“The Fabelmans” di Steven Spielberg

(USA, 2022)

Dal 24 marzo del 1974, giorno in cui uscì nelle sale cinematografiche americane “Sugarland Express“, e soprattutto dal 20 giugno dell’anno successivo in cui venne presentato per la prima volta nei cinema “Lo squalo”, tutto il mondo del cinema, e non solo, conosce il nome e la carriera artistica di Steven Spielberg, vero Re Mida di Hollywood, considerato fra i più importanti creatori di sogni in celluloide degli ultimi cinquant’anni.

Ma non tutti conoscono la storia di Spielberg fino al suo esordio come regista televisivo che risale al 1969 a quello cinematografico che è appunto del ’74. E allora lo stesso regista ce la racconta in questa sua ottima pellicola scritta assieme a Tony Kushner.

Il 10 gennaio del 1952 Mitzi Fabelman (Michelle Williams) e Burt Fabelman (Paul Dano) portano il loro secondo genito Sammy, di sei anni, per la prima volta al cinema. Il film è “Il più grande spettacolo del mondo” diretto da Cecil B. DeMille. Sammy rimane letteralmente folgorato e, con i suoi giocattoli, tenta di riprodurre l’incidente più spettacolare e al tempo stesso cruento della pellicola.

Mitzi intuisce che il bambino vuole ripetere continuamente la scena che evidentemente lo ha spaventato, tentando di controllarla e così non averne più paura. Allora, invece che sacrificare continuamente i suoi giocattoli, presta al figlio la cinepresa amatoriale di Burt: lui potrà ripetere l’incidente una sola volta riprendendolo e così potrà rivederlo tutte le volte che desidera, senza danneggiare più i suoi giochi.

E così il piccolo Sammy – che ricorda tanto il piccolo Steven Spielberg… – ha per la prima volta fra le mani quello strumento che lo renderà uno degli uomini più famosi del suo tempo. Ma crescere non è semplice per nessuno, anche se da grandi si diventerà un genio del cinema, e se proviene da una famiglia di tradizione ebraica in un Paese dove l’antisemitismo è ancora molto radicato. E proprio attraverso le lenti delle sue cineprese Sammy (Gabriel LaBelle) vedrà il mondo evolversi e cambiare, così come la sua famiglia, le sue sorelle e naturalmente i suoi genitori.

Sarà poi suo zio Boris (Judd Hirsch), fratello di sua nonna materna e unico parente che ha a che fare col mondo del cinema avendo fatto per anni la comparsa, a spiegargli schiettamente il rapporto troppo spesso irrisolto fra gli affetti stretti e l’arte.

Ma i film, per Sammy, saranno l’unico mezzo di salvezza e sopravvivenza emotiva, morale e a volte anche fisica…

L’uomo dei sogni di Hollywood firma una delle pellicole di formazione più interessanti degli ultimi anni, raccontandoci attraverso la macchina da presa, i dolori e le pene del giovane Sammy che però, nonostante i profondi sensi di colpa e le grandi insicurezze, riuscirà a fare quello che solo pochi eletti fanno: realizzare il suo sogno più grande.

Come in ogni altra pellicola di Spielberg, anche in questa le immagini hanno un ruolo centrale nella narrazione. E così il cineasta americano ci mostra anche solo visivamente da dove nacquero gli spunti che poi, anni dopo, metterà in pellicole come “E.T. – L’extraterrestre”, “I predatori dell’arca perduta“, “Ritorno al futuro” (che ha prodotto) o “Salvate il soldato Ryan”. Nel cast da ricordare anche il grande David Lynch che ci regala un cameo davvero spettacolare.

Consigliato non solo per gli amanti del cinema, ma per tutti coloro che sono riusciti a sopravvivere alla propria adolescenza.

“Ai confini della realtà” di John Landis, Steven Spielberg, George Miller e Joe Dante

(USA, 1983)

Un’intera generazione di cineasti americani – e non solo, parliamo anche di scrittori, come il Re Stephen King, tanto per citarne uno – è stata influenzata in maniera determinante da quella che molti, me per primo, considerano una delle serie televisive migliori di sempre: “Ai confini della realtà” creata dal grande Rod Serling nel 1959 e andata in onda per quattro indimenticabili stagioni fino al 1964.

Così, agli inizi degli anni Ottanta, la nuova Hollywood decide di rendergli omaggio riportando e riadattando al cinema tre degli episodi più famosi. A prendere in mano l’idea è John Landis, reduce di gradi successi al botteghino come “Animal House“, “Un lupo mannaro americano a Londra”, “The Blues Brothers” o “Una poltrona per due“.

Nel progetto, sia come regista che come produttore, viene coinvolto anche l’amico Steven Spielberg – che proprio in “The Blue Brothers” aveva fatto un piccolo cameo – che sceglie di dirigere il segmento “Calcia il barattolo”, il cui episodio originale andò in onda nel 1962. Gli altri registi sono Joe Dante che dirige “Un piccolo mostro” – episodio originale della terza stagione e andato in onda nel 1961- e l’australiano George Miller, reduce dal successo dei film della serie “Interceptor” con Mel Gibson, che firma “Incubo a 20.000 piedi” il cui episodio originale passò per la prima volta in televisione nel 1963 e venne diretto da un giovane Richard Donner che poi passerà al cinema dirigendo film come “Superman”, “Arma letale” e, non a caso, il mitico “I Goonies“.

Tutto il film è pregno di citazioni e riferimenti diretti alla serie originale tanto che la voce narrante – che nella serie storica apparteneva allo stesso Serling – è quella di Burgess Meredith (che molti ricorderanno per sempre come l’allenatore sordo in “Rocky”) che fu il protagonista del famosissimo episodio “Tempo di leggere”, andato in onda nel 1959.

Landis dirige il prologo e l’epilogo del film interpretati dall’amico Dan Aykroyd con un cameo di Albert Books, e scrive un nuovo e originale episodio dal titolo “Time Out”. Bill Connor (Vic Morrow) è un uomo di mezz’età deluso e incattivito dalla vita. Così una sera, in un locale seduto assieme a due suoi amici, inizia a sfogarsi col mondo diventando ferocemente razzista e prendendosela con il collega ebreo che secondo lui ha avuto la promozione al suo posto, e poi con tutte le persone di religione ebraica, con quelle di colore e con gli asiatici visto che da giovane ha servito il suo Paese in Corea contro i “musi gialli”.

Ma appena Bill esce dal locale per fumarsi una sigaretta si ritrova nella Parigi occupata dalle truppe naziste nei panni di un ebreo braccato. Quando i tedeschi lo colpiscono a morte Bill si risveglia fra le mani di feroci membri del Ku Klux Klan che lo vogliono impiccare solo perché è di colore. L’uomo riesce a fuggire ma si ritrova in una foresta del Vietnam nei panni di un vietcong, inseguito dalle truppe americane. Colpito a morte si ritrova in loop nella Parigi occupata. Il suo ultimo contatto col mondo al quale apparteneva sarà da un treno piombato, diretto ai campi di sterminio nazisti, dal quale vedrà i suoi amici cercarlo fuori dal locale.

In “Calcia il barattolo” Mr. Bloom (Scatman Crothers) propone agli altri ospiti della casa di riposo in cui vive di giocare con un barattolo nel cuore della notte. Ma solo quelli che avranno il coraggio di mettersi in gioco accettando al tempo stesso la loro età potranno davvero divertirsi…

“Un piccolo mostro” ci racconta la storia dell’insegnante Helen Foley (Kathleen Quinlan) che durante il viaggio verso la città in cui comincerà una nuova esistenza incappa nel piccolo Anthony, che la porterà a casa sua dove scoprirà un terribile segreto. Nel cast, nei panni di zio Walt, appare Kevin McCarthy, protagonista di un altro episodio storico della serie originale: “Lunga vita a Walter Jameson”, andato in onda nel marzo del 1960.

“Incubo a 20.000 piedi” ha come protagonista l’esperto programmatore di computer John Valentine (John Lithgow) che ha il terrore di volare ma che per lavoro è costretto a farlo. Cercando in ogni modo di calmarsi si mette a guardare fuori dal finestrino e scorge un essere mostruoso intento a sabotare i motori dell’aereo su cui sta volando.

Tutti e quattro gli episodi e le loro atmosfere mantengono fede allo spirito dell’opera originale di Serling e a rivederli oggi, anche a distanza di quasi quarant’anni, si prova sempre un certo gusto e piacere. Ma, purtroppo, durante la lavorazione del film si consumò un terribile e mortale incidente che influì sulla sua riuscita globale. Durante le riprese della scena finale dell’episodio “Time Out” l’elicottero che inseguiva Bill Connor nei panni di un vietcong con in braccio due piccoli vietnamiti rovinò al suolo investendo e uccidendo sul colpo Vic Morrow – padre dell’attrice Jennifer Jason Leigh – e i due attori bambini che erano con lui.

Sull’elicottero viaggiava Landis che dirigeva la scena, dando indicazioni al pilota. L’incidente, stabilirono gli inquirenti, venne causato dai numerosi fuochi d’artificio usati per riprodurre un bombardamento nella giungla, fuochi che abbagliarono il pilota facendogli perdere il controllo del mezzo.

Il processo durò circa dieci anni e ridimensionò inesorabilmente la carriera e il prestigio di Landis che molti considerarono colposamente e soprattutto moralmente responsabile in gran parte dell’accaduto. Spielberg troncò l’amicizia con lui e poi produsse da solo una serie televisiva chiaramente ispirata a quella di Serling – di cui però non possedeva i diritti – dal titolo “Storie incredibili” che andò in onda quasi in contemporanea alla nuova serie “Ai confini della realtà” prodotta dalla CBS e andata in onda dal 1985 al 1989.

Dal giorno dell’incidente e dopo l’esito dell’inchiesta, Hollywood cambiò drasticamente le normative per girare scene anche lontanamente pericolose per artisti e tecnici.

“Piramide di paura” di Barry Levinson

(USA, 1985)

Alle soglie del primo centenario della nascita editoriale del più grande ed eccentrico detective di tutti i tempi Sherlock Holmes, avvenuta con la pubblicazione del leggendario “Uno studio in rosso” firmato da Sir Arthur Conan Doyle nel 1887, Steven Spielberg produce una pellicola dedicata all’inedito incontro giovanile fra il detective e il suo futuro amico John Watson, non ancora medico.

Anche se per Doyle i due si conoscono solo nel suo primo romanzo in cui sono adulti, Chris Columbus, autore dello script, se li immagina adolescenti e compagni di scuola. E fra i banchi e le antiche aule di uno dei più prestigiosi college della Londra vittoriana, il giovane Holmes (Nicholas Rowe) dovrà affrontare pericoli mortali ed eventi che segneranno la sua successiva esistenza…

Ispirato all’intera opera di Doyle, ma soprattutto a “Il segno dei quattro” (pubblicato nel 1890) “Piramide di paura” diretto da Barry Levinson è davvero un film divertente e appassionante, soprattutto per i ragazzi o i patiti sfegatati di Sherlock Holmes come me.

Va visto (o rivisto) anche per altri due motivi: è uno dei primi lungometraggi non animati in cui appare un personaggio realizzato interamente in computer grafica, come si chiamava allora. Si tratta del cavaliere che si “stacca” dalla vetrata di una chiesa per inseguire il sacerdote in una delle scene iniziali della pellicola. A realizzarlo è nientepopodimeno che John Lasseter assieme a quel manipolo di geni smanettoni coi quali fonderà la magica Pixar.

Il secondo motivo è perché questo giovane Sherlock Holmes assomiglia incredibilmente tanto a Harry Potter…

Sebbene la Rowling pubblicherà il primo romanzo sul giovane mago più famoso del pianeta solo nel 1997 e la sua riduzione cinematografica arriverà nel 2001, le atmosfere e gli ambienti del college in cui studiano Holmes e Watson ricordano incredibilmente quelle di Hogwarts. E poi lo stesso John Watson (impersonato dal giovane Alan Cox) con la frangetta nera sulla fronte, gli occhiali tondi e gli occhi azzurri (il cui viso si intravede col berretto anche nella locandina del film) sembra proprio il figlio maggiore di James e Lily Potter. Ma come è possibile?

Forse potrebbe essere d’aiuto ricordarsi che l’autore della sceneggiatura di “Piramide di paura” è Chris Columbus, autore di script di film come “Gremlins” o “I Goonies” (del quale è stato da poco annunciato il seguel), lo stesso che poi dirigerà i film “Harry Potter e la pietra filosofale” e “Harry Potter e la camera dei segreti”.

Insieme a “Vita privata di Sherlock Holmes” di Billy Wilder, “La soluzione sette per cento” di Nicholas Meyer, “Senza indizio” di Thom Eberhardt, alla serie “Sherlock” di Mark Gatiss, Steven Moffat e Steve Thompson e a “Enola Holmes” di Harry Bradbeer, “Piramide di paura” è una delle migliori opere liberamente ispirate al personaggio immortale creato dal genio di Conan Doyle.

“Chiamami aquila” di Michael Apted

(USA, 1981)

Questa deliziosa commedia è stata scritta da Lawrence Kasdan poco dopo aver terminato le sceneggiature di film come “L’impero colpisce ancora” e “I predatori dell’arca perduta”. A dirigerla avrebbe dovuto essere Steven Spielberg, ma visto il clamoroso flop della sua commedia “1941: allarme a Hollywood”, il cineasta preferì fare solo il produttore esecutivo.

Dopo gli strepitosi successi al botteghino di “Animal House” e “The Blues Brothers” – e quelli in televisione al “Saturday Night Live” – John Belushi decide di abbandonare la comicità surreale e demenziale per interpretare un ruolo sempre comico, ma più di spessore e particolareggiato.

Incarna Ernie Souchak, un giornalista d’assalto del Chicago Sun-Times che con la sua rubrica inchioda – o quantomeno tenta in ogni modo di inchiodare – i corrotti della città. E’ un animale tipico della metropoli, che fuma duecento caffè, conosce tutte le gang delle periferie così come ogni prostituta che batte in strada. Come il lago Michigan, Ernie Souchak è uno dei simboli di Chicago.

Le sue inchieste però provocano l’ira di alcuni potenti politici corrotti, e così Souchak viene fatto pestare a sangue. Il suo direttore, per la sua incolumità, lo obbliga a lasciare la città fino a quando “le acque non si saranno calmate”. La scusa è un servizio sull’ornitologa Nell Porter (una brava Blair Brown), paladina della aquile calve americane, che da anni vive isolata in una baita sulle Montagne Rocciose per studiare e proteggere i rari rapaci a rischio d’estinzione.

Ovviamente la vita dura e montanara che affronta ogni giorno la Porter è diametralmente opposta a quella che da sempre è abituato a fare Ernie, ma non solo. La deflagrazione provocata dall’incontro scontro di due mondi così differenti e agli antipodi, porterà a conseguenze imprevedibili…

Kasdan scrive una gustosa commedia nel segno delle più classiche degli anni Cinquanta e Sessanta che con gli anni non perde il suo carisma. Purtroppo questa pellicola naufragò al botteghino, probabilmente perché il pubblico che amava Belushi non era pronto all’evoluzione della sua comicità. Inoltre, la produzione dovette affrontare costi non previsti per le riprese in quota dei rapaci, che durarono più di un anno.

James Belushi, il fratello minore di John, ha sempre raccontato di come il flop di questo film colpì duramente l’attore. Già tossicodipendente da anni (come ha ricordato John Landis alla Festa del Cinema di Roma nel 2010 durante la presentazione del suo “Ladri di cadaveri- Burke & Hare”), John Belushi precipitò definitivamente nel baratro – tanto da necessitare di una “guardia del corpo” che gli impedisse di drogarsi …troppo – dell’autodistruzione che trovò il suo tragico epilogo in un’overdose a base di cocaina ed eroina che lo stroncò il 5 marzo del 1982, a soli 33 anni.

Nessun attore ama assistere al naufragio di un suo film, sopratutto se è quello che reputa di “svolta” nella propria carriera. Ma evidentemente Belushi era troppo fragile (e drogato) per affrontarlo. La sua morte però squarciò il velo ipocrita e molto pericoloso che allora aleggiava intorno all’uso degli stupefacenti, che molti vedevano “cool”, considerando obsoleti perbenisti quelli che invece denunciavano i suoi pericoli mortali.

Così molti attori della generazione di Belushi (e non solo) smisero di fare uso di droghe, come per esempio Robin Williams.

Per quelle imponderabili coincidenze che fanno parte della nostra esistenza “Chiamami aquila” uscì nelle nostre sale tre giorni prima della morte del suo protagonista, che echeggiò in tutto il mondo, cosa che decretò anche nel nostro Paese il suo insuccesso commerciale. Per questo, probabilmente, l’edizione riportata nel dvd ha una qualità mediocre, ma ci permette al tempo stesso di goderci la voce di Massimo Giuliani che doppia straordinariamente Belushi.

“I Goonies” di Richard Donner

(USA, 1985)

Chi, come me, ha vissuto la propria adolescenza negli inesorabili anni Ottanta non può che essere legato a questo film frutto del genio di Steven Spielberg.

Perché proprio a Spielberg viene l’idea del soggetto – che ha molti riferimenti al suo “E.T. L’extraterrestre” – poi sviluppato da Chris Columbus (che diverrà successivamente il regista di blockbuster come “Mamma, ho perso l’aereo” o “Harry Potter e la Pietra Filosofale”) e girato da Donner (regista della prima saga di “Superman” e di quella di “Arma letale”). Un mix esplosivo il cui risultato è un vero e proprio film cult.

C’è poi il cast che annovera alcuni giovani attori che poi sarebbero diventati icone del cinema hollywoodiano di oggi, come Josh Brolin (“Men in Black 3” nonché Thanos nelle pellicole degli Avengers, solo per citarne alcuni) nella parte di Brad Walsh, e Sean Astin in quella di suo fratello minore Mickey, protagonista del film, che poi vestirà i panni di Samvise Gamgee nella trilogia de “Il Signore degli Anelli “ di Peter Jackson.

Lo stesso Astin ci indica che eredità ha lasciato questo film nell’immaginario contemporaneo visto che, non a caso, è stato inserito nel cast della seconda stagione di una delle serie televisive di più successo degli ultimi anni come “Stranger Things”.

La storia che si consuma nelle caverne sotterranee di Astoria, una piccola cittadina dell’Oregon, è una di quelle che hanno segnato gli anni Ottanta, e non solo.

Nel dvd sono presenti molti extra, fra cui uno sfizioso “Dietro le quinte” e il videoclip – così si diceva negli Ottanta… – della canzone colonna sonora del film “The Goonies ‘R’ Good Enough” canta da Cindy Lauper, in cui la stessa cantante sospesa sotto una cascata come quella del film dice al pubblico: “…E’ tutta colpa di Steven Spielberg!”. Il regista poi appare, perplesso seduto al tavolo di montaggio osservando la Lauper in difficoltà…

Insomma: gli Ottanta non sono morti, ma vivono e combattono con noi!

“Ready Player One” di Steve Spielberg

(USA, 2018)

Del romanzo “Ready Player One” di Ernest Cline ne ho parlato nel luglio del 2014, anticipando poi che la Warner Bros aveva comprato i diritti e avviato la produzione.

Ma allora ignoravo che la regia sarebbe stata affidata a uno dei geni di Hollywood come Steven Spielberg. E chi meglio di lui, icona vivente degli anni Ottanta, avrebbe potuto portarlo meglio sulla schermo?

Sulla trama, visto che è fedele al libro, non aggiungo nulla, ma se la vuoi leggere poi andare direttamente al post sul libro.

Il film invece è scritto dallo stesso Cline insieme a Zak Penn e ci regala delle sequenze davvero incredibili, frutto della tecnologia digitale più all’avanguardia e della mano unica di Spielberg.

Per gli appassionati degli anni Ottanta come me, forse il film è un pò troppo alla “Trasformer” o “Avangers” (di cui Penn è stato davvero sceneggiatore), mentre il libro è più centrato sulle emozioni dei protagonisti che si rispecchiano in OASIS, creato da un vero “feticista” degli anni Ottanta. Ma Spielberg è sempre Spielberg…

“Indiana Jones e l’ultima crociata” di Steven Spielberg

(USA, 1988)

Come già scritto parlando de “I predatori dell’arca perduta“, questo “Indiana Jones e l’ultima crociata” è l’unico sequel davvero straordinario della serie dedicata all’archeologo più famoso del cinema.

Scritto da George Lucas insieme all’olandese Menno Meyjes (candidato all’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale de “Il colore viola” di Spielberg) questo film consacra definitivamente il mito del professor Henry Jones Jr..

Conosciamo finalmente il professor Henry Jones Senior, poteva farlo interpretato magistralmente da Sean Connery (il primo grande 007, personaggio al quale gli stessi Spielberg e Lucas si ispirarono per scrivere “I predatori dell’arca perduta”) che incarna splendidamente il classico “topo di biblioteca” incapace e inadatto a qualsiasi tipo di azione, la vera e propria antitesi del figlio.

Ma non solo, nelle prime scene del film incontriamo il giovane Indiana Jones (interpretato da River Phoenix) nel momento in cui inizia a usare la frusta – che gli causa la cicatrice al mento che lo stesso Ford ha davvero nella vita reale – e soprattutto indossa per la prima volta il suo famoso cappello.

E nella scena finale conosciamo finalmente la storia del suo strano nome. Il tutto mentre siamo sulle tracce di una delle leggende e dei miti più famosi della civiltà umana: il Santo Graal.

Con sequenze mozzafiato, scene ed effetti speciali che ancora fanno colpo, la terza avventura di Indiana Jones è fra i migliori film d’azione mai realizzati, grazie anche alla profonda ironia che permea ogni scena, soprattutto quelle che mostrano il rapporto complicato e al tempo stesso spassoso fra padre e figlio Jones.

E pensare che all’anagrafe Sean Connery e Harrison Ford hanno meno di dodici anni di differenza. Potere del cinema e dei grandi attori…

Peter Falk

Il 16 settembre del 1927 nasce a New York Peter Michael Falk in una famiglia ebraica di origini polacche, russe, ungheresi e ceche. A tre anni, a causa di una grave patologia oculare, il piccolo Peter subisce l’asportazione dell’occhio destro. L’evento cambia per sempre i suoi connotati e sembra stridere con la futura carriera d’attore. Ma proprio quello strano e particolare sguardo diventerà il suo tratto distintivo.

Gli inizi però non sono semplici. Durante un casting, per esempio, il fondatore della Columbia Pictures Harry Cohn lo boccia dicendo una frase che lo stesso Falk ricorderà spesso: “Con gli stessi soldi posso avere un attore con due occhi”.

Ad accorgersi delle possibilità recitative di Falk non è il cinema ma la televisione. L’attore newyorkese, infatti, approda alla fine degli anni Cinquanta in alcune delle serie tv che di fatto faranno la storia della fiction americana come “Alfred Hitchcock presenta” e “Ai confini della realtà”.

Grazie all’esperienza acquisita e alla sua bravura nel 1961 Frank Capra lo sceglie per il suo “Angeli con la pistola”, nel ruolo secondario di Carmelo. Così, nonostante le origini mitteleuropee, Peter Falk diventa famoso al grande pubblico come il classico immigrato italiano di “Broccolino”.

Seguono numerosi ruoli secondari nei panni di personaggi sulla linea di Carmelo in film come “Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo” di Stanley Kramer (1963) o “La grande corsa” di Blake Edwards (1965).  

Ma è nuovamente il piccolo schermo a dare a Falk l’occasione giusta, quella per diventare finalmente protagonista assoluto. Nel 1968 gira il pilota della serie poliziesca “Columbo” (che da noi diventa “Colombo”) in cui interpreta un tenente italoamericano (…sob!) della squadra omicidi del LAPD, dall’incredibile intelligenza deduttiva nonostante l’aspetto trasandato e distratto.

Nel 1971, dopo un secondo pilota, viene prodotta definitivamente la prima serie, e a dirigere il primo episodio viene chiamato un giovanissimo e sconosciuto Steven Spielberg. Il successo è clamoroso, tanto da portare la produzione a realizzare sette stagioni consecutive, quattro film direttamente per il grande schermo e uno spin-off dal titolo “Mrs. Columbo” dedicato alle (improbabili…) imprese investigative della “fantomatica” moglie del tenente.

Sul set della serie Falk ha modo di conoscere John Cassavetes (omicida nella puntata “Concerto con delitto”) maestro del cinema indipendente americano che per produrre i suoi film recita (è il protagonista, per esempio, del mitico “Contratto per uccidere” del maestro Don Siegel). Falk così partecipa a ottime pellicole come “Mariti”, “Una moglie” e “La sera della prima” tutte dirette dall’amico Cassavetes.

Il successo televisivo permette a Falk di scegliere i ruoli per il grande schermo e lui, da grande attore, passa con bravura da quelli più drammatici dei film di Cassavetes a quelli tipici della commedia come in “Invito a cena con delitto” (1976) di Robert Moore, “Mikey e Nicky” (1976) della grande Elaine May , “Una strana coppia di suoceri” (1979) di Arthur Hiller o quello del vecchio manager nel bellissimo “California Dolls” (1981) di Robert Aldrich. Ma Falk si cimenta anche nel poliziesco con l’avvincente “Pollice da scasso” (1978) di William Friedkin.

Nel 1987 Wim Wenders lo vuole nel suo sublime “Il cielo sopra Berlino” e nel sequel “Così lontano, così vicino” del 1993. Sempre nel 1987 Falk partecipa a un fantasy che all’uscita nelle sale non ottiene un particolare riscontro ma che oggi è diventato un vero e proprio cult: “La storia fantastica” diretto da Rob Reiner.

Nel 1996 è accanto a Woody Allen nel film per la tv “I ragazzi irresistibili”, nuovo adattamento della famosa commedia di Neil Simon, diretto da John Erman.

Nel frattempo, dal 1989, Falk è tornato a vestire i panni del tenente Colombo nelle nuove stagioni che riscuotono sempre un buon successo di pubblico. Nel 2003 le avventure di Colombo si chiudono definitivamente e l’attore dirada i suoi impegni lavorativi a causa di ricorrenti amnesie.

Nel 2008 gli viene diagnosticato definitivamente il morbo di Alzheimer, e l’attore si ritira nella sua villa di Beverly Hills. Purtroppo le sue ultime immagini pubbliche vengono catturate da alcuni fotografi mentre è in strada smarrito, prigioniero e sfigurato dalla malattia degenerativa. Peter Falk muore poco dopo, il 23 giungo del 2011.

Chiamarlo caratterista è davvero troppo riduttivo, visto che è stato uno dei volti più noti del cinema e della televisione del Novecento. Se è vero che Falk deve molto al piccolo schermo, è vero anche che la sua bravura e la sua classe hanno contribuito a nobilitare la fiction televisiva.

Infine, è giusto ricordare Giampiero Albertini, indimenticabile voce italiana di Falk e del tenente Colombo fino al 1991.  

“Stranger Things” di Matt Duffer e Ross Duffer

(USA, 2016)

Normalmente si associano gli anni Ottanta ai capelli cotonati, ai piumini, agli orecchini a cerchi, alle maniche a palloncino o alle spalline abnormi, e – poveri noi –  alle scarpe ballerine (teribbili!). Ma negli anni Ottanta, fortunatamente, ci sono state anche altre cose. Come i film di Steven Spielberg o i grandi romanzi di Stephen King. E proprio a questi due grandi autori visionari, i fratelli Duffer si sono ispirati per realizzare questa serie tv prodotta da Netflix.

Ispirandosi anche alle atmosfere dello splendido “Super 8” di J.J. Abrams – altro grande omaggio a quegli anni – i Duffer ci portano a Hawinks, una piccola cittadina dell’Indiana, esattamente il 6 novembre del 1983, il giorno in cui scompare il dodicenne Will Byers (primo grande e irresistibile omaggione a “IT” di King). Sulla piccola località cala l’ombra di qualcosa di oscuro e “straniero” che proviene da un laboratorio governativo segreto situato nelle vicinanze (e qui “L’ombra dello Scorpione” dove me la mettete?!) il cui responsabile è il dottor Martin Brenner (un Matthew Modine truccato da assomigliare tanto a Keys/Peter Coyote di “E.T. – L’’Extraterrestre”). Scattano le ricerche del piccolo, quelle ufficiali guidate dallo sceriffo Jim Hopper (David Harbour), mentre quelle personali da Joyce Byers (Winona Ryder) e da Jonathan (Charlie Heaton), rispettivamente madre e fratello di Will. Le più fruttuose però sembrano essere quelle condotte da Mike, Dustin e Lucas (di nome non di cognome…), i tre compagni di scuola e amici del cuore del ragazzino (che vivono in simbiosi alle loro biciclette …eddaje!), che si imbattono in una strana e silenziosa loro coetanea. Ma tutti, comunque, troveranno misteri, enigmi e false piste fino a quando…

Godibilissima serie per amanti del brivido e amatori dei cult di trent’anni fa. Tanto per fare qualche esempio, nella camera di uno dei protagonisti c’è appesa al muro la locandina di “Dark Crystal” di Jim Henson. Oppure un poliziotto di guardia legge distrattamente un libro con sulla quarta di copertina la foto di un giovanissimo Stephen King. Per arrivare al titolo del IV episodio “The Body”, esattamente come quello originale del racconto dello stesso King da cui è stato tratto il film “Stand By Me – Ricordo di un’estate” di Rob Reiner. E basta, altrimenti non la smetto più e vi parlo anche delle citazioni dal piccolo cult “Scarlatti – Il thriller” diretto da Frank LaLoggia nel 1988.

Se Steven Spielberg, in un’intervista di allora, affermò che “E.T. – L’extraterrestre” era ciò che lui sognava di vivere con un alieno, mentre “Poltergeist – Demoniache presenze“ (da lui scritto ufficialmente, e co-diretto ufficiosamente) era quello che invece temeva di vivere con una forma aliena, “Stranger Things” è la risposta…

Per la chicca: sigla di testa davvero anni …Ottanta paura!

“I predatori dell’arca perduta” di Steven Spielberg

(USA, 1981)

Se all’incirca il 13% dei maggiori blockbuster hollywoodiani porta la firma di Steven Spielberg e George Lucas ci sarà un motivo!

E quando il primo decide di realizzare un’idea del secondo, le cose diventano ancora più spettacolari, e “I predatori dell’arca perduta” è il migliore degli esempi.

Spielberg riesce a portare sul grande schermo la storia geniale creata da Lucas, scritta insieme a Philip Kaufman e Lawrence Kasdan, sul professore universitario e archeologo d’azione che deve combattere i Nazisti, creando un nuovo linguaggio visivo che cambia per sempre il cinema d’avventura.

Il tutto farcito con una deliziosa e sorniona ironia che con il passare degli anni non perde un colpo.

Non voglio parlare dei sequel, fra cui l’unico degno di stima è “Indiana Jones e l’ultima crociata”, per non rovinare tutto (del quarto merita un pensiero solo l’affascinante caschetto nero della bella e crudele Cate Blanchett).

E pensare che per il ruolo da protagonista Spielberg voleva Tom Selleck, che però si era appena impegnato in maniera esclusiva nella serie “Magnum P.I.”, e Harrison Ford fu una sorta di “ripiego” suggerito da Lucas…

Quanto questo film ha inciso nell’immaginario collettivo? …Dopo averlo visto, dite la verità, i ruderi maya non sono più gli stessi!