“L’appartamento” di Billy Wilder

(USA, 1960)

C.C. Baxter (uno straordinario Jack Lemmon) è uno degli oltre trentamila dipendenti della compagnia assicurativa che ha la sua sede in uno dei grattacieli più grandi nel centro di Manhattan. Per evitare inutili e prolissi affollamenti, per tutti i numerosissimi impiegati – che superano in numero gli abitanti di Gallarate… – gli orari di entrata e di uscita sono scaglionati.

Nonostante questo, e perché alla propria anonima scrivania si può lavorare e basta in piena solitudine, uno dei maggiori punti d’incontro fra i dipendenti sono gli ascensori stessi, manovrati da un apposito personale. Baxter, quando ci riesce, preferisce sempre prendere quello alla cui pulsantiera c’è Fran Kubelik (Shirley MacLaine) per la quale non nasconde un debole.

Ma oltre Miss Kubelik, Baxter ha altri importanti progetti, come quello di diventare il prima possibile dirigente. Avendo intuito che le sue capacità probabilmente potrebbero non bastare, Baxter ha trovato, quasi per caso, una strada alternativa.

Visto che non è sposato e vive da solo, presta il suo piccolo appartamento in affitto ad alcuni dirigenti che lì possono consumare i propri incontri extraconiugali. I problemi inizieranno quando l’alto dirigente Jeff D. Sheldrake (Fred MacMurray) gli chiederà l’appartamento per i suoi incontri clandestini proprio con Miss Kubelik…

Billy Wilder scrive, assieme a I.A.L. Diamond, e poi dirige una delle commedie sentimentali più divertenti e al tempo stesse graffianti della seconda metà del Novecento. Perché il grande cineasta punta il dito sull’esasperante omologazione che la nuova rivoluzione industriale del secondo dopoguerra provoca negli individui, che diventano dei semplici e scoloriti numeri di matricola, appartenenti a mastodontiche società i cui vertici sono distanti e sconosciuti da tutti.

Questo calzante punto di vista, tema centrale dell’economia occidentale degli anni Cinquanta e Sessanta, accomuna questo film al toccante “I giganti uccidono” diretto da Fielder Cook nel 1956, che già nel decennio precedente lo anticipava.

Sempre come ispirazione, lo stesso Wilder dichiarò più di una volta che, fra le varie pellicole, quella che gli aveva fatto venire l’idea del soggetto era stata soprattutto lo splendido “Breve incontro” diretto da David Lean nel 1945, in cui i protagonisti hanno un incontro fugace in un appartamento “prestato” da un collega di lui. 

In originale in soggetto Wilder lo aveva pensato per una commedia teatrale, ma agli inizi degli anni Sessanta era impossibile ricreare in teatro una scenografia così imponente per degli uffici quasi senza fine. Su questo lo stesso Wilder dichiarò, inoltre, che per rendere sconfinato e impersonale il luogo di lavoro di C.C. Baxter, durante le riprese vennero usati specchi, mobili di dimensioni ridotte e persone affette da nanismo.  

La redenzione di C.C. Baxter ha a sua volta ha ispirato molte pellicole, fra le quali spicca senza dubbio “Harry ti presento Sally” diretta da Rob Reiner nel 1989, la cui scena finale calca di fatto, con canzone di fine anno e corsa verso l’amore della propria vita, quella di questo film.

La pellicola riscuote un grande successo di pubblico e vince premi in tutto il mondo: alla Mostra del Cinema di Venezia Shirley MacLaine vince la Coppa Volpi per la sua interpretazione, così come il Golden Globe assieme a Lemmon. In USA il film colleziona 10 candidature agli Oscar aggiudicandosene 5: miglior film, miglior regista, miglior sceneggiatura originale, miglior montaggio e migliore scenografia in bianco e nero.

Infine, non si possono non ricordare nella nostra versione i grandi artisti che donarono le voci ai protagonisti quando il film approdò nelle nostre sale, a partire da Giuseppe Rinaldi che doppia magistralmente Lemmon/C.C. Baxter il cui soprannome in italiano è “Ciccibello” mentre in originale è “Bud”, Maria Pia Di Meo doppia MacLaine/Bubelik e l’immortale Emilio Cigoli MacMurray/Shaldrake.      

Da vedere a intervalli regolari.  

“Prima pagina” di Billy Wilder

(USA, 1974)

Siamo agli inizi degli anni Settanta, e la carta stampata ma soprattutto la televisione plasmano, spesso senza remore, l’opinione pubblica. Così il grande Billy Wilder decide di riportare sul grande schermo la commedia teatrale “The Front Page” scritta da Ben Hecht (fra i più importanti e prolifici sceneggiatori della prima epoca d’oro di Hollywood, autore di script come “Scarface – Lo sfregiato”, “Pericolo pubblico n.1”, “Ombre rosse”, “Notorius – L’amante perduta” o “Nulla di serio“) e Charles MacArthur nel 1928, che già vanta numerosi adattamenti cinematografici a partire dall’omonimo “The Front Page” di Lewis Milestone del 1931, passando per il divertente “La signora del venerdì” diretto da Howard Hawks nel 1940 con Cary Grant e Rosalind Russell.

Quest’ultimo cambia il protagonista da Hildebrand ‘Hildy’ Johnson in Hildegard “Hildy” Johnson, facendone vestire i panni alla Russell, scelta narrativa importante e ispirata a Nellie Bly (1864-1922) la grande giornalista americana, collaboratrice di fiducia di Joseph Pultizer. Con lo stesso cambio narrativo, e ambientandolo direttamente negli studi di un network televisivo, Ted Kotcheff dirige nel 1988 “Cambio marito” con Burt Reynolds, nel ruolo del direttore, Kathleen Turner in quello della sua giornalista di punta – nonché sua ex moglie – e Christopher Reeve in quello del suo nuovo e ingenuo aspirante marito.

Billy Wilder, invece, assieme al suo fidato coscenaggiatore I.A.L. Diamond decide di rimanere fedele all’opera originale di Hecht e MacArthur, ambientandola l’anno dopo in cui venne per la prima volta rappresentata, il 1929. Chicago, per le 7.00 della mattina del 6 giugno è stata fissata l’esecuzione di Earl Williams (Austin Pendleton) condannato all’impiccagione per l’uccisione di un poliziotto, avvenuta mentre questi lo stava arrestando perché distribuiva volantini a favore dell’organizzazione anarchica e sinistrorsa “Friends of American Liberty”.

Anche se il colpo è partito involontariamente durante la colluttazione, Williams è stato condannato molto rapidamente, così da programmare la sua esecuzione proprio a ridosso delle elezioni. Il sindaco (Harold Gould) e lo sceriffo (Vincent Gardenia) hanno fatto di tutto per accelerare il processo proprio per poter sfruttare al meglio la situazione, visto poi che il poliziotto deceduto era di colore, si sono trovati fra le mani l’occasione per prendere anche i voti della comunità afroamericana della città.

Walter Burns (un arcigno e perfido Walter Matthau) direttore del “Chicago Examiner” ha messo sull’esecuzione il suo uomo migliore Hildebrand “Hildy” Johnson (Jack Lemmon) che però si è reso incredibilmente introvabile. Quando finalmente Hildy torna al giornale lo fa per presentare le sue dimissioni: la sera stessa partirà per Philadelphia per poi sposarsi nei giorni successivi con la candida Peggy (Susan Sarandon).

Burns sarà disposto a tutto, anche a mentire e truffare, pur di non perdere il suo miglior cronista, ma a mettere davvero nei guai Hildy sarà proprio il suo viscerale amore per il giornalismo…

Wilder dirige una commedia divertente e graffiante, atto d’accusa contro un certo tipo di giornalismo aggressivo e spietato, soprattutto con coloro che usa e poi getta via, come: ” …la prima pagina di un quotidiano che quando esce può fare molto scalpore, ma il giorno dopo è usata tranquillamente per incartare il pesce al mercato”, frase che lo stesso Burns pronuncia a Hildy.

A quasi cinquant’anni di distanza dalla sua uscita nelle sale americane, “Prima pagina” rimane sempre un’ottima commedia, vittima però di mode e superficialità che oggi sarebbero, giustamente, inaccettabili. Come la bassa stereotipizzazione dell’omosessualità del giornalista Bensiger (interpretato da David Wayne) che risulta ancora più evidente dalla grande dignità che Wilder e Diamond donano a Molly Malloy (interpretata da Carol Burnett) la prostituta dei bassi fondi innamorata di Williams.

Se Molly, che rappresenta gli ultimi della società, è il personaggio più puro e sincero del film – che ricorda molto quelli cantanti magistralmente dal grande Fabrizio De Andrè – Bensinger è “solo” un personaggio secondario bizzoso e antipatico, dai modi “strani” dei quali tutti possono ridere. D’altronde in Gran Bretagna solo sette anni prima la realizzazione di questo film l’omosessualità smise di essere reato.

I duetti fra Lemmon e Matthau sono comunque sempre irresistibili e indimenticabili, grazie anche agli attori di supporto, tutti grandi artisti, come i già citati Gardenia e Gould, a cui si aggiungono Charles Durning e Herb Edelman nei ruoli di alcuni giornalisti colleghi di Hildy.

Nella nostra versione a doppiare Matthau non è il grande Renato Turi, ma un altrettanto bravissimo Ferruccio Amendola, mentre Giuseppe Rinaldi dona come sempre magistralmente la voce a Lemmon.

“Non per soldi… ma per denaro” di Billy Wilder

(USA, 1966)

Se nel nostro immaginario lo stereotipo dell’avvocato arraffone e opportunista è l’Azzeccagarbugli de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni, nella cultura americana è senza dubbio lo scaltro Willie Gringrich – il cui cognome significa letteralmente “diventa ricco” – interpretato superbamente in questo film da un eccezionale Walter Matthau, che non a caso vince l’Oscar come miglior attore non protagonista.

Siamo a metà degli anni Sessanta e la società americana, come quella di tutto l’Occidente, sta cambiando molto rapidamente. Questo soprattutto – o purtroppo, dipende dai punti di vista… – grazie al nuovo mezzo di comunicazione di massa che è diventata la televisione. Nella storia della civiltà umana, dopo i racconti verbali tramandati per millenni, solo la radio era riuscita ad entrare capillarmente in ogni focolare domestico. Ma la scatola dei sogni ha anche le immagini e così sbaraglia ogni concorrenza e, soprattutto, ogni resistenza.

Altro grande pilastro sociale negli Stati Uniti è da sempre lo sport, e proprio in quegli anni, molto prima che da noi, qualcuno ha già pensato ai ricchi profitti che il connubio tv/sport può alimentare. E così approdiamo a Cleveland, la patria della squadra di football americano dei Cleveland Browns, proprio durante una partita del massimo campionato ripresa in diretta dalla CBS.

A riprendere i giocatori da bordo campo c’è l’esperto cameraman Harry Hinkle (Jack Lemmon) che proprio alla fine di un’azione di gioco viene travolto involontariamente dal giocatore dei Browns Luther “Boom Boom” Jackson (Ron Rich). Harry, rovinando sulla matassa del telo che copre il campo, perde conoscenza e viene portato in ospedale.

Al suo capezzale si precipitano sua madre (Lurene Tuttle) sua sorella Charlotte (Marge Redmond) e suo marito Willie Gringrich che sente subito l’odore di un risarcimento a sei zeri. Appena ripresosi Harry si sente solo indolenzito, ma Willie lo convince a fingere di avere perso l’uso di una gamba e di un braccio proprio a causa del trauma, visto poi che Charlotte gli ha raccontato che da bambino lui, cadendo dal tetto, si è incrinato una vertebra.

Hinkle si rifiuta categoricamente di mentire, ma il suo diabolico cognato alla fine riesce a convincerlo che il suo stato certamente farebbe tornare la sua ex moglie Sandy (Judi West), scappata un anno prima con un musicista per far decollare la sua carriera di cantante. Intanto, all’ospedale arriva trafelato e turbato “Boom Boom” Jackson, che non riesce a perdonarsi le gravi menomazioni che ha apparentemente causato a Harry.

Nonostante il prestigioso ed esperto studio legale – con tanto di investigatore privato fornito di macchina da presa e microfoni perimetrali – incaricato dall’assicurazione di verificare l’autenticità dei danni subiti da Hinkle, Willie Gringrich riesce ad organizzare un piano a prova di bomba. L’avvocato ha pensato proprio a tutto, tranne all’anima di suo cognato che è un illuso sì, ma onesto…

Superba commedia firmata dal grande Billy Wilder maestro indiscusso del genere hollywoodiano, che rappresenta una neanche troppo velata critica alla televisione e soprattutto al lato voyeuristico e opportunistico che questa fomenta nella società. Ne sono un esempio il morboso spionaggio di Chester Purkey (Cliff Osmond), l’investigatore privato che riprende ed ascolta 24 ore su 24 Hinkle per conto dello studio legale dell’assicurazione; e l’illusione di Sandy di poter diventare un’artista famosa solamente presentandosi “come si deve” in televisione.

Come tutte le opere del maestro Billy Wilder: graffiante e sempre attuale. La pellicola sancisce la definitiva ascesa di Walter Matthau nell’olimpo delle stelle di prima grandezza del firmamento del cinema americano. La bravura di Matthau, in questo ruolo, oscura anche quella del grandissimo Lemmon.

Per la chicca: il titolo originale del film è “The Fortune Cookie” e si riferisce al biscotto della fortuna che Harry apre e nel quale c’è la famosa frase di Abraham Lincoln – che lo stesso Willie Grigrich definisce: “un ottimo presidente, ma un pessimo avvocato…” – che dice: “Potete ingannare tutti per qualche tempo e alcuni per sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre”. Frase che forse Wilder e I.A.L. Diamond, autori della sceneggiatura, volevano riferire anche alla televisione? …Ai posteri l’ardua sentenza.

Da ricordare, nella nostra versione, gli stratosferici Renato Turi ed Emilio Cigoli che donano, come sempre superbamente, le voci rispettivamente e Walter Matthau e Jack Lemmon.

“Luv vuol dire amore?” di Clive Donner

(USA, 1967)

Nel 1964 furoreggia a Broadway “Luv”, commedia brillante scritta da Murray Schisgal (1926-2020) e diretta da Mike Nichols, che già aveva portato con successo sul palcoscenico le prime opere scritte dal grande Neil Simon.

Come spesso accade Hollywood decide di farne un film e sceglie un cast davvero di prim’ordine a partire dal Jack Lemmon nei panni di Harry Berlin, Peter Falk in quelli di Milt Manville ed Elaine May nelle vesti di Ellen Manville. Lemmon e Falk tornano a recitare insieme dopo l’esilarante “La grande corsa” diretto da Blake Edwards nel 1965. Per la May, invece, che diventerà nel corso degli anni una delle attrici, sceneggiatrici e registe più rilevanti degli Stati Uniti, rappresenta il primo vero e proprio ruolo da protagonista davanti alla macchina da presa.

Proprio assieme allo stesso Mike Nichols, la May negli anni Cinquanta formò un duo comico e cabarettistico indimenticabile e di enorme successo non solo a Broadway, tanto che le registrazioni dei loro spettacoli ancora sono ascoltate e studiate. Ma l’arte e il genio della May non si limitano solo al brillante: nel 1976, infatti, dirige lo stesso Peter Falk assieme a John Cassavetes nel duro e cupo “Mickey & Nicky” di cui firma anche la sceneggiatura.

Ma torniamo alla pellicola di Donner che si apre su uno dei lunghissimi ponti che collegano Manhattan al resto della città. Lo sconsolato e depresso Harry Berlin cammina senza una meta fino a quando trova una panchina dalla quale sale sul parapetto del ponte con l’intenzione di gettarsi nel fiume Hudson. Ma proprio mentre Harry sta per lanciarsi arriva su uno scooter un uomo che si ferma per osservare un vecchio paralume che qualcuno ha gettato nel cestino dei rifiuti accanto alla panchina dove è salito Harry.

Fortunatamente l’uomo, che si chiama Milt, riconosce in Harry il suo vecchio compagno di college e lo convince a scendere per andare a bere qualcosa assieme. Nel pub Harry racconta al suo vecchio amico di come non creda più in nulla: la sua vita è vuota visto che non ha mai incontrato l’amore. A Milt viene in mente un’idea che risolverebbe i problemi a entrambe: andare a cena da lui e conoscere sua moglie Ellen.

Il loro matrimonio è ormai in crisi e Milt si è innamorato della bella, giovane e assai prosperosa insegnante di ginnastica Linda (Nina Wayne). Se Harry riesce a far innamorare Ellen, questa gli concederà il divorzio permettendogli così finalmente di sposare Linda. Ma, come dice un vecchio detto: i piani (…soprattutto in amore) li rispetta solo l’ascensore…

Divertente commedia sopra le righe nella quale si respira ancora oggi l’aria frizzante dei Sessanta e dove si parla con serenità, senza ipocrisia o falsi moralismi, di sessualità e di omosessualità. Un piccolo gioiellino, forse un pò troppo legato al mondo di allora, che però rimane godibile fino all’ultimo fotogramma soprattutto per il suo splendido cast.

Per la chicca: nei panni di uno scorbutico automobilista che colpisce dritto sul naso il povero Harry c’è un giovane e allora sconosciuto Harrison Ford, che proprio in quel periodo stava facendo i provini col maestro Stanley Kubrick per il ruolo da protagonista di “2001: odissea nello spazio”. Ruolo che poi venne affidato a Keir Dullea.

“Un provinciale a New York” di Arthur Hiller

(USA, 1970)

Già dai titoli di testa questa deliziosa commedia – il cui titolo originale è “The Out-of-Towners” che tradotto letteralmente sarebbe “I fuoricittà” – scritta dal grande Neil Simon, ci pone l’amletica dicotomia fra lo stile di vita della grande e nevrotica città e quello mite e pacifico della provincia.

Così approdiamo nella piccola cittadina dell’Ohio dove vive la famiglia Kellerman, proprio mentre George (un sempre grande Jack Lemmon) e Gwen (una bravissima Sandy Dennis) stanno salutando i loro figli per andare all’aeroporto dove prenderanno il volo che li porterà a New York. Nella Grande Mela, infatti, George è atteso per un colloquio di lavoro importantissimo. Lui al momento è il capace responsabile della succursale dell’Ohio di una grande azienda che produce elementi plastici di precisione, e l’amministratore delegato lo vuole a New York, nella sede centrale, come vice presidente.

Ma il suo carattere ansioso e la sua ulcera non sembrano adatti alla vita irrefrenabile di una grande città come New York, nonostante l’indole sempre conciliante e pacifica della sua compagna di vita e madre dei suoi figli. E se poi ci mettiamo che la Grande Mela non fa sconti a nessuno, già prima di atterrare, la situazione diventa esplosiva…

Originale e spassosa commedia che è una sorta di versione comica e leggera de “I giganti uccidono” diretto da Fielder Cook nel 1956, con in più il magico tocco dell’inarrivabile Neil Simon. Da ricordare i due grandi interpreti che ci fanno passare assai velocemente 94 minuti davvero divertenti e ironici. A proposito degli interpreti bisogna sottolineare la grande bravura della Dennis che riesce a eguagliare lo stratosferico Lemmon, dimostrandosi una “spalla” esemplare (anche se in questo caso è un termine davvero riduttivo) che nulla ha da invidiare, per esempio, al magistrale Walter Matthau che come spalla di Lemmon in “Non per soldi ma per denaro” del 1966 vinse l’Oscar come miglior attore non protagonista.

Nella nostra versione è impossibile non ricordare Giuseppe Rinaldi che dona in maniera meravigliosa la voce a Lemmon, così come la bravissima Maria Pia Di Meo alla Dennis.

Per la chicca prima: il “girotondo”, cioè il sorvolamento circolare sopra New York degli aerei di linea che spesso durava molte ore e causato dall’enorme traffico che investiva soprattutto negli anni Sessanta e Settanta l’aeroporto internazionale “J.F.K.” e di cui i Kellerman sono vittime, è lo stesso alla base del testo della canzone “Arthur’s Theme (Best That You Can Do)” scritta da Peter Allen W. e Burt Bacharach nonché cantata da Christopher Cross e appartenente alla colonna sonora del film “Arturo” (canzone vincitrice dell’Oscar e del Golden Globe, nonché nota in tutto il mondo). Nello specifico proprio del verso del ritornello “When you get caught between the Moon and New York City…” scritto da Allen proprio sull’aereo che da ore sorvolava New York in attesa di avere una pista libera per atterrare.    

Per la chicca seconda: a interpretare il cortese addetto della compagnia aerea che a Boston comunica ai Kellerman lo smarrimento del loro bagaglio è l’attore Billy Dee Williams che qualche anno dopo vestirà i panni di Lando Carlissian nella saga di “Guerre Stellari”.

“La strana coppia” di Gene Saks

(USA, 1968)

Neil Simon, fresco del successo a Broadway della sua deliziosa commedia “A piedi nudi nel parco”, andata in scena per la prima volta nel 1963, torna a Los Angeles per passare un pò di tempo assieme al fratello Danny Simon. Nella seconda metà degli anni Cinquanta i due, infatti, fra i più richiesti autori comici televisivi, avevano lasciato la nativa New York per Los Angeles, allora cuore pulsante del piccolo schermo.

Delle capacità creative di Danny Simon – il maggiore fra i due – oltre a raccontarcele lo stesso Neil, anche Woody Allen – che allora era pure lui un giovanissimo autore televisivo di successo – nella sua deliziosa autobiografia “A proposito di niente” ce le ricorda con molta stima, considerando lo stesso Danny Simon un vero e proprio mentore della comicità.

Ma torniamo a Neil Simon che a differenza del fratello, alla soglia dei Sessanta, decide di fare il commediografo e di tornare nella Grande Mela, cosa che di fatto rompe il sodalizio di autori nato già durante l’adolescenza, ma non certo l’affetto e la stima reciproca.

Così Neil torna a passare un pò di tempo con Danny, ma quest’ultimo ha da poco divorziato e, per mere ragioni economiche, è costretto a dividere l’appartamento con un amico anche lui da poco separato.

Durate quella vacanza californiana a Neil si accende una lampadina in testa e, tornato a New York, inizia subito a scrivere la sua nuova commedia “La strana coppia” che debutterà a Broadway il 3 ottobre del 1965 riscuotendo un nuovo clamoroso successo. Non è un caso quindi se Neil dividerà le royalty della commedia col Danny.

Così Hollywood, tre anni dopo, decide di realizzare l’adattamento cinematografico mantenendo Walter Matthau nel ruolo di Oscar, mentre in quello di Felix Art Carney viene sostituito da Jack Lemmon. La sceneggiatura viene affidata allo stesso Simon che inserisce alcune scene all’aperto, ma mantiene fedelmente lo sviluppo della commedia originale. Dietro la macchina da presa c’è Gene Saks che l’anno precedente aveva diretto l’adattamento cinematografico di “A piedi nudi nel parco” con Robert Redford e Jane Fonda.

Lo scontro fra i due caratteri diametralmente opposti di Oscar e Felix, ancora oggi, nonostante gli oltre cinquant’anni del film, è sempre irresistibile, così come alcune battute che sono ancora oggi esilaranti.

Nella versione originale in italiano, ancora oggi possiamo godere della notevole arte di due grandi attori e straordinari doppiatori Renato Turi e Giuseppe Rinaldi che donano la voce superbamente e rispettivamente a Oscar e Felix.

Da vedere e rivedere.

“Oggi sposi: sentite condoglianze” di Melville Shavelson

(USA, 1972)

James Thurber (1894-1961) è stato uno dei collaboratori più rilevanti de “The New Yorker”. Ha iniziato come giornalista per poi scrivere racconti e vignette satiriche. Dalle sue opere sono state tratte molte commedie brillanti come “L’uomo questo dominatore” di Elliot Nugent del 1942, “Sogni proibiti ” con Danny Kaye e diretto da Norman Z. McLeod del 1947,”La battaglia dei sessi” di Charles Crichton nel 1960, o “I sogni segreti di Walter Mitty” diretto da Ben Stiller nel 2013.

L’argomento preferito da Thruber era quindi il rapporto, sempre assai complicato e burrascoso, fra donne e uomini. Dai suoi scritti, e soprattutto dalle sue vignette, è ispirato questo film.

Peter Wilson (un bravissimo, come sempre, Jack Lemmon) è un vignettista misantropo e solitario che vive orgogliosamente da scapolo impenitente. Ha raggiunto la mezza età senza mai scivolare nella “trappola” di un matrimonio, cosa che lo rende orgogliosamente fiero.

Da bambino, però, Peter ha avuto un incidente che gli ha causato la perdita dell’occhio sinistro. Col passare degli anni e, soprattutto a causa della sua totale noncuranza, anche l’occhio destro ha cominciato a dargli problemi. E quando decide di rivolgersi ad uno specialista scopre che forse è troppo tardi. Il medico, infatti, gli rivela che l’unica possibilità che ha di mantenere la vista, o almeno una parte di essa, è una complicata e rischiosa operazione.

Proprio uscendo dallo studio dell’oculista Peter si imbatte in Terry Kozlenko (Barbara Harris) agente editoriale di una nota casa editrice newyorkese. Anche se Terry è divorziata con tre figli poco meno che adolescenti a carico ed un cane piccolo ma molto rumoroso, Peter non può evitare di innamorarsi di lei. Ma il giorno delle loro nozze piomba alla cerimonia Stephen Kozlenko (Jason Robards) diametralmente opposto nel bene e nel male a Peter, ex marito di Terry e padre dei suoi figli, nonché fotografo di guerra stimato e premiato in tutto il mondo che…

Per comprendere al meglio quanto questo film riprenda la vita vera di Thurber basta pensare che nella realtà lui stesso, da piccolo e giocando coi suoi fratelli, perse l’occhio sinistro e che col passare degli anni i suoi problemi di vista si fecero sempre più gravi. Ma questo non gli impedì minimamente di osservare il mondo e commentarlo con i suoi scritti e le sue indimenticabili e caustiche vignette.

La sceneggiatura è scritta dallo stesso Melville Shavelson assieme a Danny Arnold che insieme, solo qualche anno prima, collaborarono alla storica serie televisiva “Il fantastico mondo di Mr. Monroe”, anch’essa ispirata alle opere di Thurber, creata da Shavelson, e il cui protagonista è un vignettista che quotidianamente è vittima della sua numerosa famiglia alla quale riesce a sopravvivere grazie solo ai suoi disegni.

“La grande corsa” di Blake Edwards

(USA, 1965)

Il maestro della commedia americana Blake Edwards dirige la coppia dell’immortale “A qualcuno piace caldo” in un’altra pellicola in costume.

Stati Uniti 1908: uno dei più grandi intrattenitori nazionali è il Grande Leslie (Tony Curtis) che con le sue acrobazie incanta centinaia di persone sfidando la morte, sempre in un impeccabile abito bianco. Suo acerrimo nemico è il Professor Fato (un esilarante Jack Lemmon), vestito immancabilmente di nero che, con il suo assistente Carmelo (un altrettanto spassoso Peter Falk, che in originale si chiama Maximilian) tenta vanamente di boicottare le sue imprese.

Il Grande Leslie, che ama la velocità e le automobili, propone ai più grandi costruttori di macchine americani di indire una corsa intercontinentale che partirà da New York per raggiungere Parigi. E per tale gara costruirgli un’automobile fatta a posta per lui. L’evento ha subito un’eco straordinaria e alla competizione si iscrive, ovviamente, anche il professor Fato. Fra i concorrenti c’è anche la giornalista suffragetta Maggie Dubois (Natalie Wood) personaggio ispirato alla vera Nellie Bly. Ma…

Esilarante commedia road movie con le classiche scene e gag di massa che si incastrano alla perfezione, scene di cui il regista era un maestro assoluto. Scritta dallo stesso Edwards assieme ad Arthur A. Ross, “La grande corsa” si ispira ad una vera gara partita da New York e finita a Parigi, svoltasi nel 1908, ma per il resto è tutto frutto della fantasia dei suoi autori che omaggiano in ogni scena il grande cinema comico muto, fatto di geniali trovate fisiche e visive. Non è un caso, quindi, la dedica che Edwards scrive prima dei titoli di testa “ai Signori Stan Laurel & Oliver Hardy”.

A parte, il divertente richiamo al film “Il prigioniero di Zenda” del 1952 (tratto dal romanzo di Anthony Hope) grazie al quale Lemmon interpreta straordinariamente il doppio personaggio del Professor Fato e dell’eccentrico Principe Frederick Hoepnick.

Per la chicca: visto il successo al botteghino, nel 1968 la Hanna-Barbera produsse una serie animata per la tv ispirata – non ufficialmente – al film. Si tratta di “Le Corse Pazze”, che in originale è “Wacky Race”, con il memorabile e perfido Dick Dastardly e il suo assistente Muttley che molto devono al Professor Fato e Carmelo.

Nella nostra versione originale c’è lo straordinario doppiaggio fatto da Giuseppe Rinaldi che dona la voce a Lemmon, Pino Locchi a Curtis e Valeria Valeri alla Wood.

“Prigioniero della Seconda Strada” di Melvin Frank

(USA, 1975)

Mel Edison (un grande Jack Lemmon) è un uomo di mezza età felicemente sposato con Edna (Anne Bancroft), con le figlie che frequentano un ottimo college, e un lavoro di responsabilità da oltre vent’anni, presso un’importante azienda newyorkese.

In una delle giornate più calde e afose dell’anno, inizia per Mel la sua personale discesa agli inferi: litiga con il vicino di casa che gli getta una secchiata d’acqua addosso nonostante l’acqua e la corrente arrivino a singhiozzo, il condizionatore è bloccato su 2 gradi, il suo appartamento viene svaligiato e, soprattutto, viene licenziato.

Grazie all’amore di sua moglie – e a una minacciosa e inquietante pala da neve… – però Mel riuscirà a riprendersi…

Ottima commedia intimista con due protagonisti davvero molto bravi, tratta da un pièce teatrale scritta dal grande Neil Simon nel 1971, e di cui lo stesso Simon cura la sceneggiatura. Nel cast, oltre a Lemmon e la Bancroft, spicca Gene Saks – nei panni del fratello maggiore di Mel – regista di “A piedi nudi nel parco” e “Fiore di Cactus”, nonché collaboratore stretto dello stesso Simon.

Per la chicca: nella pellicola appaiono in ruoli marginali F. Murray Abraham e un giovane e sconosciuto Sylvester Stallone che viene aggredito e picchiato dallo stesso Mel, proprio pochi mesi prima di iniziare a girare il suo primo “Rocky”.

Il dvd, fortunatamente, offre il doppiaggio originale fatto per l’uscita in Italia del film con le voci indimenticabili di Giuseppe Rinaldi e Anna Miserocchi, fra i più bravi doppiatori italiani di sempre.  

“Sindrome Cinese” di James Bridges

(USA, 1979)

Il 16 marzo del 1979 usciva nelle sale statunitensi “Sindrome Cinese”, scritto da Mike Gray, T.S. Cook e lo stesso James Bridges che lo dirige. Il cast è di notevole caratura: Jane Fonda, l’attrice del momento e Jack Lemmon, una delle glorie della grande commedia hollywoodiana, questa volta in veste drammatica.

A produrlo è una delle più promettenti giovani menti del momento (e già premio Oscar come produttore per “Qualcuno volò sul nido del cuculo” di Milos Forman) Michael Douglas, che ha una parte anche come attore nel cast.

Il film viene etichettato dai sostenitori del nucleare come inutilmente allarmista e superficialmente ambientalista, come la solita propaganda ottusa contro il progresso e lo sviluppo economico.

Alle 4.00 del mattino di mercoledì 28 marzo 1979, solo dodici giorni dopo, nell’unità 2 della centrale nucleare sulla Three Miles Island, nella contea di Dauphin in Pennsylvania, ci fu un blocco della portata di alimentazione ai generatori di vapore. La successiva procedura di normalizzazione venne interrotta da una valvola di rilascio che erroneamente non si chiuse, e durante l’incidente ci fu una pericolosissima fusione parziale del nocciolo che portò al rilascio nell’aria di piccole quantità di gas e iodio radioattivi.

Ancora oggi – fortunatamente – l’evento di Three Miles Island è considerato l’incidente nucleare più grave avvenuto nel suolo degli Stati Uniti. Basta pensare che per smaltire l’unità 2 ci sono voluti 13 anni e quello dell’unità 1 della centrale è previsto, per ragioni di sicurezza, nel 2034. Possiamo allora dire che Douglas fu un produttore particolarmente fortunato, visto che il dramma della piccola isola della Pennsylvania catapultò il suo film al centro dell’attenzione planetaria?

Oppure dobbiamo dire che Douglas è un produttore molto attento a quelle che sono le problematiche e i lati più oscuri della società contemporanea, come la gestione dei disabili mentali (con “Qualcuno volò sul nido del cuculo”), o l’arroganza impunita delle grandi lobby internazionali (con “L’uomo della pioggia” e “Wall Street – Il denaro non dorme mai”)?

Certo è che il film da lui prodotto descrive incredibilmente un incidente simile a quello che accadde davvero a Three Miles Island, e portò sotto gli occhi di tutti gli incredibili pericoli legati all’energia nucleare.

Kimberly Wells (una sempre brava e bella Jane Fonda, che sfoggia una lunga e seducente chioma rosso fuoco) è una presentatrice del locale canale televisivo. Kimberly vorrebbe fare la giornalista vera e propria, ma il suo aspetto piacente la “condanna” a servizi banali e d’intrattenimento.

La stessa grande multinazionale che gestisce la centrale nucleare di Ventana, alle porte della città, sta per ottenere del Governo le licenze per una nuova centrale in uno stato limitrofo. Così, per tranquillizzare l’opinione pubblica, il responsabile della comunicazione della grande azienda organizza un servizio televisivo all’interno della centrale. Viene inviata la bella Kimberly come intervistatrice e il cameraman indipendente Richard Adams (Michael Douglas).

Tutto procede secondo i piani, ma quando la piccola troupe arriva nei pressi della centrale di comando, dove sono interdette le riprese, qualcosa fa scattare l’allarme. Il direttore operativo di turno Jack Godell (un grande Lemmon) e tutti i suoi uomini rimangono pietrificati da quello che sta accadendo e soprattutto dal fatto che le indicazioni dei vari strumenti non coincidono. Grazie alla prontezza di Godell però si evita il peggio e l’allarme finalmente rientra.

Kimberly e Richard vengono congedati con molta gentilezza e rassicurati che ciò che hanno visto era un semplice e frequente inconveniente di gestione. All’insaputa di tutti però Adams ha ripreso ogni istante della crisi, e vorrebbe fare subito un pezzo da trasmettere il giorno stesso. Ma il network si fa consegnare il filmato e lo chiude in archivio, non volendo inimicarsi una multinazionale così potente.

Intanto, alla centrale solo Jake Godell è tremendamente preoccupato per l’accaduto e inizia un’indagine personale, scoprendo e che molti protocolli di sicurezza sono stati infranti durante la costruzione della centrale stessa. Contatta Kimberly che insieme a Richard vuole portare le prove di tali infrazioni davanti alla Commissione di Sicurezza del Governo, ma…

I disastri ambientali di Chernobyl prima e Fukushima poi non hanno fatto altro che confermare le paure raccontante in questo bel film; e con tutte le forme energetiche alternative, finalmente il nucleare è entrato davvero in discussione.

Per la chicca: la Sindrome Cinese era una teoria secondo la quale la fusione del nocciolo di una centrale nucleare sarebbe un evento così ingestibile tanto da non poter essere in alcun modo contenuto, neanche dalla crosta terrestre. Per cui il nocciolo bucherebbe tutto, sbucando dall’altra parte del globo, in Cina appunto.

Ma l’incidente di Three Miles Island (quello di Cernobyl venne causato dall’esplosione chimica di un reattore) avallando tutta l’ipotesi del film, ha dimostrato allo stesso tempo che la tesi della Sindrome Cinese non è concreta, visto che il nocciolo venne comunque contenuto dalla struttura.