“Il ragazzo e l’airone” di Hayao Miyazaki

(Giappone, 2023)

Tornano al cinema, dopo oltre in decennio, il maestro Hayao Miyazaki e la sua arte con un nuovo ed inedito lungometraggio animato.

Le genesi di questo film è stata molto lunga e travagliata – ci si è messa anche la pandemia, per esempio – ma il genio giapponese alla fine è riuscito a regalarci un’altra storia fantastica ed indimenticabile, piena di sublimi citazioni e auto citazioni che mandano in estasi gli amanti dello Studio Ghibli, come me.

Il maestro Miyazaki, a cui la produzione – a cui ha partecipato anche lo Studio Ponoc – non ha messo alcun vincolo di tempo o di trama – rendendo questa pellicola di fatto una delle più costose del cinema giapponese – scrive e dirige una storia che ha accenni autobiografici ambientata in un periodo ricorrente per il regista: la Seconda Guerra Mondiale, che per il Giappone, più che per altri paesi, ha segnato un momento tragico devastante e sanguinario.

Tokyo 1943, il piccolo Mahito – che nei tratti e nell’abbigliamento ricorda molto Seita, il protagonista dello struggente “La tomba delle lucciole” diretto nel 1988 da Yasao Takahata, stretto e storico collaboratore di Miyazaki – viene svegliato nella notte dalle sirene che urlano a causa del grande incendio che sta divorando l’ospedale dove è ricoverata sua madre.

Nonostante i soccorsi e la corsa disperata del padre Shoichi e dello stesso Mahito, la donna muore arsa dalle fiamme, così come molti altri pazienti. L’anno successivo, insieme a suo padre noto ingegnere aeronautico, Mahito si trasferisce nell’antica tenuta di campagna della famiglia di sua madre, non lontana dalla fabbrica che Shoichi ha iniziato a dirigere.

Nella tenuta ad attenderli c’è Natsuko, la sorella di sua madre che ora è la nuova consorte di Shoichi e da lui aspetta un bambino. Mahito, che non ha minimamente superato la morte della madre e il senso di colpa nel non essere riuscito a salvarla, stenta ad ambientarsi fino a quando non scopre un’antica torre costruita dal pro zio della madre.

Le persone di servizio presso la residenza gli raccontato che quello strano edificio è stato costruito intorno ad un misterioso meteorite caduto dal cielo. Molti anni prima una ragazza era scomparsa nei suoi pressi ed era tornata solo l’anno successivo, in perfetta salute e apparentemente non invecchiata di un giorno. Per questo gli accessi alla torre sono stati tutti murati. Ma uno strano e aggressivo airone cenerino inizia a inseguire Mahito, attirandolo proprio in quella torre misteriosa…

Ancora una volta Miyazaki ci regala 124 minuti di vera struggente e memorabile poesia in movimento, con una storia di formazione dolorosa ma allo tempo stesso splendente. I riferimenti alla sua cinematografia come alla letteratura sono numerosi e bellissimi; possiamo goderci, infatti, quelli a Dante, così come quelli dichiarati al romanzo “E voi come vivrete?”, scritto da Genzaburō Yoshino nel 1937, e ispirazione primaria per la stesura dello script del film.

Fantastici, come sempre, anche quelli visivi a partire dal quadro “L’isola dei morti” che l’artista svizzero Arnold Böcklin realizzò a partire dal 1880. E proprio nel quadro di Böcklin, Miyazaki ambienta un nodo narrativo cruciale, che connota alla pellicola un’atmosfera cupa, sia per l’ombra sempre più opprimente della Seconda Guerra Mondiale – che direttamente però non appare mai – sia per il lutto che rappresenta l’abbandono definitivo dell’infanzia, lutto che avviene per l’inesorabile passare del tempo o per la perdita di un affetto caro, come nel caso di Mahito.

Chi ama il cinema, l’arte e la fantasia non può non vedere questa nuova pellicola del genio giapponese, che rende il nostro mondo – che sta vivendo un momento storico particolarmente tragico e drammatico, tanto e troppo simile al periodo narrato – meno duro e più sopportabile.

“Ponyo sulla scogliera” di Hayao Miyazaki

(Giappone, 2008)

Per scrivere questo capolavoro della cinematografia mondiale il maestro Hayao Miyazaki si è ispirato a “Iyaiyaen”, pubblicato per la prima volta nel 1962 ed esordio della scrittrice giapponese Rieko Nakagawa – classe 1935, autrice molto amata dal grande cineasta – e illustrato da Yuriko Omura, ma soprattutto a “La sirenetta” di Hans Christian Andersen.

Il mare quindi è il centro della storia, e Miyazaki ci dice che il mare è donna, non a caso la madre di Ponyo è Granmammare, l’anima stessa dell’immenso blu che da tempo immemore è la culla della vita sul nostro Pianeta.

Come in molti altri film del genio dello Studio Ghibli, sono le donne ad avere il ruolo cruciale nella storia. Oltre a Ponyo, Sōsuke è circondato da figure femminili determinate e determinanti, come sua madre Risa, la stessa Granmammare e le signore ospitate nella casa di riposo dove lavora la stessa Risa.

Gli uomini, invece, hanno un ruolo secondario, come Fujimoto, il padre di Ponyo che prima di diventare un mago degli abissi era un essere umano e che, pensando di fare del bene, ostacola in ogni modo il desiderio della figlia di diventare umana, figlia che si ostina a voler chiamare Brunilde.

O come Kōichi, il padre di Sōsuke, che osserva la fantastica storia del figlio solo da lontano perché impegnato nel suo lavoro di marinaio. Miyazaki ci ricorda che la Natura è donna, così come il mare – che gli uomini continuano ottusamente ad inquinare… – e li si possono apprezzare e vivere a pieno solo con un cuore gentile e rispettoso come quello di Sōsuke, capace di ascoltare e assecondare con amore Ponyo.

Sull’aspetto di Ponyo e di Sōsuke circolano molte voci e teorie, come quella che quest’ultimo abbia i lineamenti da bambino di Goro Miyazaki, figlio del regista. Quello che è certo, e che lo stesso Hayao Miyazaki ha affermato più volte, è che in ogni piccolo protagonista delle sue pellicole c’è tanto di lui stesso da bambino, che sognava di vivere le avventure più fantastiche ed emozionanti.

Un grande, instancabile e completo artista capace di condividere i suoi sogni e le sue paure come pochi altri, il cui genio ricorda non a caso quelli di Steven Spielberg e George Lucas.

Una pellicola d’amore e di formazione come poche altre. Un altro capolavoro indiscusso che il maestro Miyazaki ha regalato al mondo.

La deliziosa canzone dei titoli di coda nella nostra versione è stata tradotta ed eseguita da Fabio Liberatori – ex componente degli Stadio, musicista molto amato da Lucio Dalla e autore di numerose colonne sonore di pellicole italiane, come per esempio quelle di Carlo Verdone – e sua figlia Sara.

“Zen – Grogu e i nerini del buio” di Katsuya Kondô

(Giappone/USA, 2022)

Che la saga di “Guerre Stellari”, fin dal suo concepimento nella testa geniale di George Lucas, fosse fortemente legata alla tradizione e alla cultura giapponese è sempre stato molto lampante. La stessa figura dello Jedi si ispira palesemente a quella degli antichi samurai, come la Forza tocca corde e riferimenti delle filosofie orientali Zen. Per non parlare poi del casco del famigerato Lord Darth Fenner che prende chiaramente spunto da quello tradizionale dei samurai.

Non è un caso quindi che lo stesso Lucas, assieme a Francis Ford Coppola, sia stato anche il produttore di alcune pellicole giapponesi come “Kagemusha: l’ombra del guerriero” diretta dal maestro Akira Kurosawa.

Anche se ormai Lucas ha ceduto i diritti delle sue opere – compresi quelli di “Guerre Stellari” – alla Disney, il rapporto fra le sue idee geniali e la fantasia del Sol Levante è sempre molto forte, tanto da portare il mitico Studio Ghibli a realizzare – col supporto della stessa Disney – questo delizioso cortometraggio dedicato all’incredibile incontro fra Grogu – il piccolo protagonista della fortunata serie “Mandalorian” – e i nerini del buio, minuti personaggi fatti di fuliggine, creati dal maestro Hayao Miyazaki nella splendida pellicola “Il mio vicino Totoro” e ripresi nell’altrettanto splendido “La città incantata“.

Un incontro in pieno stile Zen, che non ha bisogno di nessuna parola, ma che parla brillantemente alla nostra anima e alla nostra fantasia.

Scritto e diretto da Katsuya Kondô, storico collaboratore della stesso Miyazaki, questo cortometraggio è fatto da 180 secondi di pura poesia.

“Botteghe di Tokyo” di Mateusz Urbanowicz

(Ippocampo, 2021)

Mateusz Urbanowicz è nato in Slesia, Polonia, nel 1986. Mentre studiava Ingegneria Elettronica ha iniziato a collaborare con l’Istituto Polacco Giapponese di Tecnologia dell’Informazione. Successivamente ha vinto una borsa di studio finanziata dal Governo Giapponese grazie alla quale si è trasferito a Kobe, dove ha iniziato a studiare animazione e fumetti. Dopo essersi laureato alla Kobe Design University ha cominciato a lavorare nell’ambito dell’animazione presso la Comix Wave Films di Tokyo.

Proprio nei primi tempi in cui si è stabilito a Tokyo, Urbanowicz ha iniziato a studiare e girare per il quartiere dove aveva trovato alloggio. E’ subito rimasto affascinato dalle numerose piccole botteghe che incontrava nelle vie. Alcune erano, e sono ancora oggi, famose in tutta la città, altre invece nel corso del tempo sono state trasformate in abitazioni private o sono state demolite.

Affascinato dai loro angoli e dalle loro peculiarità Urbanowicz ha deciso di immortalarle su un foglio di carta, dopo averle fotografate attentamente. I suoi bellissimi disegni ricordano molto gli angoli e gli sfondi dei più famosi film d’animazione giapponese contemporanei, a partire da quelli realizzati dal maestro Hayao Miyazaki e dal suo Studio Ghibli.

Per ogni bottega ritratta, della quale l’artista ci fornisce la precisa localizzazione nella mappa della città, ci sono riassunte brevemente le caratteristiche che lo hanno colpito e una breve storia dell’attività. Un viaggio delizioso diviso per quartieri che ci racconta di una Tokyo così diversa da quella che noi occidentali di solito conosciamo.

Quasi tutte le botteghe scelte dall’artista polacco appartengono all’era Shōwa, che corrisponde al regno dell’imperatore Hirohito, e cioè realizzate fra il 1926 e il 1989. Così come ha fatto Nanni Moretti nel suo “Caro diario”, anche Urbanowicz ci racconta una città attraverso le facciate di alcuni dei suoi edifici, molti dei quali poco conosciuti e fuori dai canonici tour turistici.

Un libro originale che ci ricorda come forse l’arte ancestrale del disegno, così profondamente radicata nel Paese del Sol Levante, sia una delle migliori chiavi per comprendere a fondo la cultura giapponese.

Nella parte finale del libro, Urbanowicz ci mostra, con l’ausilio dei suoi bellissimi disegni ma anche di alcune fotografie, tutti gli strumenti del suo lavoro – compreso il suo atelier – nonché le tecniche cha ha usato per realizzare i disegni.

Un viaggio bellissimo tra l’arte, la fantasia e le strade di Tokyo.

“ONI: la leggenda del dio del tuono” di Daisuke ‘Dice’ Tsutsumi

(USA/Giappone, 2022)

La feroce urbanizzazione che, ormai da molti decenni, in Giappone sta riducendo inesorabilmente la vegetazione selvatica è una triste realtà che il cinema d’animazione del Sol Levante denuncia da tempo.

Oltre ai numerosi ed espliciti richiami che il maestro Hayao Miyazaki ha fatto in tutte le sue opere, il film “Pom Poko” di Isao Takahata, storico collaboratore di Miyazaki, prodotto dalla Studio Ghibli nel 1994 centra la sua storia sull’indiscriminata urbanizzazione raccontandola dal punto di vista dei Tanuki, creature mitiche della cultura orientale, protagonisti di numerosi miti e leggende.

Questa deliziosa mini serie d’animazione in stop motion, in quattro episodi da circa 50 minuti l’uno, riprende il tema portandoci nel cuore del Monte dei Kami, dove vivono gli spiriti più antichi della tradizione giapponese.

Fra i più piccoli c’è Onari, una bambina dalle piccole corna, figlia di Naridon, un grande e imponente spirito rosso con una folta chioma nera, che si prende cura di lei con amore sconfinato. Si avvicina però la fatidica notte della Luna Demoniaca – la luna rossa – che segna il terribile attacco da parte dei famigerati Oni ai danni del villaggio.

Tutti si preparano, anche i più piccoli che cercano di far sbocciare il più rapidamente possibile il loro potere di spirito. L’unica che non riesce a capire quale sia il suo è proprio Onari, che inizia così ad entrare in crisi. Inoltre, la piccola tenta in ogni modo di capire chi sia sua madre, della quale Naridon ha sempre rifiutato di parlare.

Nel suo doloroso ma indimenticabile viaggio Onari scoprirà molte cose, soprattutto che il mondo, che possa essere freddamente reale o magnificamente fantastico, non è inesorabilmente tutto bianco o tutto nero. E la contaminazione non è detto che sia sempre nociva e negativa…

Frutto di una coproduzione fra i due Paesi leader nella produzione mondiale di cartoni animati, questa serie “ONI: la leggenda del dio del tuono” merita di essere vista per la sua poesia che ci riconcilia col mondo frenetico e rumoroso in cui viviamo.

“Il fiuto di Sherlock Holmes” di Marco Pagot e Gi Pagot

(Italia/Giappone, 1984)

Da un’idea di Gi Pagot e Marco Pagot, grande cartoonist italiano nonché figlio di Nino Pagot – fondatore dello Studio Pagot creatore di numerosi e indimenticabili cortometraggi d’animazione come “Grisù il draghetto” e spot pubblicitari che hanno segnato la nostra cultura nazionale come quello che vedeva quale protagonista il pulcino Calimero – la RAI decide di realizzare una serie d’animazione composta da 26 episodi di circa 30 minuti ciascuno.

Il concept si ispira al mitico e inossidabile Sherlock Holmes creato da Arthur Conan Doyle quasi cento anni prima, ma per rendere il cartone più adatto ai piccoli telespettatori i personaggi hanno le sembianze di cani antropomorfi, a partire dal grande investigatore che ha i colori e le fattezze che ricordano quelle di una volpe, mentre il famigerato Professòr Moriarty quelle di un perfido lupo viola. A dirigere buona parte degli episodi viene chiamato il maestro Hayao Miyazaki che, insieme a uno staff italo-giapponese, realizza una delle migliore serie per ragazzi di sempre.

Viviamo così ventisei avventure nella Londra e nell’Inghilterra vittoriana – che spesso ha i colori della nostra splendida campagna – dove Holmes riesce inesorabilmente a sconfiggere il malefico Professòr costringendolo sempre alla fuga finale. Indimenticabili e geniali sono i piani dello stesso Moriarty che – ovviamente non è un caso – ricordano quelli che mette a punto e finalizza l’ineffabile pronipote di Arsenio Lupin nella mitica serie “Le avventure di Lupin III”, di cui qualche anno prima lo stesso Miyazaki fu regista. Ci troviamo però dall’altra parte della barricata a tifare per la Legge e non per i manigoldi, anche se tanto simpatici e accattivanti come Lupin.

Nonostante i numerosi anni trascorsi dalla sua prima messa in onda questa serie possiede ancora tutto il suo fascino e la sua magia, ennesima dimostrazione della grande arte e genialità dei suoi autori. Nella nostra edizione devono essere ricordati gli ottimi attori che prestano la voce ai protagonisti come gli indimenticabili Elio Pandolfi e Riccardo Garrone nei panni rispettivamente di Sherlock Holmes e il Dottor Watson; così come il bravissimo Mauro Bosco in quelli del perfido Moriarty con un divertente accento torinese, nonché Maurizio Mattioli che doppia Todd, uno dei due scagnozzi del Professòr. 

Ma un motivo in più per rivedere questa serie è per cogliere al meglio l’influenza del nostro Paese nella grande arte del maestro Miyazaki, nei cui film molto spesso paesaggi e atmosfere sono spesso riconducibili alla nostra Penisola. Non è un caso quindi che il protagonista dello splendido “Porco Rosso” che Miyazaki realizzerà nel 1992 guarda caso si chiami …Marco Pagot. 

Indimenticabile è anche la sigla, fra le migliori in assoluto degli anni Ottanta.

Da vedere.

“Il castello errante di Howl” di Hayao Miyazaki

(Giappone, 2004)

Reduce dal successo planetario dello splendido “La città incantata” il maestro Hayao Miyazaki decide di realizzare un adattamento animato del romanzo “Il castello errante di Howl” pubblicato dalla scrittrice inglese Diana Wynne Jones (1934-2011) nel 1986, primo di una trilogia che comprende anche “Il castello in aria” (1990) e “La casa per Ognidove” (2008). Dalla stessa autrice, Goro Miyazaki realizzerà nel 2020 “Earwig e la strega“.

Approdiamo così in una cittadina delle Alpi, a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento, dove vive Sophie Hatter, una diciottenne che preferisce passare tutto il tempo a lavorare nella prestigiosa cappelleria di famiglia che vivere a pieno la propria esistenza.

L’incontro casuale con Howl e il successivo arrivo nel suo negozio della famigerata Strega delle Lande Desolate cambieranno per sempre l’esistenza di Sophie. Perché proprio la strega, per punirla della sua alterigia, le scaglierà una maledizione che la renderà nell’aspetto un’anziana signora, sortilegio che non potrà mai rivelare a nessuno.

Rassegnata, la ragazza lascerà la cittadina per raggiungere le montagne dove incontrerà Howl, il suo castello e il suo arcano segreto…

Splendida pellicola onirica e magica che conferma l’arte unica di Miyazaki e che lo consacra definitivamente fra i grandi cineasti del Pianeta. Così come per le sua altre opere, Miyazaki ci racconta una storia che ci parla di come bisognerebbe affrontare la propria esistenza, indipendentemente da quali sono le nostre origini, e ci ricorda che il peccato più grande è sempre quello di scegliere di non “viverla” aspettando che passi.

Da vedere, come tutte le altre opere del maestro giapponese.

“Il mio vicino Totoro” di Hayao Miyazaki

(Giappone, 1988)

Pellicola pilastro della cinematografia del maestro Hayao Miyazaki e del cinema d’animazione planetario, fra le mie preferite in assoluto, nonché icona e simbolo di tutta la produzione del mitico Studio Ghibli.

Il genio assoluto di Miyazaki ci porta a Tokorozawa, una piccola località rurale nei pressi di Tokyo, in un momento non ben definito degli anni Cinquanta del secolo scorso. Lì, almeno, gli orrori e le tragedie della Seconda Guerra mondiale non hanno lasciato alcun segno fisico, elemento assai particolare rispetto a quasi tutti gli altri film del regista che hanno sempre un chiaro ed esplicito riferimento all’olocausto atomico subito dal suo Paese.

Tatsuo Kusakabe e le sue due piccole figlie Satsuki e Mei prendono possesso di una vecchia casa nelle cui vicinanze c’è un imponente e maestoso albero di canfora. Tatsuko insegna archeologia all’Università Imperiale, mentre Yasuko, sua moglie nonché madre delle due, è ricoverata per una lunga degenza in un ospedale nella vicinanze, e per questo la famiglia si è trasferita lì proprio per esserle più vicina.  

Se Satsuki è alle soglie dell’adolescenza Mei è ancora una bambina, e sarà lei la prima a entrare in contatto con le straordinarie e fantastiche creature che popolano la vegetazione nei dintorni e soprattutto il grande albero di canfora, nel quale vive lo spirito del bosco che Mei battezza Totoro, storpiando il termine giapponese “toruro” – che si traduce “troll” – essere mitologico che lei ha visto qualche tempo prima su un libro.

Anche Satsuki incontrerà Totoro e sarà proprio a lui che la piccola chiederà aiuto quando Mei si perderà nel tentativo di andare a trovare la madre in ospedale…

Splendida e immortale pellicola da portare con sé nella famigerata “isola deserta”, metafora meravigliosa di come è – o come dovrebbe essere – il mondo dei bambini anche in una situazione di disagio come quella di dover crescere con la propria madre in ospedale. Proprio per questo, nella pellicola, non è presente un vero e proprio “cattivo”, o quantomeno un antagonista, ma solo la paura della lontananza, della solitudine e della mancanza.

Non è un caso quindi che lo stesso Miyazaki, durante l’infanzia, passò molti anni lontano dalla madre che, afflitta da una grave forma di tubercolosi, trascorse lunghi periodi ricoverata appunto in ospedale.

Chi, dopo averlo visto, non ha sognato di dormire anche solo per un pomeriggio sulla enorme e soffice pancia di Totoro?  

Da vedere e rivedere a intervalli regolari per riconciliarsi con se stessi e con il mondo.       

Ancora oggi continuamente citato e copiato.  

“Earwig e la strega” di Goro Miyazaki

(Giappone, 2020)

Hayao Miyazaki torna a ispirarsi alla scrittrice inglese Diana Wynne Jones (1934-2011) dopo l’adattamento cinematografico del suo romanzo “Il castello errante di Howl”, realizzato dallo studio Ghibli nel 2004.

Se l’idea è del maestro Hayao, la regia di questo lungometraggio è di Goro Miyazaki, il figlio. Ci troviamo così nell’orfanotrofio di St. Morwaid, in un piccolo centro della campagna britannica, alla porta del quale un’affascinante donna dalla leonina capigliatura rossa – e dai poteri magici – lascia una piccola bambina che su un biglietto chiama Earwig.

La piccola, diventando ragazzina riesce – col potere magico dei “manipolatori” – a far fare alle persone quello che lei vuole, perfino alla direttrice dell’orfanotrofio. Le cose si complicano quando Earwig viene adottata da una strana coppia: Bella Yaga e Mandragora. Se la prima sembra proprio una perfida e arcigna strega, il secondo invece è ancora più inquietante tanto da sembrare un vero e proprio demone, con la passione per il rock, soprattutto quello degli anni Settanta.

Ma Earwig non si scoraggia e così…

Anche prima di essere vista, questa pellicola è stata critica da molti, soprattutto da numerosi “addetti ai lavori”, che non hanno gradito il passaggio dall’animazione classica a quella completamente digitale in 3D fatto dallo Studio Ghibli per realizzarla.

Se prima di sedermi in sala anch’io – anche non essendo un famigerato “addetto ai lavori”, ma solo un onesto spettatore – ero un pò scettico, vedendo questi circa 82 minuti di incantevole cinema d’animazione mi sono dovuto ricredere. I Miyazaki, infatti, donano magia e incanto anche alla nuova tecnica – per lo Studio Ghibli – della computer grafica.

Anzi, proprio grazie al loro genio e talento, riescono ad aumentare le potenzialità visive e immaginifiche della tecnica. Sia chiaro, sono un amante di tutti i grandi film di Hayao Miyazaki e dello Studio Ghibli in generale, ai quali non cambierei per nulla al mondo neanche un solo fotogramma. Così come dei grandi classici d’animazione che hanno fatto la storia del cinema e la mia. Ma il linguaggio visivo usato in questo film possiede tutta la magia e la dignità di un classico dell’animazione.

D’altronde ricordo molto bene nel 1996 certi “addetti ai lavori”, quando “Toy Story” diretto da John Lasseter approdò nelle nostre sale, dire seri, tronfi e sicuri: “…I cartoni animati realizzati con la computer grafica al cinema non dureranno, questo brutto film è solo una bolla di sapone…”.

“Il Gatto con gli Stivali” di Kimio Yabuki

(Giappone, 1969)

Poco più di dieci anni dopo l’uscita nella sale giapponesi dello splendido “La leggenda del serpente bianco“, il primo anime nella storia del cinema, la Toei Animation realizza il suo quindicesimo lungometraggio.

Così come per il primo, ispirato ad un’antica leggenda cinese, anche per questo la società di produzione prende spunto da una fiaba fuori dalle tradizioni giapponesi, cosa che le consente di ampliare il mercato di distribuzione.

Viene scelta “Il gatto con gli stivali” del francese Charles Perrault, alla quale gli sceneggiatori Hisashi Inoue e Morihisa Yamamoto uniscono spunti ed elementi tipici dei romanzi immortali del maestro Alexandre Dumas. Al gatto protagonista viene dato il nome Pero – senza accento – proprio in onore del suo creatore.

Assistiamo all’imponente processo felino nel quale Pero viene condannato a morte dai suoi simili perché ha lasciato fuggire vivo e vegeto un topo. Ma Pero è così: ama la giustizia e la vita. Così, ascoltata la condanna alla pena capitale, saluta tutti col suo cappello e fugge via grazie alla sua scaltrezza e alla sua spada.

Sulle sue tracce vengono inviati tre maldestri gatti sicari, tra cui il più imbranato è Gattognan, che però non riescono mai a prenderlo. Intanto Pero s’imbatte casualmente nel povero e cortese Pierre, giovane contadino vittima dei suoi fratelli maggiori che gli hanno portato via tutto.

Grazie al suo ingegno Pero riesce a far incontrare Pierre con la bella principessa Rosa che, suo malgrado, è al centro delle attenzioni del perfido e malefico Re Lucifero. Ma Pero non si lascia intimidire dai suoi nefasti poteri magici…

Ottanta minuti di ottimo cinema d’animazione, con trovate e gag molto divertenti, conditi da musiche e canzoni scritte apposta per il film. Il successo è planetario tanto da portare la stessa Toei Animation ad adottare Pero come mascotte usando il suo ritratto stilizzato nel proprio logo, e ha mettere in cantiere vari sequel.

Al di là del fatto che questa pellicola è una delle più care della mia infanzia, anche perché veniva trasmessa a ripetizione da un’emittente privata romana alla fine degli anni Settanta, possiede due rilevanti elementi in comune col grande cinema d’animazione che l’ha preceduta e con quello che la seguirà.

Infatti non è casuale il richiamo a “Puss in Boots”, uno dei primi cortometraggi realizzati da Walt Disney nel 1922. Inoltre nel cast tecnico, fra gli animatori, ci sono Hayao Miyazaki e Yasuo Ôtsuka. I due collaboreranno molto insieme, soprattutto nei decenni successivi in serie televisive come “Le avventure di Lupin III” e “Il fiuto di Sherlock Holmes” dirette dallo stesso Miyazaki.

Ma soprattutto Ôtsuka parteciperà alla realizzazione di “Lupin III: Il castello di Cagliostro” primo lungometraggio animato diretto da Miyazaki, in cui alcune scene spettacolari si ispirano esplicitamente a quelle animate dai due dieci anni prima ne “Il gatto con gli stivali”, relative all’inseguimento di Rosa e Pierre da parte di Lucifero sulla torre del suo oscuro castello. Anche la scena finale ricorda molto quella conclusiva de “La ricompensa del gatto“.

Un lungometraggio d’animazione davvero particolare, che in Italia venne presentato all’apertura del Salone Internazionale dei Comics di Lucca del 1969.