D’effetto, ancora oggi, la storia proprio del Pirata.

La mano pesante della produzione, allora assai perbenista e ipocrita, obbligò sceneggiatori e regista a scostarsi dall’epilogo originale dello splendido libro di Steinbeck per offrire al pubblico – ritenuto evidentemente immaturo e assai ingenuo – un lieto fine che accontentasse tutti, facendo tornare a casa gli spettatori felici, e forse …evitandogli di pensare troppo.

Nonostante ciò “Gente allegra” – il cui titolo in italiano ammicca al vecchio proverbio che recita nella seconda parte: “…Dio l’aiuta!” – merita comunque di essere visto sia per la magia e il fascino della storia, che per apprezzare la bravura di un grande attore come Spencer Tracy, forse dimenticato da troppi.

“Il collezionista di carte” di Paul Schrader

(USA, 2021)

Paul Schrader (classe 1946) è uno dei più importanti autori cinematografici americani della sua generazione. Ha firmato script di film come “Taxi Driver”, “Toro scatenato” e “L’ultima tentazione di Cristo” diretti da Martin Scorsese (che cooproduce questo film); “Obsession – Complesso di colpa” diretto da Brian De Palma; “American gigolò”, “Lo spacciatore” e “Affliction” di cui lui stesso ha poi curato la regia.

Così come in molte sue pellicole, e soprattutto nell’ottimo “Lo spacciatore” del 1992 con protagonista Willem Dafoe (vero attore “feticcio” del regista), Schrader ci racconta la storia della dolorosa e cruda redenzione di un uomo che ha sbagliato.

William Tell (un bravo Oscar Isaac) è un giocatore d’azzardo professionista che vive delle proprie vincite girando per tutti i numerosi casinò degli Stati Uniti. E’ un uomo solitario che, una volta alzatosi dal tavolo verde, passa le sue giornate in auto e le sue nottate nei motel. William Tell è un giocatore molto bravo e astuto, soprattutto perché è in grado contare con esattezza le carte di ogni mano.

Se legalmente è vietato farlo, lui viene tollerato perché si accontenta di piccole vincite raggiunte le quali se ne va senza attirare attenzione o creare problemi. William Tell ha però uno strano vizio: in ogni stanza che occupa si porta una grande valigia piena di enormi lenzuola bianche con cui fodera tutto l’arredamento prima di riposare.

E’ una sua vecchia “abitudine” che risale a qualche tempo prima, anche prima degli otto anni e mezzo che ha passato in un carcere militare. Nella sua vita precedente, infatti, il suo nome era William Tillich ed era uno dei militari carcerieri di Abu Ghraib, la prigione irachena dove nel 2004 è scoppiato lo scandalo per le feroci torture e umiliazioni fisiche e mentali, a cui venivano sottoposti i prigionieri iracheni, da parte dei militari statunitensi.

Proprio scontando la sua lunga pena William ha imparato tutto sulle carte e sul gioco d’azzardo. Uscendo di prigione ha cambiato cognome e ha deciso di iniziare una nuova vita, anche se le atrocità che ha commesso non potrà mai dimenticarle.

Un giorno però, in un grande casinò, William incappa casualmente in una conferenza tenuta da John Gordo (Williem Dafoe) sui nuovi sistemi di sicurezza e sorveglianza che la sua ditta produce. Mentre si allontana viene fermato da un ragazzo che afferma di chiamarsi Cirk (Tye Sheridan), e che dice di averlo riconosciuto: era, insieme a suo padre, ad Abu Ghraib. Le foto in cui William e il padre di Cirk sorridevano accanto ai prigionieri vessati hanno fatto il giro del mondo, e così lui non ha avuto problemi ad individuarlo.

Il ragazzo gli confida che ha assistito anche lui alla conferenza di Gordo perché ha un piano per ucciderlo. Gordo, infatti, era uno degli ufficiali specialisti in torture efferate che dirigevano il carcere iracheno gestito dalla Forze Armate americane. A differenza dei soldati che vennero fotografati lui, come tutti i superiori e responsabili anche ad alto livello – fino alle soglie della Casa Bianca – non vennero puniti. Il padre di Cirk, invece come William, venne congedato con disonore e incarcerato. Una volta tornato a casa era ormai un alcolista violento e aggressivo. La madre di Cirk fuggì una notte lasciandolo solo col padre che qualche tempo dopo si sparò.

Il ragazzo vede in Gordo tutto il male che è gli è capitato nella vita e così, ingenuamente, vuole ucciderlo. William tenta in ogni modo di scoraggiarlo e decide di portarselo dietro in giro fra i casinò. Accetta poi l’offerta di La Linda (Tiffany Haddish), un’ex giocatrice professionista ora diventata una manager che trova finanziatori per i giocatori d’azzardo più famosi. L’idea è quella di guadagnare un pò di soldi da dare a Cirk affinché torni a studiare e soprattutto riallacci i rapporti con sua madre.

Abu Ghraib ha rovinato la vita di così tante persone che Will è disposto a tutto pur che non lo faccia con quella del ragazzo, che ha già pagato un prezzo altissimo nonostante la sua giovane età. Ma nella vita, spesso, non basta saper contare le carte di una mano…

Con una regia apparentemente scarna e razionale ma al tempo stesso carica di tensione – tipica di Schrader – assistiamo al viaggio allucinante di William Tell che tenta in ogni modo di sfuggire al proprio destino, destino che però fatalmente incontrerà a causa della sua natura.

Da ricordare anche le scenografie che per la maggior parte sono le reali e immense sale dei casinò americani, vere cattedrali dei sogni perduti di numerosissimi essere umani, che ci sottolineano come nelle guerre vince sempre il banco: i giocatori che materialmente le fanno difficilmente ne escono vincitori, indipendentemente dalla barricata che occupano.

Duro e senza sconti.

Per la chicca: il titolo originale è “The Card Counter”, e un giorno – …forse – capiremo quello in italiano.

“Kinamand” di Henrik Ruben Genz

(Danimarca/Cina, 2005)

Keld (Bjarne Henriksen) è un idraulico che la vita ha reso passivo e apatico, e anche la sua storica passione per gli scacchi sta inesorabilmente svanendo. Sua moglie Rie (Charlotte Fich) tenta in ogni modo di scuoterlo ma, al suo ennesimo rifiuto di partire per un viaggio turistico, decide di lasciarlo.

Keld rimane sorpreso e annichilito dal gesto della compagna e tenta in ogni modo di riconquistarla, ma si deve arrendere quando scopre che Rie ha iniziato a frequentare un altro uomo. Preso dallo sconforto l’uomo vende tutto l’arredamento del loro appartamento e si sistema su una brandina per dormire.

Non essendo abituato a cucinare, la sera inizia a mangiare nel piccolo ristorante cinese sotto casa. Col passare dei giorni fa la conoscenza del padrone Feng (Lin Kun Wu) tanto che quando nel locale si spacca una tubatura l’uomo gli propone un accordo: lui pagherà in contanti il materiale ma per la manodopera retribuirà Keld con una cena al giorno per qualche mese.

L’idraulico accetta e così la sua frequentazione del ristorante e della famiglia di Feng diventa ancora più assidua, tanto che un giorno il ristoratore gli fa una proposta molto particolare: visto che lui ormai è solo, in cambio di 4.000 dollari, potrebbe sposare sua sorella Ling (Vivian Wu) che ha bisogno a tutti i costi del visto per rimanere in Danimarca e non dover tornare in Cina.

Keld, più stupito che sconvolto, declina l’offerta ma quando si trova davanti al giudice per la separazione definitiva da Rie, e questo gli impone un risarcimento pecuniario di cui lui però non ha disponibilità, torna da Feng e accetta la sua offerta per la somma che deve all’ex moglie.

Saputa la notizia Bjorn (Johan Rabaeus), l’avventore del ristorante di Feng con il quale Keld ci si ritrova ogni sera, lo chiama ironicamente “Kinamand”, che in danese vuol dire “muso giallo”. Dopo la cerimonia inizia una convivenza molto formale e distaccata, visto poi che Ling non conosce il danese, convivenza che serve solo per i controlli dell’ufficio immigrazione.

Ma Keld, ogni giorno che passa, rimane sempre più affascinato dalla sua nuova moglie tanto che decide di imparare da solo il mandarino. Ma una giorno a casa si presenta Rie…

Scritto da Kim Fupz Aakeson (autore dello script di “In ordine di sparizione” di Hans Petter Moland) questa “piccola”, deliziosa e struggente pellicola indipendente danese ha un plot che ricorda molto quello di “Green Card – Matrimonio di convenienza” con Gérard Depardieu e Andie MacDowell scritto e diretto da Peter Weir nel 1990, ma con tutt’altre atmosfere.

Keld impersona, infatti, quel pregiudizio che l’Occidente, e l’Europa soprattutto, possiede verso l’Oriente e la Cina in particolare. Ma lo stesso pregiudizio, molto spesso, è destinato a sbriciolarsi sul fascino che una cultura e una tradizione millenaria possiedono e che molti di noi forse non conoscono davvero.

Un piccolo e struggente gioiellino in celluloide.

“The Fabelmans” di Steven Spielberg

(USA, 2022)

Dal 24 marzo del 1974, giorno in cui uscì nelle sale cinematografiche americane “Sugarland Express“, e soprattutto dal 20 giugno dell’anno successivo in cui venne presentato per la prima volta nei cinema “Lo squalo”, tutto il mondo del cinema, e non solo, conosce il nome e la carriera artistica di Steven Spielberg, vero Re Mida di Hollywood, considerato fra i più importanti creatori di sogni in celluloide degli ultimi cinquant’anni.

Ma non tutti conoscono la storia di Spielberg fino al suo esordio come regista televisivo che risale al 1969 a quello cinematografico che è appunto del ’74. E allora lo stesso regista ce la racconta in questa sua ottima pellicola scritta assieme a Tony Kushner.

Il 10 gennaio del 1952 Mitzi Fabelman (Michelle Williams) e Burt Fabelman (Paul Dano) portano il loro secondo genito Sammy, di sei anni, per la prima volta al cinema. Il film è “Il più grande spettacolo del mondo” diretto da Cecil B. DeMille. Sammy rimane letteralmente folgorato e, con i suoi giocattoli, tenta di riprodurre l’incidente più spettacolare e al tempo stesso cruento della pellicola.

Mitzi intuisce che il bambino vuole ripetere continuamente la scena che evidentemente lo ha spaventato, tentando di controllarla e così non averne più paura. Allora, invece che sacrificare continuamente i suoi giocattoli, presta al figlio la cinepresa amatoriale di Burt: lui potrà ripetere l’incidente una sola volta riprendendolo e così potrà rivederlo tutte le volte che desidera, senza danneggiare più i suoi giochi.

E così il piccolo Sammy – che ricorda tanto il piccolo Steven Spielberg… – ha per la prima volta fra le mani quello strumento che lo renderà uno degli uomini più famosi del suo tempo. Ma crescere non è semplice per nessuno, anche se da grandi si diventerà un genio del cinema, e se proviene da una famiglia di tradizione ebraica in un Paese dove l’antisemitismo è ancora molto radicato. E proprio attraverso le lenti delle sue cineprese Sammy (Gabriel LaBelle) vedrà il mondo evolversi e cambiare, così come la sua famiglia, le sue sorelle e naturalmente i suoi genitori.

Sarà poi suo zio Boris (Judd Hirsch), fratello di sua nonna materna e unico parente che ha a che fare col mondo del cinema avendo fatto per anni la comparsa, a spiegargli schiettamente il rapporto troppo spesso irrisolto fra gli affetti stretti e l’arte.

Ma i film, per Sammy, saranno l’unico mezzo di salvezza e sopravvivenza emotiva, morale e a volte anche fisica…

L’uomo dei sogni di Hollywood firma una delle pellicole di formazione più interessanti degli ultimi anni, raccontandoci attraverso la macchina da presa, i dolori e le pene del giovane Sammy che però, nonostante i profondi sensi di colpa e le grandi insicurezze, riuscirà a fare quello che solo pochi eletti fanno: realizzare il suo sogno più grande.

Come in ogni altra pellicola di Spielberg, anche in questa le immagini hanno un ruolo centrale nella narrazione. E così il cineasta americano ci mostra anche solo visivamente da dove nacquero gli spunti che poi, anni dopo, metterà in pellicole come “E.T. – L’extraterrestre”, “I predatori dell’arca perduta“, “Ritorno al futuro” (che ha prodotto) o “Salvate il soldato Ryan”. Nel cast da ricordare anche il grande David Lynch che ci regala un cameo davvero spettacolare.

Consigliato non solo per gli amanti del cinema, ma per tutti coloro che sono riusciti a sopravvivere alla propria adolescenza.

“Green Sea” di Angeliki Antoniou

(Grecia/Germania, 2020)

Anna (Angeliki Papoulia) è una donna che in un evidente stato confusionale vaga per il mercato di una città della costa greca. Quando si ferma ad una bancarella di spezie e aromi il venditore, da come Anna maneggia e odora la merce, capisce che è una cuoca e così la consegna un biglietto con sopra l’indirizzo di una taverna in riva al mare rimasta senza chef.

Anna, quasi per caso, arriva nel vecchio e trasandato locale e con il biglietto in mano incontra Roula (Giannis Tsortekis), il proprietario che le offre vitto, alloggio e 300 euro al mese per cucinare. La donna accetta e la mattina dopo inizia il suo lavoro. Roula le porta polpette e patate surgelate, cibo molto gradito dagli avventori della locanda che sono tutti operai, meccanici o autisti che spesso si portano anche del cibo da casa.

Ma Anna preferisce cucinare la cose fresche e così, nonostante il parere contrario di Roula, serve ai clienti i suoi piatti della antica e povera tradizione greca. Tutti gli avventori, così come Roula, ne rimangono estasiati e così il locale per la prima volta inizia ad essere sempre più pieno.

Un pomeriggio alla porta della taverna si presenta l’anziano Kyriakos (Tasos Palatzidis), un pensionato che ha deciso di abbandonare, con i suoi colori e pennelli, la casa di riposo in cui era stato lasciato. L’anziano si offre di realizzare un grande quadro a tema da appendere nella taverna, che è di fatto senza un vero e proprio arredamento. Roula gli concede una settimana poi non offrirà ospitalità all’anziano.

Sarà Anna a scegliere il tema centrale del quadro: il grande mare verde, il Mediterraneo, che gli Egizi nonostante fossero degli ottimi navigatori del Nilo hanno sempre avuto paura di attraversare. Mentre Kyriakos inizia la sua opera, Roula si reca in libreria per acquistare un nuovo tomo di ricette tradizionali da servire ai suoi clienti e casualmente scopre il segreto di Anna…

Scritta dalla stessa Angeliki Antoniou assieme a Evgenia Fakinou, questa “piccola” pellicola indipendente greca è un gustosissimo viaggio nell’anima e nei sapori veri della vita più intima dei protagonisti. Le atmosfere e gli “aromi” ricordano quelli del delizioso “Soul Kitchen” di Fatih Akın o dei tomi della serie manga “La Taverna di Mezzanotte” di Yaro Abe e della sua relativa serie tv “Midnight Diner – Tokyo Stories”.

Parafrasando il grande Giacchino Rossini, dopo aver visto questo film, possiamo asserire serenamente che il cibo è per il corpo quella che (a volte) il cinema – anche se Rossini diceva in realtà la musica… – è per l’anima.

Buona visione e buon appetito!

“Il tesoro dell’Africa” di John Huston

(USA/UK/Italia, 1953)

Torna la coppia John Huston/Humprey Bogart (fresco vincitore dell’Oscar per il suo ruolo da protagonista nello splendido “La regina d’Africa” per il quale lo stesso Huston ottiene due candidature: come miglior regista e come miglior sceneggiatore) in una pellicola tratta dal romanzo “Beat the Devil” del britannico Claud Cockburn.

A firmare la sceneggiatura, oltre allo stesso Huston, c’è anche Truman Capote che dona alla pellicola un’ironia pungente e allo stesso tempo cruda e senza sconti.

In un piccolo porto di un paese dell’Europa meridionale – che è potrebbe essere l’Italia – un gruppo eterogeneo dei rappresentanti della parte più oscura e forse misera dell’umanità è in attesa di salpare con un mercantile verso l’Africa, dove ognuno di loro ha un progetto, più o meno lecito, per diventare finalmente ricco.

Assieme a Billy Dannreuther (Bogart) e sua moglie Maria (Gina Lollobrigida) ci sono i loro loschi complici Julius O’Hara (Peter Lorre che con Bogart girò anche il mitico “Il mistero del falco” diretto dallo stesso Huston nel 1941), Ravello (Marco Tulli) e il maggiore Ross (Ivor Barnard) capitanati dall’affarista senza scrupoli Peterson (Robert Morley, anche lui nel cast de “La regina d’Africa”) che intendono arraffare alcuni terreni ricchi di uranio per poi vendere il prezioso elemento chimico al miglior offerente.

In attesa di partire ci sono però anche i coniugi inglesi Harry Chelm (Edward Underwood) e sua moglie Gwendolen (Jennifer Jones) che vogliono anche loro trovare fortuna nel continente africano. Ma i loschi piani di Peterson e compagni – che hanno bisogno loro malgrado delle entrature africane di Dannreuther – cozzeranno con quelli più ingenui e al tempo stesso sfrontati di Gwendolen Chelm che si innamora a prima vista e perdutamente di Billy…

Originale e caustica pellicola firmata da uno dei maestri della Hollywood degli anni Quaranta e Cinquanta, e che ci racconta le miserie di un’umanità che forse ancora non si è ripresa moralmente ed eticamente dalla Seconda Guerra Mondiale. Se c’è chi come l’inglese “puro sangue” maggiore Ross che è un dichiarato nostalgico di Hitler e Mussolini, ci sono quelli come Peterson, O’Hara e Ravello disposti a tutto, anche a uccidere, pur di ottenere il proprio tornaconto personale. E poi ci sono quelli come Billy e Maria Dannreuther, maestri della resilienza, disposti a vendersi pur di sopravvivere.

Ma il personaggio più insolito è quello di Gwendolen Chelm, vera ed ingenua sognatrice ad occhi aperti, che però sa essere anche cinica e calcolatrice nei momenti giusti. Insomma, un ritratto disilluso e lucido di perdenti e antieroi firmato da un maestro assoluto della macchina da scrivere come Capote e da uno dei maestri assoluti della macchina da presa come Huston.

Nel cast anche il grande Saro Urzì – nel ruolo del capitano del mercantile – e l’inglese Bernard Lee – in quello di un agente di Scotland Yard – che nel decennio successivo vestirà i panni del primo “M” nella serie di 007.

“Call Jane” di Phyllis Nagy

(USA, 2022)

Nell’estate del 1968 l’eco della contestazione arriva anche in casa di Joy (una bravissima Elizabeth Banks) classica e iconica casalinga della middle class americana degli anni Sessanta, con tanto di vicina e migliore amica Lana (Kate Mara) anche lei casalinga. Joy e suo marito Will (Chris Messina), nonostante abbiano una figlia quindicenne, si sentono molto lontani dall’aria di rivoluzione che si respira per le strade, ma gli eventi faranno loro cambiare idea.

Joy, infatti, è in felice attesa del suo secondo genito ma quando le viene diagnosticata una grave e letale cardiopatia, dovuta proprio alla gravidanza, è costretta a rivedere la visione del mondo che ha sempre avuto. Perché negli Stati Uniti, nel 1968, l’aborto è illegale e punito severamente dalla legge. Il suo ginecologo le propone di presentare il caso al Consiglio di Amministrazione dell’Ospedale che potrebbe accettare la sua richiesta per i gravi motivi di salute.

Ma il CdA dell’istituto sanitario, composto naturalmente da soli uomini, rigetta la richiesta visto che il bambino nascerà molto probabilmente senza problemi, anche se lei ha solo il 50% di possibilità di sopravvivere al parto.

Il ginecologo le propone allora di chiedere la semi infermità mentale dichiarando di avere pensieri suicidi, cosa che però le viene nuovamente rifiutata. Oltre a “lasciarsi” cadere dalle scale, come le suggerisce la segretaria di un ginecologo consultato, a Joy non rimane che l’aborto clandestino. Aborto a cui deve pensare da sola visto che Will, che è un giovane avvocato in ascesa, non sembra riuscire a trovare un’altra soluzione.

Ma appena entrata nello squallido e lercio appartamento in cui trova alcune altre donne nella sua stessa disperata situazione, Joy non resiste e fugge via. In strada, travolta dai singhiozzi, la donna intravede un piccolo manifesto attaccato al palo di una fermata con la scritta: “Se sei incinta e disperata: Call Jane!” seguito da un numero di telefono.

“Incinta e disperata” Joy chiama Jane dietro il cui nome scopre un’organizzazione clandestina ideata e gestita da Virginia (Sigourney Weaver), una militante femminista che da anni aiuta donne, ragazze e purtroppo anche bambine a porre fine a una gravidanza indesiderata.

Grazie a “Jane” Joy riesce ad abortire senza strascichi fisici o legali, ma quelli emotivi e morali li dovrà affrontare da sola, visto che Will è all’oscuro di tutto volendo credere fin troppo facilmente all’aborto spontaneo che la moglie gli ha raccontato.

Ma un pomeriggio sarà “Jane” a chiamare Joy…

Scritta da Hayley Schore e Roshan Sethi questa pellicola, anche se presenta alcune evidenti lacune proprio nella sceneggiatura, ha comunque il merito di ricordarci quanto è stato doloroso e esasperante ottenere la legalizzazione dell’aborto negli Stati Uniti così come in tutto il resto dell’Occidente.

Io che sono un uomo non mi permetto di giudicare o disquisire troppo sull’interruzione volontaria di una gravidanza che considero tema e problematica di cui solo le donne hanno ragione di scegliere e decidere, reputo quindi importante vedere pellicole come queste per cercare di capire meglio e riflettere su un tema tanto serio e profondo.

Ma giudico senza remore chi, indipendentemente dal genere, esprime giudizi spesso superficiali e patriarcali sull’aborto del quale nel nostro Paese, fino a pochissimi decenni fa, decidevano e legiferavano solamente gli uomini. Ed è a quelli che, evidentemente, si ispirano nostalgicamente alcune donne che considerano l’aborto “purtroppo” un diritto nel nostro Paese.

“The Truman Show” di Peter Wier

(USA, 1998)

Siamo alla fine degli anni Novanta, il nuovo millennio è ormai alle porte ma la società a molti non sembra pronta ad affrontare le sfide che il nuovo corso storico sembra presentare all’orizzonte.

A dominare la scena planetaria è senza dubbio la televisione che sta immettendo un nuovo – …ma poi era davvero così? – format: il reality, destinato a rivoluzionare il modo di fare e soprattutto di vedere la televisione.

E così lo sceneggiatore neozelandese Andrew Niccol – classe 1964, che poi scriverà e dirigerà il bellissimo “Gattaca – La porta dell’universo” – ispirandosi ad alcune memorabili puntate delle prime stagioni della straordinaria serie televisiva “Ai confini della realtà” creata da Rod Serling nel 1959, e al racconto di Philip K. Dick “Tempo fuor di sesto” pubblicato per la prima volta sempre nel 1959, firma uno script il cui protagonista ignora di essere il personaggio principale del reality show più famoso del globo.

Programma tv noto in ogni angolo del pianeta e conosciuto da tutti, tranne che dallo stesso Truman Burbank (un bravissimo Jim Carrey, forse alla sua migliore interpretazione e inspiegabilmente ignorato agli Academy Awards), adottato legalmente trent’anni prima dal network che ha costruito il set più grande del mondo dove lo ha fatto crescere e vivere, riprendendo ogni istante a sua totale insaputa.

Truman vive assieme ad attori e comparse, che lui crede essere invece veri parenti e amici, a partire dalla sua fidanzata Meryl (una sempre brava Laura Linney) o dal suo storico amico Marlon (Noah Emmerich, che vestirà i panni dello spietato colonnello Nelec in “Super 8” di J.J. Abrams).

Nonostante la sua esistenza apparentemente perfetta ed edulcorata, Truman cova dentro un crescente e incontenibile senso di oppressione e insoddisfazione, e così confessa ai suoi affetti più cari – e davanti a milioni di telespettatori… – che intende lasciare la sua piccola città natale per esplorare il mondo e trovare se stesso.

La cosa, naturalmente, non può che far preoccupare Christof (Ed Harris), il carismatico e dispotico creatore del “Truman Show”…

Con una battuta finale memorabile, questa pellicola supera il quarto di secolo di età conservando integra la sua potenza narrativa e caustica. A distanza di venticinque anni la nostra società è molto cambiata, ma i reality hanno ancora un seguito rilevante. Il centro nevralgico della vita quotidiana, però, non è più il nostro televisore ma è il nostro cellulare, dal quale osserviamo e cerchiamo di afferrare cosa accade nel mondo passando dentro e attraverso i social.

E allora, rivedendo questa sempre affascinante pellicola, la domanda – …come diceva Antonio Lubrano – sorge spontanea: ma non è che adesso siamo diventati tutti dei Truman Burbank che consumano la propria esistenza al centro di uno show planetario che è proprio il nostro social preferito?

….E che a differenza del vero Truman Burbank noi ne siamo totalmente, e colpevolmente, a conoscenza?

Chi non sbircia i social ogni tanto lanci la prima pietra, e ai posteri l’ardua sentenza…

“Nessuno sa che io sono qui” di Gaspar Antillo

(Cile, 2020)

Guillermo “Memo” Garrido (un bravissimo Jorge Garcia, divenuto famoso per essere uno dei protagonisti della serie televisiva “Lost”) vive insieme allo zio Braulio (Luis Gnecco) su un’isola nelle coste del Cile. Col fratello del padre alleva pecore delle quali poi lavora la lana ed il pellame.

Memo è un tipo solitario che vive quasi sempre ascoltando musica con le sue cuffie. Le poche volte che qualcuno viene sull’isola lui si nasconde. E’ un uomo alto quasi due metri e affetto da una grave obesità, ma non è per questo che vuole nascondersi dal mondo, anche se conosce molto bene come le persone possono essere cattive nel giudicare superficialmente un altro essere umano.

La sua routine viene però destabilizzata da Marta (Millaray Lobos) la nipote e sostituta temporanea del fornitore di pelli di Braulio. La ragazza è curiosa e tenta di avvicinarsi a Memo che all’inizio però la fugge. Le cose precipitano rapidamente a causa del grave incidente che subisce Braulio mentre tenta di aggiustare il motore di una barca.

Rimasto solo sull’isola – Braulio deve subire numerose operazioni ad una mano – Memo trova conforto solo negli incontri con Marta e per paura che lei se ne vada inizia a cantare, sua grande e vera passione, mentre la ragazza istintivamente lo riprende col cellulare. Il filmato viene visto casualmente da un ragazzo che Marta frequenta e che fa il giornalista: tutto il doloroso passato di Memo irrompe violentemente e inesorabilmente sull’isola dove si era nascosto trovando un pò di pace…

Scritta dallo stesso Gaspar Antillo assieme a Josefina Fernández ed Enrique Videla, questa originale e intimista pellicola ci racconta la storia di un bambino a cui è stata tolta una parte di esistenza e che è costretto a convivere con i propri fantasmi per colpa dell’egoismo e della prepotenza dei “grandi”.

Sono le immagini e la musica a contare, i dialoghi hanno invece una parte secondaria. La struttura narrativa è basata su flashback che si sovrappongono alla storia al presente in modo da illuminare lo spettatore sull’intera vicenda solo nelle scene finali. Ottima sceneggiatura che, nonostante si sveli completamente solo nell’epilogo, riesce a catturare lo spettatore in ogni fotogramma; come nel film, con una struttura analoga, “Exotica” diretto da Atom Egoyan nel 1994.

Commissionato e prodotto da Netflix, purtroppo questo film ha subito il duro impatto della pandemia causata dal Covid che ne ha compromesso la distribuzione, privandolo dei giusti riconoscimenti internazionali che merita, fatto salvo il premio come miglior regista esordiente vinto da Antillo al Tribeca Film Festival del 2020.

Da vedere.