“Maestro” di Bradley Cooper

(USA, 2023)

Leonard Bernstein (1918-1990) è stato una delle maggiori figure di spicco della musica, nel solo quella classica, e della cultura del Novecento. Musicista poliedrico e assai prolifico, è stato compositore, arrangiatore, concertista, insegnante e, naturalmente, direttore d’orchestra.

Come direttore di un’orchestra sinfonica, per esempio, è considerato secondo, di un passo, solo ad Herbert von Karajan. E questo non dai famigerati “esperti” o critici – di cui naturalmente l’opinione lascia il tempo che trova, soprattutto col passare del tempo – ma dai musicisti stessi che hanno suonato e hanno avuto entrambi come direttori per un concerto. Parliamo dei maestri della Berliner Philharmoniker, dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma o della Metropolitan Opera House di New York, solo per citarne alcune.

L’impatto di Bernstein sulla cultura contemporanea, quindi, è stato molto rilevante. Basta pensare che il termine “radical chic” venne coniato dal giornalista Tom Wolfe nel 1970, che scrisse un articolo caustico sul New York Magazine dedicato ad una festa esclusiva organizzata da lui e da sua moglie Felicia Montealegre per raccogliere fondi a favore del gruppo rivoluzionario marxista-leninista delle Pantere Nere.

Anche la sua privata è stata al centro dei riflettori, soprattutto da quando nel 1976 rese pubblica la propria omosessualità, separandosi da sua moglie per convivere con un giovane direttore d’orchestra.

Bradley Cooper e Josh Singer decidono di raccontare la sua storia dalla mattina del novembre del 1943 quando venne chiamato a sostituire il direttore Bruno Walter per un concerto alla Carnegie Hall di New York. Si aprono così, finalmente, le porte per il giovane Lenny (un bravissimo Cooper, truccato in maniera davvero incredibile) della fama e del successo. La sua direzione lascia tutti entusiasti, soprattutto perché il giovane Bernstein, vista l’urgenza della sostituzione, ha diretto l’orchestra senza neanche poter fare una prova.

Sulla scia dei festeggiamenti per il suo clamoroso esordio, ad una festa, sua sorella Shirley (Sarah Silverman) le presenta la giovane attrice Felicia Montealegre (una straordinaria Carey Mulligan). Fra i due scocca subito la scintilla, anche se Leonard da tempo convive con David (Matt Bomer). Felicia accetta la sua sessualità fluida, che lui d’altronde non le nasconde, ma soprattutto la ragazza decide di convivere con il suo essere sempre alla ricerca di “onorare” il dono del genio musicale che gli è stato concesso.

Quattro anni dopo i due si sposano e nel giro di pochi anni diventano genitori di tre bambini, due femmine e un maschio. Intanto, la carriera artistica di Leonard è definitivamente decollata nonostante le sue umili origini di figlio di ebrei ucraini immigrati, che allora era un vero e proprio “limite”, tanto che il suo professore, agli inizi, gli propose di cambiare il cognome da Bernstein in Burns. Anche Felicia riesce a calcare con successo il palcoscenico dei teatri più noti degli Stati Uniti, a partire da quelli di Broadway.

Tutto sembra idilliaco, ma alla fine Felicia non riesce più a conciliare la natura e i desideri di Leonard con il suo ruolo di madre e moglie. Soprattutto quello di madre che cerca in ogni modo di proteggere e tenere nascosti ai figli, che crescono, i commenti e i pettegolezzi sulla “dubbia” sessualità del loro padre. Costringe per questo il marito a mentire spudoratamente a Jamie (Maya Hawke), la maggiore, quando preoccupata la ragazza gli chiede conferma se le voci che le sono arrivate sulla sua omosessualità siano vere.

Inesorabilmente arriva la rottura e nel 1976 Felicia e Leonard si separano ufficialmente. Mentre Lenny non nasconde la sua relazione con un giovane direttore d’orchestra, Felicia stenta a trovare un nuovo compagno. Quando però le viene diagnosticato un tumore al seno Leonard lascia tutto, lavoro e relazione, per dedicarsi a lei senza sosta…

Prodotto da Steven Spielberg e Martin Scorsese, “Maestro” ci racconta la storia di un uomo geniale che è riuscito a realizzarsi e a regalare al mondo opere uniche e immortali, così come concerti memorabili, grazie anche alla donna che gli è stata accanto, non certo come moglie tradizionale e devota – come vorrebbero i nostalgici del patriarcato – ma come compagna e alleata nei momenti più difficili e focali, legata a lui da un amore sconfinato che va oltre i canoni e i limiti ottusi della società più retrograda.

Se è vero, come diceva il giovane Fabrizio De Andrè al giovane Paolo Villaggio, che: “Ci vuole un genio per riconoscere un genio” allora dobbiamo riconoscere a Felicia Montealegre tutta la sua indiscussa genialità.

Da vedere ed ascoltare, visto che le musiche sono firmate dal maestro Leonard Bernstein …in persona.

“Le avventure di Buckaroo Banzai nella quarta dimensione” di W.D. Richter

(USA, 1984)

Nell’ottobre del 1984 esce nelle sale statunitensi un film di fantascienza destinato a diventare un piccolo cult, che nel corso del tempo viene spesso citato o imitato. Basta pensare che Steven Spielberg ne fa un chiaro riferimento nel suo “Ready Player One” del 2018, quando Parzival sta per incontrare Art3mis e sceglie il look più cool ispirandosi proprio al protagonista di questo film.

I motivi perché questa pellicola, soprattutto negli USA, è considerata una delle più rappresentative degli anni Ottanta sono molti, a partire dal cast che annovera attrici e attori che diventeranno icone cinematografiche non solo di quel decennio come Peter Weller, che impersona proprio Buckaroo Banzai. Ci sono poi Ellen Barkin, John Lightgow, Jeff Goldblum, Clancy Brown e Christopher Lloyd che solo pochi mesi dopo impersonerà il professor Emmett Brown nel mitico “Ritorno al futuro“.

A proposito di “Ritorno al futuro”, proprio nelle sequenze iniziali di “Le avventure di Buckaroo Banzai nella quarta dimensione” il protagonista sfida la fisica con la sua autovettura futuristica il cui cuore pulsante è uno strumento molto – ma molto… – simile al flusso catalizzatore della Delorean di Doc Brown…

Tornando al film di W.D. Richter – che poco dopo parteciperà alla stesura dello script di un’altra pietra miliare del cinema degli anni Ottanta, e non solo, come “Grosso guaio a Chinatown” diretto dal maestro John Carpenter nel 1986 – anche la trama, frenetica, affatto lineare e che racchiude svolte narrative tipiche di vari generi apparentemente incompatibili, rappresenta al meglio lo spirito edonistico e glitterato di quegli anni.

Buckaroo Banzai è uno dei migliori neurochirurghi del pianeta, ma ha deciso tralasciare la sua carriera medica per dedicarsi al rock – con la sua band “The Hong Kong Cavaliers” – e alla guida di un veicolo speciale – di sua ideazione – in grado di superare i limiti della fisica conosciuta e portarlo nell’ottava dimensione (…sì, è l’ottava dimensione, forse i distributori italiani credevano che fosse “troppa” e così l’hanno divisa per due).

Per festeggiare la grande impresa Buckaroo si esibisce in un concerto dove incappa in Penny (Ellen Barkin) che sembra essere la sorella gemella della sua ex amata, di cui non ha più notizie.

Intanto, tutto il mondo parla dell’impresa di Buckaroo e la cosa arriva anche alle orecchie del perfido dottor Emilio Lizardo (John Lithgow) scienziato senza scrupoli del regime fascista italiano che dopo il fallimento del suo esperimento – riuscito invece ora a Buckaroo – e la fine della Seconda Guerra Mondiale è stato rinchiuso in un manicomio criminale.

Grazie all’appoggio di alcune creature aliene che possono prendere sembianze umane come John Bigboote (Christopher Lloyd) Lizardo cambia identità e diventa Lord John Whorfin acquistando poteri sovrannaturali. La cosa gli permette di impadronirsi del propulsore grazie al quale Buckaroo è riuscito a visitare l’ottava dimensione. Il suo intento è quello di reclutare le perfide creature che la abitano e conquistare il mondo.

Ma Buckaroo è sulle sue tracce insieme ai sui Hong Kong Cavaliers, di cui fanno parte Rawhide (Clancy Brown) e New Jersey (Jeff Goldblum), e all’aiuto di John Parker (Carl Lumbly) un alieno mutaforma proveniente dal pianeta acerrimo nemico di quello da cui arrivano gli alleati di Lord Whorfin…

Scritta da Earl Mac Rauch, questa pellicola incarna come poche lo stile e l’atmosfera di quegli anni e, nonostante alcuni limiti nella sceneggiatura, è davvero un piccolo cult trash. Facendo una citazione pubblicitaria di successo proprio in quel periodo: questo film è “per molti, ma non per tutti” …i nostalgici dal palato fino degli anni Ottanta.

“Ponyo sulla scogliera” di Hayao Miyazaki

(Giappone, 2008)

Per scrivere questo capolavoro della cinematografia mondiale il maestro Hayao Miyazaki si è ispirato a “Iyaiyaen”, pubblicato per la prima volta nel 1962 ed esordio della scrittrice giapponese Rieko Nakagawa – classe 1935, autrice molto amata dal grande cineasta – e illustrato da Yuriko Omura, ma soprattutto a “La sirenetta” di Hans Christian Andersen.

Il mare quindi è il centro della storia, e Miyazaki ci dice che il mare è donna, non a caso la madre di Ponyo è Granmammare, l’anima stessa dell’immenso blu che da tempo immemore è la culla della vita sul nostro Pianeta.

Come in molti altri film del genio dello Studio Ghibli, sono le donne ad avere il ruolo cruciale nella storia. Oltre a Ponyo, Sōsuke è circondato da figure femminili determinate e determinanti, come sua madre Risa, la stessa Granmammare e le signore ospitate nella casa di riposo dove lavora la stessa Risa.

Gli uomini, invece, hanno un ruolo secondario, come Fujimoto, il padre di Ponyo che prima di diventare un mago degli abissi era un essere umano e che, pensando di fare del bene, ostacola in ogni modo il desiderio della figlia di diventare umana, figlia che si ostina a voler chiamare Brunilde.

O come Kōichi, il padre di Sōsuke, che osserva la fantastica storia del figlio solo da lontano perché impegnato nel suo lavoro di marinaio. Miyazaki ci ricorda che la Natura è donna, così come il mare – che gli uomini continuano ottusamente ad inquinare… – e li si possono apprezzare e vivere a pieno solo con un cuore gentile e rispettoso come quello di Sōsuke, capace di ascoltare e assecondare con amore Ponyo.

Sull’aspetto di Ponyo e di Sōsuke circolano molte voci e teorie, come quella che quest’ultimo abbia i lineamenti da bambino di Goro Miyazaki, figlio del regista. Quello che è certo, e che lo stesso Hayao Miyazaki ha affermato più volte, è che in ogni piccolo protagonista delle sue pellicole c’è tanto di lui stesso da bambino, che sognava di vivere le avventure più fantastiche ed emozionanti.

Un grande, instancabile e completo artista capace di condividere i suoi sogni e le sue paure come pochi altri, il cui genio ricorda non a caso quelli di Steven Spielberg e George Lucas.

Una pellicola d’amore e di formazione come poche altre. Un altro capolavoro indiscusso che il maestro Miyazaki ha regalato al mondo.

La deliziosa canzone dei titoli di coda nella nostra versione è stata tradotta ed eseguita da Fabio Liberatori – ex componente degli Stadio, musicista molto amato da Lucio Dalla e autore di numerose colonne sonore di pellicole italiane, come per esempio quelle di Carlo Verdone – e sua figlia Sara.

“Indiana Jones e il quadrante del destino” di James Mangold

(USA, 2023)

Ci siamo, il tempo passa per tutti anche per il leggendario professor Henry Jones Jr (un sempre gajardo e tosto Harrison Ford) che tutti chiamano “Indiana”. E così, alla fine degli anni Sessanta, l’archeologo più famoso della celluloide deve andare in pensione, proprio mentre i primi esseri umani mettono il piede sulla Luna.

Ma non è la pensione ad annichilire il dottor Jones, sono le cose e le scelte fatte e, soprattutto, quelle non fatte. Fra le prime, senza dubbio, ci sono quelle che hanno portato al naufragio della sua famiglia. L’allontanamento definitivo da Marion (Karen Allen) ha minato l’anima del professore che si rassegna così a passare quello che gli rimane da vivere in assoluta e alcolica solitudine.

A scardinare questa convinzione ci pensa Helena Shaw (Phoebe Waller-Bridge), figlia di Basil Shaw (Toby Jones) vecchio amico e collaboratore di Jones, scomparso qualche anno prima. Proprio con Shaw, durante la fine del secondo conflitto mondiale, Jones era riuscito a trovare una parte della macchina di Anticitera realizzata da Archimede nel II secolo a.C., che di fatto è il più antico calcolatore meccanico conosciuto al mondo.

La macchina, che prese il nome dell’isola greca presso la quale venne rinvenuta nei primi del Novecento da due pescatori di spugne nel relitto di un’antica nave romana, era una sorta di planetario che serviva ad anticipare le stagioni, i cambiamenti climatici e gli eventi atmosferici in generale. Ma il Dottor Voller (Mads Mikkelsen), fra i matematici di spicco del Terzo Reich, la voleva portare ad Hitler perché convinto che possedesse la chiave per viaggiare nel tempo e poter vincere così ogni guerra.

E proprio dalle mani di Voller, Jones la prese assieme a Shaw che la conservò gelosamente. Però lo studio morboso della macchina di Archimede portò Shaw alla follia, tanto che alla fine era convinto che Voller avesse ragione e per questo era sul punto di distruggerla. Per conservare un reperto archeologico così importante Jones gliela portò via promettendo di distruggerla. Motivo per il quale 18 anni dopo Helena la richiede al vecchio amico di suo padre.

Ma sulle sue tracce ci sono gli uomini dell’implacabile professor Smith, il matematico che più degli altri è riuscito a mandare l’Apollo 11 sulla Luna e per questo ha il massimo appoggio della Casa Bianca. Ma la stessa Casa Bianca forse ignora che Smith è in realtà Voller, che vuole la macchina di Anticitera per cambiare la storia e il destino del mondo…

Scritto da David Koepp, Jez Butterworth, John-Henry Butterworth e James Mangold, e basato sui personaggi ideati da George Lucas, questo “Indiana Jones e il quadrante del destino” – che è il primo della serie a non essere diretto da Steven Spielberg che appare però assieme all’amico Lucas come produttore esecutivo – oltre a divertici con sequenze mozzafiato, battute e godibilissime autocitazioni, ci offre una riflessione crepuscolare sul tempo che passa inesorabilmente per tutti, anche per gli eroi immortali dei film.

Da sempre l’essere umano vorrebbe viaggiare nel tempo, spesso per poterlo cambiare a proprio favore, per correggere i propri errori o forse per non morire mai. Ma già il grande H.G. Wells nel suo splendido “La macchina del tempo” sosteneva che, anche potendo tornare indietro, il nostro destino, come quello degli altri, sarebbe comunque immutabile. E allora Indiana Jones, alla fine, ci sussurra all’orecchio che se proprio il nostro passato non lo possiamo cambiare, possiamo senza dubbio essere padroni del nostro futuro.

Nel cast appare anche Antonio Banderas, che si doppia da solo nella nostra versione. Dopo “Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta” e “Indiana Jones e l’ultima crociata” questo è il più sfizioso della serie.

Un solo appunto al film, e alla nostra versione, in cui Jones replica tagliente al Dottor Voller che nessun tedesco sa essere spiritoso. Che i nazisti, tedeschi o di qual qualsivoglia nazionalità, non siano capaci di essere spiritosi è un tragico dato di fatto scritto a ferro fuoco e sangue nella storia planetaria dell’ultimo secolo, ma non condivido assolutamente che la cosa possa valere per tutti i tedeschi in generale.

“Ai confini della realtà” di Rod Serling

(USA, 1959-1964)

Rod Serling (1924-1975) è stata una delle figure più rilevanti del cinema e soprattutto della televisione americana del secondo Novecento. Anche se è stato l’autore di sceneggiature di film come “I giganti uccidono” o “Una faccia piena di pugni” (pellicola che ha segnato il cinema e la cultura degli Stati Uniti, tanto da influenzare lo stesso Sylvester Stallone per la stesura dello script di “Rocky” e Quentin Tarantino per quella di “Pulp Fiction”, solo per citarne due) il suo nome sarà per sempre legato alla serie televisiva antologica “Ai confini della realtà” che creò nel 1959 e che venne trasmessa dalla CBS fino al 1964.

Il 24 novembre del 1958 va in onda, per la serie antologica “Westinghouse Desilu Playhouse” l’episodio “L’elemento tempo” scritto da Rod Serling e diretto da Allen Reisner, in cui il protagonista è Pete Jansen (William Bendix), un uomo che rivela al suo medico il dottor Gillespie (Martin Balsam) che ogni notte rivive lo stesso sogno più che reale: essere a Honolulu le ventiquattro ore che precedono l’attacco di Pearl Harbour il 6 dicembre 1941. Il sogno si tramuta incredibilmente e inspiegabilmente in realtà…

Se gli spettatori di quegli anni sono avvezzi alla fantascienza, anche quella più semplice, nessuno invece ha mai visto niente di simile, un racconto fantastico più che fantascientifico, e al tempo stesso concreto e drammatico. Il successo è notevole tanto che la CBS decide di affidare al suo autore il compito di creare e seguire una vera e propria serie antologica con gli stessi toni e argomenti.

Il titolo Serling lo prende dal gergo aeronautico degli anni Quaranta e Cinquanta in cui “twilight zone” si riferisce all’effetto visivo per il quale, in determinate condizioni, la linea dell’orizzonte scompare alla vista del pilota per alcuni instanti durante l’atterraggio. Una zona di luci e ombre in cui è facile perdere l’orientamento.

Per presentare ogni puntata, che ha sempre attori nuovi e una storia indipendente dalle altre, Serling vorrebbe Orson Welles ma il cachet è troppo alto per il budget fissato dalla produzione, interpella poi Richard Egan che però ha appena firmato un contratto esclusivo per un film. Così, per affrettare i tempi e limitare le spese, viene stabilito che sarà lui stesso il presentatore.

Il 2 ottobre del 1959 va in onda il primo episodio della prima stagione “La barriera della solitudine”, scritto naturalmente dallo stesso Serling. Inizia così un nuovo genere televisivo e un nuovo modo di raccontare i sogni e gli incubi della società americana, oppressa in quegli anni dalla guerra fredda. Ma Serling, in anni in cui gli Stati Uniti erano ancora fortemente razzisti, riesce a parlare di tolleranza, uguaglianza e rispetto con originalità e intelligenza, soprattutto alle nuove generazioni che il venerdì sera rimangono attaccate alla televisione per poco più di venti minuti, il tempo di ciascun episodio, senza avere neanche il coraggio di sbattere le palpebre.

L’impatto è enorme e incredibilmente duraturo, visto che ancora oggi, a distanza di sessant’anni, tutti – o quasi – gli episodi continuano ad avere il loro fascino e la loro potenza narrativa. Per quanto concerne i piccoli di allora, basta ricordare due dei tanti fan che hanno più di una volta dichiarato che senza questa serie la loro vita e la loro arte non sarebbero state le stesse: George Lucas e Steven Spielberg.

Tanto che lo stesso Spielberg produce e dirige uno dei tre episodi del film “Ai confini della realtà“, dedicato e ispirato proprio alla serie di Serling, che realizza assieme a John Landis, George Miller e Joe Dante nel 1983.

Sono moltissimi gli attori, ma anche i registi, che giovani e ancora sconosciuti girano uno o più episodi che andranno in onda dal 1959 al 1964. Nomi come Robert Redford, Sidney Pollack, Ida Lupino (che reciterà nell’episodio della prima stagione “Il sarcofago” e dirigerà l’episodio “Le maschere” della quinta stagione, fra le prime donne in assoluto ad esordire dietro una telecamera), Peter Falk, Charles Bronson, Lee Marvin (interprete dell’episodio “La tomba” della terza stagione, che come alcuni altri, col passare del tempo, è diventato una vera e propria leggenda metropolitana), Robert Duvall, Dennis Hooper, Martin Landau, Art Carney, Cloris Leachman, Ron Howard (nei panni di un bambino nell’episodio “La giostra” della prima stagione), Paul Mazursky, Burt Reynolds, Jack Warden, Burgess Meredith (che poi vestirà i panni del primo allenatore di Rocky Balboa, ma che interpreterà alcuni episodi fra cui lo strepitoso “Tempo di leggere” andato in onda nella prima stagione), Kevin McCarthy (protagonista del bellissimo “Lunga vita a Walter Jameson”, ancora oggi molto citato), William Shatner (interprete di due episodi fra cui il famosissimo “Incubo a 20.000 piedi” diretto da un giovane Richard Donner) James Coburn, Lee Van Cleef o Telly Savalas, solo per citare i più famosi.

Senza parlare delle attrici e degli attori che diventeranno famosi, negli anni successivi, soprattutto nel piccolo schermo come Agnes Moorehead (interprete del delizioso “Gli invasori” della seconda stagione), Bill Bixby, George Takei, Jack Klugman, Elizabeth Montgomery, Roddy McDowall (protagonista del caustico “Gente come noi”) Claude Atkins e Jack Weston (questi ultimi due interpreti del bellissimo “Mostri in Marple Street”, fra i più significati e antirazzisti della serie che si schiera, neanche troppo velatamente, contro la famigerata “caccia alle streghe” maccartista di quegli anni).

A scrivere gli episodi delle prime stagioni, oltre a Serling, ci sono Charles Beaumont e Richard Matheson (autore, nel 1954, del bellissimo romanzo di fantascienza “Io solo leggenda” da cui sono stati tratti vari adattamenti cinematografici tra i quali, da ricordare, “L’ultimo uomo sulla Terra” e “1975: occhi bianchi sul pianeta Terra”, nonché la lunga serie di lungometraggi che parte da “La notte dei morti viventi” diretto da George Romero nel 1968 e passa per “28 giorni dopo” diretto da Danny Boyle nel 2002). Visto il clamoroso successo della serie però, nel corso degli anni, Serling venne citato in numerosissime cause per presunto plagio, cosa che alla fine lo costrinse a cedere i diritti di “Ai confini della realtà” direttamente alla CBS.

Amareggiato, Rod Serling si dedicò a serie con i toni più marcati dell’orrore, fino al 28 giugno del 1975 quando, mentre stata tagliando l’erba del suo giardino, venne stroncato da un infarto a soli 50 anni. Certo, oggi è difficile non associare la sua improvvisa e fulminante morte alle sigarette che aveva sempre in mano, anche quando presentava gli episodi della sua serie più famosa e nella quale divenne anche il testimone di una nota fabbrica di tabacco, o nelle varie foto che lo ritraggono nella vita di tutti i giorni.

Se Serling ha conosciuto il successo e la stima dei suoi contemporanei, non ha potuto apprezzare quelli delle generazioni successive che ancora oggi amano profondamente la sua opera.

Vera pietra miliare della televisione e dell’immaginario collettivo del Novecento, “Ai confini della realtà” è una serie immortale e da vedere e rivedere ad intervalli regolari.

“The Fabelmans” di Steven Spielberg

(USA, 2022)

Dal 24 marzo del 1974, giorno in cui uscì nelle sale cinematografiche americane “Sugarland Express“, e soprattutto dal 20 giugno dell’anno successivo in cui venne presentato per la prima volta nei cinema “Lo squalo”, tutto il mondo del cinema, e non solo, conosce il nome e la carriera artistica di Steven Spielberg, vero Re Mida di Hollywood, considerato fra i più importanti creatori di sogni in celluloide degli ultimi cinquant’anni.

Ma non tutti conoscono la storia di Spielberg fino al suo esordio come regista televisivo che risale al 1969 a quello cinematografico che è appunto del ’74. E allora lo stesso regista ce la racconta in questa sua ottima pellicola scritta assieme a Tony Kushner.

Il 10 gennaio del 1952 Mitzi Fabelman (Michelle Williams) e Burt Fabelman (Paul Dano) portano il loro secondo genito Sammy, di sei anni, per la prima volta al cinema. Il film è “Il più grande spettacolo del mondo” diretto da Cecil B. DeMille. Sammy rimane letteralmente folgorato e, con i suoi giocattoli, tenta di riprodurre l’incidente più spettacolare e al tempo stesso cruento della pellicola.

Mitzi intuisce che il bambino vuole ripetere continuamente la scena che evidentemente lo ha spaventato, tentando di controllarla e così non averne più paura. Allora, invece che sacrificare continuamente i suoi giocattoli, presta al figlio la cinepresa amatoriale di Burt: lui potrà ripetere l’incidente una sola volta riprendendolo e così potrà rivederlo tutte le volte che desidera, senza danneggiare più i suoi giochi.

E così il piccolo Sammy – che ricorda tanto il piccolo Steven Spielberg… – ha per la prima volta fra le mani quello strumento che lo renderà uno degli uomini più famosi del suo tempo. Ma crescere non è semplice per nessuno, anche se da grandi si diventerà un genio del cinema, e se proviene da una famiglia di tradizione ebraica in un Paese dove l’antisemitismo è ancora molto radicato. E proprio attraverso le lenti delle sue cineprese Sammy (Gabriel LaBelle) vedrà il mondo evolversi e cambiare, così come la sua famiglia, le sue sorelle e naturalmente i suoi genitori.

Sarà poi suo zio Boris (Judd Hirsch), fratello di sua nonna materna e unico parente che ha a che fare col mondo del cinema avendo fatto per anni la comparsa, a spiegargli schiettamente il rapporto troppo spesso irrisolto fra gli affetti stretti e l’arte.

Ma i film, per Sammy, saranno l’unico mezzo di salvezza e sopravvivenza emotiva, morale e a volte anche fisica…

L’uomo dei sogni di Hollywood firma una delle pellicole di formazione più interessanti degli ultimi anni, raccontandoci attraverso la macchina da presa, i dolori e le pene del giovane Sammy che però, nonostante i profondi sensi di colpa e le grandi insicurezze, riuscirà a fare quello che solo pochi eletti fanno: realizzare il suo sogno più grande.

Come in ogni altra pellicola di Spielberg, anche in questa le immagini hanno un ruolo centrale nella narrazione. E così il cineasta americano ci mostra anche solo visivamente da dove nacquero gli spunti che poi, anni dopo, metterà in pellicole come “E.T. – L’extraterrestre”, “I predatori dell’arca perduta“, “Ritorno al futuro” (che ha prodotto) o “Salvate il soldato Ryan”. Nel cast da ricordare anche il grande David Lynch che ci regala un cameo davvero spettacolare.

Consigliato non solo per gli amanti del cinema, ma per tutti coloro che sono riusciti a sopravvivere alla propria adolescenza.

“Ai confini della realtà” di John Landis, Steven Spielberg, George Miller e Joe Dante

(USA, 1983)

Un’intera generazione di cineasti americani – e non solo, parliamo anche di scrittori, come il Re Stephen King, tanto per citarne uno – è stata influenzata in maniera determinante da quella che molti, me per primo, considerano una delle serie televisive migliori di sempre: “Ai confini della realtà” creata dal grande Rod Serling nel 1959 e andata in onda per quattro indimenticabili stagioni fino al 1964.

Così, agli inizi degli anni Ottanta, la nuova Hollywood decide di rendergli omaggio riportando e riadattando al cinema tre degli episodi più famosi. A prendere in mano l’idea è John Landis, reduce di gradi successi al botteghino come “Animal House“, “Un lupo mannaro americano a Londra”, “The Blues Brothers” o “Una poltrona per due“.

Nel progetto, sia come regista che come produttore, viene coinvolto anche l’amico Steven Spielberg – che proprio in “The Blue Brothers” aveva fatto un piccolo cameo – che sceglie di dirigere il segmento “Calcia il barattolo”, il cui episodio originale andò in onda nel 1962. Gli altri registi sono Joe Dante che dirige “Un piccolo mostro” – episodio originale della terza stagione e andato in onda nel 1961- e l’australiano George Miller, reduce dal successo dei film della serie “Interceptor” con Mel Gibson, che firma “Incubo a 20.000 piedi” il cui episodio originale passò per la prima volta in televisione nel 1963 e venne diretto da un giovane Richard Donner che poi passerà al cinema dirigendo film come “Superman”, “Arma letale” e, non a caso, il mitico “I Goonies“.

Tutto il film è pregno di citazioni e riferimenti diretti alla serie originale tanto che la voce narrante – che nella serie storica apparteneva allo stesso Serling – è quella di Burgess Meredith (che molti ricorderanno per sempre come l’allenatore sordo in “Rocky”) che fu il protagonista del famosissimo episodio “Tempo di leggere”, andato in onda nel 1959.

Landis dirige il prologo e l’epilogo del film interpretati dall’amico Dan Aykroyd con un cameo di Albert Books, e scrive un nuovo e originale episodio dal titolo “Time Out”. Bill Connor (Vic Morrow) è un uomo di mezz’età deluso e incattivito dalla vita. Così una sera, in un locale seduto assieme a due suoi amici, inizia a sfogarsi col mondo diventando ferocemente razzista e prendendosela con il collega ebreo che secondo lui ha avuto la promozione al suo posto, e poi con tutte le persone di religione ebraica, con quelle di colore e con gli asiatici visto che da giovane ha servito il suo Paese in Corea contro i “musi gialli”.

Ma appena Bill esce dal locale per fumarsi una sigaretta si ritrova nella Parigi occupata dalle truppe naziste nei panni di un ebreo braccato. Quando i tedeschi lo colpiscono a morte Bill si risveglia fra le mani di feroci membri del Ku Klux Klan che lo vogliono impiccare solo perché è di colore. L’uomo riesce a fuggire ma si ritrova in una foresta del Vietnam nei panni di un vietcong, inseguito dalle truppe americane. Colpito a morte si ritrova in loop nella Parigi occupata. Il suo ultimo contatto col mondo al quale apparteneva sarà da un treno piombato, diretto ai campi di sterminio nazisti, dal quale vedrà i suoi amici cercarlo fuori dal locale.

In “Calcia il barattolo” Mr. Bloom (Scatman Crothers) propone agli altri ospiti della casa di riposo in cui vive di giocare con un barattolo nel cuore della notte. Ma solo quelli che avranno il coraggio di mettersi in gioco accettando al tempo stesso la loro età potranno davvero divertirsi…

“Un piccolo mostro” ci racconta la storia dell’insegnante Helen Foley (Kathleen Quinlan) che durante il viaggio verso la città in cui comincerà una nuova esistenza incappa nel piccolo Anthony, che la porterà a casa sua dove scoprirà un terribile segreto. Nel cast, nei panni di zio Walt, appare Kevin McCarthy, protagonista di un altro episodio storico della serie originale: “Lunga vita a Walter Jameson”, andato in onda nel marzo del 1960.

“Incubo a 20.000 piedi” ha come protagonista l’esperto programmatore di computer John Valentine (John Lithgow) che ha il terrore di volare ma che per lavoro è costretto a farlo. Cercando in ogni modo di calmarsi si mette a guardare fuori dal finestrino e scorge un essere mostruoso intento a sabotare i motori dell’aereo su cui sta volando.

Tutti e quattro gli episodi e le loro atmosfere mantengono fede allo spirito dell’opera originale di Serling e a rivederli oggi, anche a distanza di quasi quarant’anni, si prova sempre un certo gusto e piacere. Ma, purtroppo, durante la lavorazione del film si consumò un terribile e mortale incidente che influì sulla sua riuscita globale. Durante le riprese della scena finale dell’episodio “Time Out” l’elicottero che inseguiva Bill Connor nei panni di un vietcong con in braccio due piccoli vietnamiti rovinò al suolo investendo e uccidendo sul colpo Vic Morrow – padre dell’attrice Jennifer Jason Leigh – e i due attori bambini che erano con lui.

Sull’elicottero viaggiava Landis che dirigeva la scena, dando indicazioni al pilota. L’incidente, stabilirono gli inquirenti, venne causato dai numerosi fuochi d’artificio usati per riprodurre un bombardamento nella giungla, fuochi che abbagliarono il pilota facendogli perdere il controllo del mezzo.

Il processo durò circa dieci anni e ridimensionò inesorabilmente la carriera e il prestigio di Landis che molti considerarono colposamente e soprattutto moralmente responsabile in gran parte dell’accaduto. Spielberg troncò l’amicizia con lui e poi produsse da solo una serie televisiva chiaramente ispirata a quella di Serling – di cui però non possedeva i diritti – dal titolo “Storie incredibili” che andò in onda quasi in contemporanea alla nuova serie “Ai confini della realtà” prodotta dalla CBS e andata in onda dal 1985 al 1989.

Dal giorno dell’incidente e dopo l’esito dell’inchiesta, Hollywood cambiò drasticamente le normative per girare scene anche lontanamente pericolose per artisti e tecnici.

“Piramide di paura” di Barry Levinson

(USA, 1985)

Alle soglie del primo centenario della nascita editoriale del più grande ed eccentrico detective di tutti i tempi Sherlock Holmes, avvenuta con la pubblicazione del leggendario “Uno studio in rosso” firmato da Sir Arthur Conan Doyle nel 1887, Steven Spielberg produce una pellicola dedicata all’inedito incontro giovanile fra il detective e il suo futuro amico John Watson, non ancora medico.

Anche se per Doyle i due si conoscono solo nel suo primo romanzo in cui sono adulti, Chris Columbus, autore dello script, se li immagina adolescenti e compagni di scuola. E fra i banchi e le antiche aule di uno dei più prestigiosi college della Londra vittoriana, il giovane Holmes (Nicholas Rowe) dovrà affrontare pericoli mortali ed eventi che segneranno la sua successiva esistenza…

Ispirato all’intera opera di Doyle, ma soprattutto a “Il segno dei quattro” (pubblicato nel 1890) “Piramide di paura” diretto da Barry Levinson è davvero un film divertente e appassionante, soprattutto per i ragazzi o i patiti sfegatati di Sherlock Holmes come me.

Va visto (o rivisto) anche per altri due motivi: è uno dei primi lungometraggi non animati in cui appare un personaggio realizzato interamente in computer grafica, come si chiamava allora. Si tratta del cavaliere che si “stacca” dalla vetrata di una chiesa per inseguire il sacerdote in una delle scene iniziali della pellicola. A realizzarlo è nientepopodimeno che John Lasseter assieme a quel manipolo di geni smanettoni coi quali fonderà la magica Pixar.

Il secondo motivo è perché questo giovane Sherlock Holmes assomiglia incredibilmente tanto a Harry Potter…

Sebbene la Rowling pubblicherà il primo romanzo sul giovane mago più famoso del pianeta solo nel 1997 e la sua riduzione cinematografica arriverà nel 2001, le atmosfere e gli ambienti del college in cui studiano Holmes e Watson ricordano incredibilmente quelle di Hogwarts. E poi lo stesso John Watson (impersonato dal giovane Alan Cox) con la frangetta nera sulla fronte, gli occhiali tondi e gli occhi azzurri (il cui viso si intravede col berretto anche nella locandina del film) sembra proprio il figlio di James e Lily Potter. Ma come è possibile?

Forse potrebbe essere d’aiuto ricordarsi che l’autore della sceneggiatura di “Piramide di paura” è Chris Columbus, autore di script di film come “Gremlins” o “I Goonies“, lo stesso che poi dirigerà i film “Harry Potter e la pietra filosofale” e “Harry Potter e la camera dei segreti”.

Insieme a “Vita privata di Sherlock Holmes” di Billy Wilder, “La soluzione sette per cento” di Nicholas Meyer, “Senza indizio” di Thom Eberhardt, alla serie “Sherlock” di Mark Gatiss, Steven Moffat e Steve Thompson e a “Enola Holmes” di Harry Bradbeer, “Piramide di paura” è una delle migliori opere liberamente ispirate al personaggio immortale creato dal genio di Conan Doyle.

“Chiamami aquila” di Michael Apted

(USA, 1981)

Questa deliziosa commedia è stata scritta da Lawrence Kasdan poco dopo aver terminato le sceneggiature di film come “L’impero colpisce ancora” e “I predatori dell’arca perduta”. A dirigerla avrebbe dovuto essere Steven Spielberg, ma visto il clamoroso flop della sua commedia “1941: allarme a Hollywood”, il cineasta preferì fare solo il produttore esecutivo.

Dopo gli strepitosi successi al botteghino di “Animal House” e “The Blues Brothers” – e quelli in televisione al “Saturday Night Live” – John Belushi decide di abbandonare la comicità surreale e demenziale per interpretare un ruolo sempre comico, ma più di spessore e particolareggiato.

Incarna Ernie Souchak, un giornalista d’assalto del Chicago Sun-Times che con la sua rubrica inchioda – o quantomeno tenta in ogni modo di inchiodare – i corrotti della città. E’ un animale tipico della metropoli, che fuma duecento caffè, conosce tutte le gang delle periferie così come ogni prostituta che batte in strada. Come il lago Michigan, Ernie Souchak è uno dei simboli di Chicago.

Le sue inchieste però provocano l’ira di alcuni potenti politici corrotti, e così Souchak viene fatto pestare a sangue. Il suo direttore, per la sua incolumità, lo obbliga a lasciare la città fino a quando “le acque non si saranno calmate”. La scusa è un servizio sull’ornitologa Nell Porter (una brava Blair Brown), paladina della aquile calve americane, che da anni vive isolata in una baita sulle Montagne Rocciose per studiare e proteggere i rari rapaci a rischio d’estinzione.

Ovviamente la vita dura e montanara che affronta ogni giorno la Porter è diametralmente opposta a quella che da sempre è abituato a fare Ernie, ma non solo. La deflagrazione provocata dall’incontro scontro di due mondi così differenti e agli antipodi, porterà a conseguenze imprevedibili…

Kasdan scrive una gustosa commedia nel segno delle più classiche degli anni Cinquanta e Sessanta che con gli anni non perde il suo carisma. Purtroppo questa pellicola naufragò al botteghino, probabilmente perché il pubblico che amava Belushi non era pronto all’evoluzione della sua comicità. Inoltre, la produzione dovette affrontare costi non previsti per le riprese in quota dei rapaci, che durarono più di un anno.

James Belushi, il fratello minore di John, ha sempre raccontato di come il flop di questo film colpì duramente l’attore. Già tossicodipendente da anni (come ha ricordato John Landis alla Festa del Cinema di Roma nel 2010 durante la presentazione del suo “Ladri di cadaveri- Burke & Hare”), John Belushi precipitò definitivamente nel baratro – tanto da necessitare di una “guardia del corpo” che gli impedisse di drogarsi …troppo – dell’autodistruzione che trovò il suo tragico epilogo in un’overdose a base di cocaina ed eroina che lo stroncò il 5 marzo del 1982, a soli 33 anni.

Nessun attore ama assistere al naufragio di un suo film, sopratutto se è quello che reputa di “svolta” nella propria carriera. Ma evidentemente Belushi era troppo fragile (e drogato) per affrontarlo. La sua morte però squarciò il velo ipocrita e molto pericoloso che allora aleggiava intorno all’uso degli stupefacenti, che molti vedevano “cool”, considerando obsoleti perbenisti quelli che invece denunciavano i suoi pericoli mortali.

Così molti attori della generazione di Belushi (e non solo) smisero di fare uso di droghe, come per esempio Robin Williams.

Per quelle imponderabili coincidenze che fanno parte della nostra esistenza “Chiamami aquila” uscì nelle nostre sale tre giorni prima della morte del suo protagonista, che echeggiò in tutto il mondo, cosa che decretò anche nel nostro Paese il suo insuccesso commerciale. Per questo, probabilmente, l’edizione riportata nel dvd ha una qualità mediocre, ma ci permette al tempo stesso di goderci la voce di Massimo Giuliani che doppia straordinariamente Belushi.

“I Goonies” di Richard Donner

(USA, 1985)

Chi, come me, ha vissuto la propria adolescenza negli inesorabili anni Ottanta, non può che essere legato a questo film frutto del genio di Steven Spielberg.

Perché proprio a Spielberg viene l’idea del soggetto – che ha molti riferimenti al suo “E.T. L’extraterrestre” – poi sviluppato da Chris Columbus (che diverrà successivamente il regista di blockbuster come “Mamma, ho perso l’aereo” o “Harry Potter e la Pietra Filosofale”) e girato da Donner (regista della prima saga di “Superman” e di quella di “Arma letale”). Un mix esplosivo il cui risultato è un vero e proprio film cult.

C’è poi il cast che annovera alcuni giovani attori che poi sarebbero diventati icone del cinema hollywoodiano di oggi, come Josh Brolin (“Men in Black 3” nonché Thanos nelle pellicole degli Avengers, solo per citarne alcuni) nella parte di Brad Walsh, e Sean Astin in quella di suo fratello minore Mickey, protagonista del film, che poi vestirà i panni di Samvise Gamgee nella trilogia de “Il Signore degli Anelli “ di Peter Jackson.

Lo stesso Astin ci indica che eredità ha lasciato questo film nell’immaginario contemporaneo visto che, non a caso, è stato inserito nel cast della seconda stagione di una delle serie televisive di più successo degli ultimi anni come “Stranger Things”.

La storia che si consuma nelle caverne sotterranee di Astoria, una piccola cittadina dell’Oregon, è una di quelle che hanno segnato gli anni Ottanta, e non solo.

Nel video della canzone, e colonna sonora del film, “The Goonies ‘R’ Good Enough” cantata da Cindy Lauper, appare la stessa cantante sulle tracce dei giovani protagonista e, sospesa sotto una cascata come quella del film, dice al pubblico disperata: “…E’ tutta colpa di Steven Spielberg!”. Il regista poi appare, perplesso, seduto al tavolo di montaggio osservando la Lauper in difficoltà…

Insomma: gli Ottanta non sono morti, ma vivono e combattono con noi!