“Elemental” di Peter Sohn

(USA, 2023)

Le incomprensioni e gli attriti all’interno di una famiglia, in cui c’è comunque tanto amore incondizionato, sono fra gli elementi – …è proprio il caso di dirlo – principali della narrativa scritta e filmata contemporanea.

Se nel nostro Paese questi argomenti sono stati affrontati straordinariamente, e per la prima volta, dal maestro Eduardo De Filippo – sulla scia di Luigi Pirandello – nella sua immortale commedia “Natale in casa Cupiello”, negli Stati Uniti noti autori come Eugene O’Neill, Tennesse Williams o Arthur Miller li hanno portati superbamente sul palcoscenico, e poi sul grande schermo, nei decenni successivi.

Non c’è da stupirsi, quindi, se anche il cinema di animazione – che purtroppo ancora nel nostro Paese qualcuno considera un semplice e banale “passatempo” per i più piccoli – ha iniziato a raccontarci dei problemi e delle gravi ansie che nascono e crescono vorticosamente, spesso sotto traccia, all’interno di una famiglia.

Gli esempi sono numerosi, sia per quanto riguarda il cinema d’animazione giapponese, a partire dalle pellicole realizzate dallo Studio Ghibli ma non solo, che in quello francese con, ad esempio, lo splendido “La mia vita da zucchina“. Ma anche la stessa Disney con film come “Encanto” ci ha raccontato le pressioni e i relativi traumi di una famiglia in cui tutti si vogliono un profondo bene.

Per parlarci di questo tema Peter Sohn (che ha firmato “Il viaggio di Arlo“) si affida alla sceneggiatura scritta da John Hoberg, Kat Likkel e Brenda Hsueh che ci porta ad Elemental City, la città in cui convivono i vari elementi dell’universo: fuoco, terra, aria e acqua. Ma spesso fra i vari individui la convivenza non è facile, cosa che dà adito ad attriti e intolleranze.

Cosa succede allora quando un acquatico incontra e si innamora di una ragazza, letteralmente, di fuoco?

Per rendere più interessante e divertente la storia gli autori hanno invertito i soliti e “vecchi schemi” narrativi affidando il ruolo femminino all’acquatico Wade Ripple che, trasparente come una sorgente di alta montagna, non nasconde alcuno dei suoi sentimenti; mentre quello mascolino a Ember, una ragazza di fuoco che è convinta di dover essere sempre tutta d’un pezzo e per questo è spesso preda di un’ira incontrollabile.

Con toni leggeri e divertenti, così, entriamo in quella che spesso è la fucina di dolori e sofferenze, molto spesso evitabili, a cui tutti noi nel bene e nel male dobbiamo sopravvivere, soprattutto durante l’adolescenza: la famiglia.

Sfizioso.

“Lightyear – La vera storia di Buzz” di Angus MacLane

(USA, 2022)

“Nel 1995 a un bambino di nome Andy venne regalato un giocattolo ispirato a un famoso Space Ranger, protagonista di un noto film. E questo è il film…”

Così si apre il quinto lungometraggio cinematografico animato della saga di “Toy Story”, anche se più che di un prequel si tratta di un vero e proprio spin off, visto che è presente solo il mitico Buzz Lightyear.

Ci catapultiamo così nella prima rilevante missione stellare di quello che diverrà lo Space Ranger più famoso del grande schermo che, suo malgrado, sarà costretto ad affrontare la parte più oscura di se stesso…

Scritto dallo stesso Angus MacLane assieme a Matthew Aldrich e Jason Headley, che molto probabilmente erano ragazzi – o poco più – entusiasti e urlanti al cinema quando nel 1995 uscì il primo mitico “Toy Story”. Naturalmente anche io, che avevo “solo” 25 anni, uscii dal cinema entusiasta e urlante…

La grafica davvero incredibile ci ricorda ancora oggi come la Pixar sia stata la prima e rivoluzionaria casa di produzione a firmare un intero lungometraggio in computer grafica e, dopo quasi trent’anni, rimane sempre all’avanguardia.

Per gli amanti della precisione e dei riferimenti – come me… – questo film definisce e chiarisce bene alcune dinamiche nate nei precedenti film, come quella fra Buzz e Zurg per esempio. Ma se devo scegliere un personaggio dico il gatto robotico SOX, davvero irresistibile e che sembra un miscuglio fantascientifico fra il cane Straccy de “Il dormiglione” di Woody Allen e il mitico Signor Spock di Star Trek.

A distanza di quasi trent’anni dal suo esordio sul grande schermo Buzz Lightyear è sempre tosto e gaiardo.

“Luca” di Enrico Casarosa

(USA, 2021)

La Pixar sbarca il Italia con il lungometraggio animato “Luca” diretto da Enrico Casarosa – candidato al premio Oscar 2012 col suo delizioso corto d’animazione “La luna” – che si svolge a Porto Rosso nelle splendide Cinque Terre liguri.

Siamo nell’Italia alle soglie degli anni Sessanta e Luca è un ragazzino che si affaccia all’adolescenza, sentendosi oppresso dai genitori che tentano in ogni modo di censurare sul nascere ogni suo sogno.

Come quello di visitare la superficie… perché Luca è un giovane “mostro” marino che vive nelle profondità del mare. E come i suoi simili è terrorizzato e cacciato dai brutali e feroci essere umani che vivono sulla terra ferma.

Ma grazie all’incontro casuale con Alberto, un altro “mostro” marino adolescente come lui, Luca scoprirà i pregi e soprattutto i difetti dei famigerati umani…

Divertente pellicola, scritta dallo stesso Casarosa assieme a Jesse Andrews, Mike Jones e Simon Stephenson, che ci parla di tolleranza, amore e amicizia come quei geni della Pixar sanno fare.

Unico neo, soprattutto per noi italiani, è lo stereotipo che all’estero – e soprattutto negli Stati Uniti – hanno del nostro Paese e della nostra cultura. Infatti – secondo il film – tutti gli italiani ascoltano ventiquattro ore su ventiquattro la musica lirica (anche gli uomini che lavorano sui pescherecci), non fanno altro che mangiare pasta, e i muri di Porto Rosso sono tappezzati dalle locandine dei film di Federico Fellini. Insomma tutti i cliché che piacciono tanto all’estero tipo: “Pizza, pasta e mandolino”.

Eppure Enrico Casarosa è nato a Genova nel 1970 …sob.

Almeno Giulia, la piccola umana con cui Luca stringe una profonda e sincera amicizia, si chiama di cognome Marcovaldo di immortale calviniana memoria.

“Soul” di Pete Docter e Kemp Powers

(USA, 2020)

“Un giovane pesce si rivolge ad un pesce anziano chiedendogli: io cerco l’oceano, puoi aiutarmi? Allora il pesce anziano risponde: l’oceano è quello dove siamo adesso. E il giovane pesce ribatte perplesso: ma questa è solo acqua…”

Su questa breve ma intesa storiella si basa il film prodotto dalla geniale Pixar e diretto dal premio Oscar Pete Docter – autore di capolavori come “Monster & Co”, “Up” o “Inside Out” – assieme a Kemp Powers.

Siamo a New York e Joe Garner (nella nostra versione doppiato superbamente da Neri Marcorè) è un jazzista che ancora non ha avuto la sua grande occasione. Paga affitto e bollette insegnando musica in una scuola media, ma anche grazie agli aiuti economici di sua madre che possiede una piccola sartoria.

Un suo ex allievo riesce incredibilmente a fargli ottenere un provino per il quartetto di Dorothea Williams, una delle più grandi sassofoniste jazz in circolazione. Poco dopo aver ottenuto il posto come pianista Joe, tornando a casa per preparasi al concerto serale, cade in un tombino.

La sua anima si risveglia sulla rampa che porta nel definitivo al di là. Ma per Joe il jazz vale più di ogni altra cosa e così è disposto a rompere le regole per di tornare a tutti i costi nel suo corpo sulla Terra per poter suonare insieme a Dorothea. Per questo incapperà in 22, un anima del pre-mondo che da secoli fa di tutto pur di non andare sulla Terra…

Deliziosa riflessione sul senso della vita e su come ognuno di noi dovrebbe vivere il tempo che gli viene concesso su questo mondo. Con accenni e metafore che ricordano molto “Inside Out”, la Pixar ci fa fare un nuovo e indimenticabile viaggio dentro noi stessi.

Scritto dagli stessi Docter e Powers assieme a Mike Jones, e con la collaborazione ai dialoghi di Tina Fey – che nella versione originale doppia 22 che nella nostra ha invece la voce della sempre brava Paola Cortellesi – questo lungometraggio animato della Pixar merita di essere visto.

“Piramide di paura” di Barry Levinson

(USA, 1985)

Alle soglie del primo centenario della nascita editoriale del più grande ed eccentrico detective di tutti i tempi Sherlock Holmes, avvenuta con la pubblicazione del leggendario “Uno studio in rosso” firmato da Sir Arthur Conan Doyle nel 1887, Steven Spielberg produce una pellicola dedicata all’inedito incontro giovanile fra il detective e il suo futuro amico John Watson, non ancora medico.

Anche se per Doyle i due si conoscono solo nel suo primo romanzo in cui sono adulti, Chris Columbus, autore dello script, se li immagina adolescenti e compagni di scuola. E fra i banchi e le antiche aule di uno dei più prestigiosi college della Londra vittoriana, il giovane Holmes (Nicholas Rowe) dovrà affrontare pericoli mortali ed eventi che segneranno la sua successiva esistenza…

Ispirato all’intera opera di Doyle, ma soprattutto a “Il segno dei quattro” (pubblicato nel 1890) “Piramide di paura” diretto da Barry Levinson è davvero un film divertente e appassionante, soprattutto per i ragazzi o i patiti sfegatati di Sherlock Holmes come me.

Va visto (o rivisto) anche per altri due motivi: è uno dei primi lungometraggi non animati in cui appare un personaggio realizzato interamente in computer grafica, come si chiamava allora. Si tratta del cavaliere che si “stacca” dalla vetrata di una chiesa per inseguire il sacerdote in una delle scene iniziali della pellicola. A realizzarlo è nientepopodimeno che John Lasseter assieme a quel manipolo di geni smanettoni coi quali fonderà la magica Pixar.

Il secondo motivo è perché questo giovane Sherlock Holmes assomiglia incredibilmente tanto a Harry Potter…

Sebbene la Rowling pubblicherà il primo romanzo sul giovane mago più famoso del pianeta solo nel 1997 e la sua riduzione cinematografica arriverà nel 2001, le atmosfere e gli ambienti del college in cui studiano Holmes e Watson ricordano incredibilmente quelle di Hogwarts. E poi lo stesso John Watson (impersonato dal giovane Alan Cox) con la frangetta nera sulla fronte, gli occhiali tondi e gli occhi azzurri (il cui viso si intravede col berretto anche nella locandina del film) sembra proprio il figlio di James e Lily Potter. Ma come è possibile?

Forse potrebbe essere d’aiuto ricordarsi che l’autore della sceneggiatura di “Piramide di paura” è Chris Columbus, autore di script di film come “Gremlins” o “I Goonies“, lo stesso che poi dirigerà i film “Harry Potter e la pietra filosofale” e “Harry Potter e la camera dei segreti”.

Insieme a “Vita privata di Sherlock Holmes” di Billy Wilder, “La soluzione sette per cento” di Nicholas Meyer, “Senza indizio” di Thom Eberhardt, alla serie “Sherlock” di Mark Gatiss, Steven Moffat e Steve Thompson e a “Enola Holmes” di Harry Bradbeer, “Piramide di paura” è una delle migliori opere liberamente ispirate al personaggio immortale creato dal genio di Conan Doyle.

“Onward – Oltre la magia” di Dan Scanlon

(USA, 2020)

Sono, dal lontano 1995, un fan sfegatato della magica Pixar che ha saputo rivoluzionare il mondo del cinema d’animazione – e non solo – grazie alla computer grafica, ma soprattutto grazie a storie e a sceneggiature innovative, e molto spesso coraggiose.

Come è capitato nel 2009 per lo splendido “Up” di Pete Docter, fantastica metafora di come si sceglie di affrontare la vecchiaia, che però fece storcere il naso ai produttori di giocattoli e gadget che si rifiutarono – sbagliando e rimettendoci gran bei soldoni… – di farne per il film, vista la trama che consideravano “troppo triste”. Ma la vita, fin troppe volte, è davvero triste.

E così questa volta la casa di produzione fondata da John Lasseter, ci porta in un mondo fantastico abitato da creature magiche come unicorni, centauri ed elfi. Solo che la magia, in questo mondo, è stata lentamente accantonata a favore delle classiche comodità della vita moderna. Comodità che assomigliano molto alle nostre.

Entriamo così in casa Lightfoot dove vivono i due fratelli adolescenti Ian e Barley, assieme alla loro madre Laurel. Il loro padre Walden è morto quando Ian, il fratello minore, era ancora un lattante e così, a differenza di Barley, lui non ne ha un vero e proprio ricordo.

Forse per il suo passato, il carattere di Ian è molto chiuso e introverso, mentre quello del fratello è più espansivo, ma tutto concentrato su un gioco di ruolo che ripercorre l’era di quando il loro mondo era dominato dalla grande magia.

Il giorno del suo sedicesimo compleanno Ian riceve un regalo molto speciale. Sua madre, infatti, gli porge uno strano plico stretto e lungo, confezionato da Walden poco prima di morire con la richiesta di donarlo ai propri figli solo quando Ian avrebbe compiuto i sedici anni. Si tratta di un bastone magico con una pietra fatata da incastonarci dentro. Seguendo le istruzioni dell’incantesimo scritte dallo stesso Walden è possibile farlo tornare in vita per un solo giorno.

Se il bastone magico in mano a Barley non sortisce effetto, fra le dita di Ian invece inizia a brillare e lentamente la pietra magica si consuma facendo apparire prima i piedi e poi le gambe di Walden. Ma Ian, che non ha mai creduto alla magia e soprattutto in se stesso, non riesce a portare a termine l’incantesimo e la pietra si consuma lasciando il padre dalla vita in giù. C’è solo una cosa da fare: trovare un’altra pietra magica e così Ian e Barley partono alla sua ricerca, ma…

Malinconica e al tempo stesso deliziosa metafora di come un adolescente è costretto ad affrontare il lutto legato alla perdita del padre, del quale ha pochi o nessun ricordo. La storia è legata all’esperienza personale del regista Dan Scanlon – che ha scritto la sceneggiatura insieme a Keith Bunin e Jason Headly – costretto, suo malgrado e senza la magia, ad affrontare l’adolescenza senza il padre, come tantissimi altri, a cui questo film è indubbiamente dedicato.

Un storia triste, ma vera, con un epilogo malinconico ma che inneggia però alla vita e alla voglia di affrontarla.

“Toy Story 4” di Josh Cooley

(USA, 2019)

Ci risiamo, ecco la quarta grande avventura di Woody e Buzz – soprattutto di Woody in realtà – i due grandi protagonisti e apripista dell’animazione digitale, apparsi per la prima volta sul grande schermo quasi venticinque anni fa.

Woody deve fare i conti con l’età, ovviamente non con la sua ma con quella di Bonnie, la bambina a cui appartiene. E soprattutto col fatto che la piccola preferisce altri giocattoli a lui. Il rischio quindi è quello di diventare un giocattolo dimenticato e poi inesorabilmente perso.

Ma, ce lo ricordano bene i tutti i giocattoli che appaiono nel film – con omaggi e citazioni alla storia stessa della Pixar – c’è anche un’altra via…

Ennesimo grande lungometraggio firmato dalla casa di produzione fondata da John Lasseter, che con coraggio chiama in causa i due personaggi principi della sua storia, senza sbagliare il colpo.

Tutti cresciamo, volenti o nolenti. Crescere però non vuol dire per forza invecchiare, ma probabilmente solo cambiare punto di vista. E così Woody ci racconta una nuova svolta nella sua storia che ricorda tanto quella di un genitore con i suoi figli.

Ma d’altronde, per i bambini i genitori all’inizio non sono solo dei grandi, morbidi e coccoloni giocattoli?

Da vedere. 

Per la chicca: è doveroso ricordare Fabrizio Frizzi che a partire dal 1996 ha donato con divertimento e ironia la voce a Woody nelle nostre versioni della saga. La Disney per questo nuovo film ha deciso di sostituirlo con Angelo Maggi, storico doppiatore di Tom Hanks, che è la voce originale di Woody. E’ giusto, per questo, sottolineare anche la grande bravura di Maggi.

“Kitbull” di Rosana Sullivan

(USA, 2019)

La Pixar ci regala un nuovo piccolo gioiellino digitale.

Nella periferia di San Francisco, nel quartiere chiamato Mission Dristrict, fra i rifiuti e i rottami abbandonati in un cortile vive un gattino randagio.

Le cose sembrano prendere una brutta piega quando nel cortile viene portato da un umano un enorme pitubull bianco. Il felino è terrorizzato dal nuovo arrivato ma, casualmente, i due cominciano a giocare insieme grazie a un tappo di bottiglia.

Una sera, dopo alcune ore, l’umano apre la porta del cortile per buttare fuori il pitbull dolorante e totalmente coperto da ferite e morsi.

Per la paura il felino tenta di nascondersi ma rimane incastrato in un pezzo di plastica. Il cane allora si avvicina e lo libera, ma il felino gli soffia impaurito.

Al cane non rimane altro che tornare nella sua cuccia zoppicando. Il gattino si pente di essere stato così aggressivo e va dal cane per consolarlo…

Scritto e diretto dall’americana Rosana Sullivan, “Kitbull” con i suoi nove minuti di delizioso e commovente cinema d’animazione, è un corto da vedere che ci ricorda giustamente chi sono le vere “bestie” sul nostro pianeta…

“Gli Incredibili 2” di Brad Bird

(USA, 2018)

E’ tornata nelle sale cinematografiche la famiglia di supereroi più “incredibile” di sempre. Questo sequel parte dal momento esatto in cui finisce il primo, uscito quasi quindici anni fa.

La famiglia Parr, per contrastare il famigerato Minatore provoca danni ingenti alla città. Tornano così i dubbi sulla vera esigenza di permettere ai “super” di esercitare liberamente i loro poteri per combattere i cattivi.

A far tornare definitivamente i supereroi a piede libero, questa volta tocca a Elastic Girl, che dovrà incarnare il bene che combatte il male.

A Mr. Incredibile, il compito di badare alla famiglia, impresa davvero ardua anche per un supereroe. Ma…

Godibilissimo film della Pixar, e precisamente il ventesimo, che ci parla della famiglia e di come grazie – o per colpa… – di questa ci rapportiamo col mondo.

Su tutti vincono senza gara Jack-Jack e la grande stilista Edna, anche stavolta doppiata per noi da Amanda Lear.

Per la chicca: a precedere il film al cinema c’è uno splendido corto Pixar: “Bao” di Domee Shi, splendida e geniale metafora sul complicato mestiere di mamma.

“La città incantata” di Hayao Miyazaki

(Giappone, 2001)

Questo stupendo lungometraggio ha, fra gli altri, il merito di aver fatto conoscere al mondo interno il genio del maestro Hayao Miyazaki.

La vicenda della piccola Chihiro che, a causa della sventatezza dei suoi genitori, deve crescere in pochissimo tempo, è una delle storie di formazione più belle mai apparse sul grande schermo.

Il maestro Miyazaki – che firma anche la sceneggiatura ispirandosi al romanzo per ragazzi “Il meraviglioso paese oltre la nebbia” della scrittrice Sachiko Kashiwaba pubblicato la prima volte nel 1987 – ci porta nel suo regno fantastico (forse il più affascinante da lui creato) che ha le sue regole ferree alle quali nessuno, neanche la potente strega Yubaba, può alla fine sottrarsi. Soltanto il grande cuore di Chihiro e la sua umiltà – due qualità giustamente molto apprezzate nel Paese del Sol Levante – potranno sconfiggere i terribili sortilegi…

Senza doverci pensare troppo, trovo sempre un ottimo motivo per rivedere un film del genio giapponese, e “La città incantata” è uno dei miei preferiti. Ogni volta che lo rivedo i miei occhi e la mia anima godono letteralmente della sua bellezza. Come tutte le opere di Miyazaki, anche questa è poesia pura animata.

Vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino – prima volta nella storia degli anime – e dell’Oscar come Miglior Film Straniero.

Per la chicca: il lampione saltellante che accoglie Chihiro dopo essere scesa dal treno, e l’accompagna alla casa della strega Zeniba, è un dichiarato omaggio alla lampada da tavolo simbolo della Pixar, i cui film sono molti amati da Miyazaki. Un genio in tutti i sensi!

Da tenere, gelosamente, nella propria videoteca.