“Prima pagina” di Billy Wilder

(USA, 1974)

Siamo agli inizi degli anni Settanta, e la carta stampata ma soprattutto la televisione plasmano, spesso senza remore, l’opinione pubblica. Così il grande Billy Wilder decide di riportare sul grande schermo la commedia teatrale “The Front Page” scritta da Ben Hecht (fra i più importanti e prolifici sceneggiatori della prima epoca d’oro di Hollywood, autore di script come “Scarface – Lo sfregiato”, “Pericolo pubblico n.1”, “Ombre rosse”, “Notorius – L’amante perduta” o “Nulla di serio“) e Charles MacArthur nel 1928, che già vanta numerosi adattamenti cinematografici a partire dall’omonimo “The Front Page” di Lewis Milestone del 1931, passando per il divertente “La signora del venerdì” diretto da Howard Hawks nel 1940 con Cary Grant e Rosalind Russell.

Quest’ultimo cambia il protagonista da Hildebrand ‘Hildy’ Johnson in Hildegard “Hildy” Johnson, facendone vestire i panni alla Russell, scelta narrativa importante e ispirata a Nellie Bly (1864-1922) la grande giornalista americana, collaboratrice di fiducia di Joseph Pultizer. Con lo stesso cambio narrativo, e ambientandolo direttamente negli studi di un network televisivo, Ted Kotcheff dirige nel 1988 “Cambio marito” con Burt Reynolds, nel ruolo del direttore, Kathleen Turner in quello della sua giornalista di punta – nonché sua ex moglie – e Christopher Reeve in quello del suo nuovo e ingenuo aspirante marito.

Billy Wilder, invece, assieme al suo fidato coscenaggiatore I.A.L. Diamond decide di rimanere fedele all’opera originale di Hecht e MacArthur, ambientandola l’anno dopo in cui venne per la prima volta rappresentata, il 1929. Chicago, per le 7.00 della mattina del 6 giugno è stata fissata l’esecuzione di Earl Williams (Austin Pendleton) condannato all’impiccagione per l’uccisione di un poliziotto, avvenuta mentre questi lo stava arrestando perché distribuiva volantini a favore dell’organizzazione anarchica e sinistrorsa “Friends of American Liberty”.

Anche se il colpo è partito involontariamente durante la colluttazione, Williams è stato condannato molto rapidamente, così da programmare la sua esecuzione proprio a ridosso delle elezioni. Il sindaco (Harold Gould) e lo sceriffo (Vincent Gardenia) hanno fatto di tutto per accelerare il processo proprio per poter sfruttare al meglio la situazione, visto poi che il poliziotto deceduto era di colore, si sono trovati fra le mani l’occasione per prendere anche i voti della comunità afroamericana della città.

Walter Burns (un arcigno e perfido Walter Matthau) direttore del “Chicago Examiner” ha messo sull’esecuzione il suo uomo migliore Hildebrand “Hildy” Johnson (Jack Lemmon) che però si è reso incredibilmente introvabile. Quando finalmente Hildy torna al giornale lo fa per presentare le sue dimissioni: la sera stessa partirà per Philadelphia per poi sposarsi nei giorni successivi con la candida Peggy (Susan Sarandon).

Burns sarà disposto a tutto, anche a mentire e truffare, pur di non perdere il suo miglior cronista, ma a mettere davvero nei guai Hildy sarà proprio il suo viscerale amore per il giornalismo…

Wilder dirige una commedia divertente e graffiante, atto d’accusa contro un certo tipo di giornalismo aggressivo e spietato, soprattutto con coloro che usa e poi getta via, come: ” …la prima pagina di un quotidiano che quando esce può fare molto scalpore, ma il giorno dopo è usata tranquillamente per incartare il pesce al mercato”, frase che lo stesso Burns pronuncia a Hildy.

A quasi cinquant’anni di distanza dalla sua uscita nelle sale americane, “Prima pagina” rimane sempre un’ottima commedia, vittima però di mode e superficialità che oggi sarebbero, giustamente, inaccettabili. Come la bassa stereotipizzazione dell’omosessualità del giornalista Bensiger (interpretato da David Wayne) che risulta ancora più evidente dalla grande dignità che Wilder e Diamond donano a Molly Malloy (interpretata da Carol Burnett) la prostituta dei bassi fondi innamorata di Williams.

Se Molly, che rappresenta gli ultimi della società, è il personaggio più puro e sincero del film – che ricorda molto quelli cantanti magistralmente dal grande Fabrizio De Andrè – Bensinger è “solo” un personaggio secondario bizzoso e antipatico, dai modi “strani” dei quali tutti possono ridere. D’altronde in Gran Bretagna solo sette anni prima la realizzazione di questo film l’omosessualità smise di essere reato.

I duetti fra Lemmon e Matthau sono comunque sempre irresistibili e indimenticabili, grazie anche agli attori di supporto, tutti grandi artisti, come i già citati Gardenia e Gould, a cui si aggiungono Charles Durning e Herb Edelman nei ruoli di alcuni giornalisti colleghi di Hildy.

Nella nostra versione a doppiare Matthau non è il grande Renato Turi, ma un altrettanto bravissimo Ferruccio Amendola, mentre Giuseppe Rinaldi dona come sempre magistralmente la voce a Lemmon.

“Nellie Bly” di Luciana Cimino e Sergio Algozzino

(Tunué, 2020)

Elizabeth Jane Cochran (1864-1922) è stata una delle personalità più rilevanti del giornalismo americano e non solo. Figlia di un magistrato di un piccolo centro della Pennsylvania, poco dopo la prematura morte di questo, assistette alle violenze materiali e morali che la madre e i suoi fratelli subivano da parte del nuovo patrigno, un uomo alcolizzato e manesco. Testimoniò in prima persona, durante il processo di divorzio intentato dalla madre, le angherie subite durante il matrimonio.

Ventenne tentò la carriera di insegnate a Pittsburgh, ma quando lesse l’articolo “What Girls Are Good For” sul Pittsburgh Dispatch in cui un borioso giornalista elencava i veri e “sacri” compiti di una donna che nulla avevano a che fare con le suffragette o l’emancipazione femminile, non riuscì a trattenersi e scrisse una lettera di risposta senza usare mezzi termini.

Il direttore del giornale ne rimase così colpito da offrire alla Cochran di scrivere un articolo ufficiale di risposta per poi farla diventare una collaboratrice stabile della redazione. Ma una donna, ancora non sposata, che giocava a fare la giornalista non aveva la massima considerazione sociale e così per salvaguardare se stessa e i propri familiari optò per uno pseudonimo. Fra le canzoni più famose di quel periodo c’erano soprattutto quelle di Stephen Foster (autore per esempio di “Oh! Susanna”) e fra quelle “Nelly Was a Lady” e “Nelly Bly“. La Cochran scelse quest’ultima come pseudonimo, ma per un banale errore di battitura commesso dallo stesso direttore alla fine dell’articolo apparve sul giornale il nome “Nellie Bly”, che poi la donna trovò superfluo correggere.

La Bly aveva nel sangue quello che poi, grazie anche a lei, avrebbe preso il nome di giornalismo d’inchiesta, visto che amava trovare e intervistare le sue fonti direttamente sul campo. All’inizio ovviamente le poche donne che lavoravano nei giornali si occupavano esclusivamente di moda e costume, ma Nellie ruppe gli schemi grazie proprio alle sue coraggiose inchieste. Per quello che aveva subito da piccola e per la grave indigenza nella quale era cresciuta dopo la morte del padre, la Bly prediligeva denunciare gli abusi che subivano i più poveri e indifesi della società. Per questo denunciava sovente le drammatiche situazioni in cui erano costretti a lavorare gli operai.

Fu una delle pochissime giornaliste ad intervistare nel 1884 la prima candidata donna alla Casa Bianca, Belva Ann Lockwood avvocato (è grazie a lei se nel 1879 il Congresso approvò la parità formale dell’avvocatura femminile rispetto a quella maschile) che si era candidata conscia di non avere nessuna possibilità, ma soprattutto per “svegliare” le sue concittadine.

I suoi reportage, visto che erano sempre più seguiti, indispettirono i grandi industriali che iniziarono a fare sempre più pressione sui giornali che la pubblicavano. Così nel 1886 Nellie Bly si trasferì come corrispondente in Messico dove denunciò le pesanti condizioni sociali in cui viveva il popolo sotto la dittatura di Porfirio Diaz. Ovviamente Diaz divenne insofferente alla Bly che poco dopo fu costretta a tornare negli Stati Uniti. Lasciò il Pittsburgh Dispatch per trasferirsi a New York ed entrare nel “New York World”, il giornale diretto da Joseph Pulitzer.

Lo stesso Pulitzer le chiese di realizzare un reportage sul “New York City Mental Health Hospital” del quale si avevano notizie drammatiche ma mai dimostrate. Così la Bly prese una camera in affitto sotto falso nome fingendosi pazza e preda di continue crisi isteriche. La Polizia, chiamata dalla proprietaria della pensione, la consegnò immediatamente all’ospedale nel quale la donna passò dieci interminabili giorni. Per tirarla fuori ci vollero i legali del giornale. Il reportage che la Bly scrisse fece esplodere uno scandalo senza precedenti grazie al quale saltarono numerose poltrone fra politici e sanitari, ma soprattutto la città di New York decise poco dopo di stanziare un milione di dollari per la cura dei malati di mente. L’inchiesta è ancora oggi una pietra miliare del giornalismo americano tanto da ispirare ancora romanzi e film, come “Il corridoio della paura” diretto da Samuel Fuller nel 1963.

Nel 1888 Pulitzer volle sfidare Jules Verne sostenendo, attraverso il suo giornale, che era possibile ormai fare il giro del mondo in meno di 80 giorni. E per provarlo incarico Nellie Bly di compiere il viaggio. Nessuno lo credeva possibile, soprattutto per una donna sola, ma Nellie smentì tutti compiendolo in poco più di 72 giorni. Nel suo lungo viaggio, ad Amiens venne ricevuta dallo stesso Verne entusiasta. L’impatto fu planetario, basta pensare che l’abito che si era fatta confezionare appositamente la giornalista per il viaggio che era resistente, adatto a tutti i climi e austero, divenne quello più venduto e alla moda di quegli anni in tutti gli Stati Uniti e non solo. L’impresa si impresse nel profondo dell’immaginario collettivo tanto da essere continuamente citata o richiamata. Ne è un esempio il personaggio interpretato da Natalie Wood nell’intramontabile “La grande corsa” che Blake Edwards realizza nel 1966.

La Bly si sposò con un ricco industriale per il quale abbandonò la stampa. Alla morte del marito prese in mano le redini dell’industria di famiglia ma, a causa di un esperto truffatore e delle sue idee innovatrici fallì. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale la Bly fu la prima inviata di guerra donna della storia e seguì sul campo i fronti russo e serbo. Elizabeth Jane Cochran muore il 27 gennaio del 1922 a 57 anni per una polmonite. Il suo testamento spirituale si racchiude in una delle ultime frasi che scrisse prima di morire: “Non ho mai scritto una parola che non provenisse dal mio cuore. E mai lo farò”.

Questo graphic novel, il cui testo è firmato da Luciana Cimino mentre i disegni sono di Sergio Algozzino, ripercorre gli eventi salienti della vita della Bly attraverso un’intervista che una giovane studentessa le fa poco prima della sua morte.

Se i disegni sono molto belli e d’effetto, la sceneggiatura è fin troppo semplice e sintetica, ma rimane comunque una testimonianza su una delle donne più carismatiche, coraggiose e libere della nostra storia recente, che contribuì in maniera determinante ad accelerare la nascita del movimento di emancipazione della donna.