“Mercoledì” di Alfred Gough e Miles Millar

(USA, 2022)

Basata sulle strisce di Charles Addams (1912-1988), questa serie tv in otto puntate ci racconta in maniera molto originale il periodo più oscuro e “gotico” della nostra esistenza che è la perfida adolescenza.

I creatori Alfred Gough e Miles Millar si sono ispirati, oltre che all’opera di Addams, anche ai vari precedenti adattamenti di questa sia per la televisione, come la mitica serie “La famiglia Addams” che andò in onda dal 1964 al 1966 per poi venire replicata ad intervalli regolari nei decenni successivi; sia per il cinema dove a partire dal 1991 si sono susseguiti vari adattamenti fra cui spiccano la prima, in cui a vestire i panni di Mercoledì era una giovanissima ed esordiente Christina Ricci, fino a “La famiglia Addams” del 2019, realizzata in animazione 3D – che ha avuto un sequel non all’altezza nel 2021 – in cui la protagonista e fulcro del plot è proprio Mercoledì.

Così ci troviamo al cospetto di Mercoledì Addams (Jenna Ortega), la dark teenagers per eccellenza, che fa un’estrema fatica ad ambientarsi nella propria famiglia fra gli enormi attriti che ha con sua madre Morticia (Catherine Zeta-Jones) e l’incolmabile lontananza emotiva con suo padre Gomez (Luis Guzmán). Dopo l’ennesima espulsione Mercoledì viene mandata alla Nevermore Academy, la scuola per “reietti” il cui più illustre studente è stato il grande Edgar Allan Poe, e che ha avuto fra i propri banchi anche Morticia e Gomez Addams, che proprio lì hanno iniziato la loro duratura relazione.

A dirigere l’istituto è la preside Larissa Weems (Gwendoline Christie) – ex compagna di stanza di Morticia – che viste le fredde inesorabili e micidiali reazioni a chi la infastidisce, obbliga Mercoledì a frequentare delle seduta di analisi presso la dottoressa Kinbott (Riki Lindhome). Ma la cittadina nei pressi della quale sorge la Nevermore Academy, nonostante questa sia alla base della propria economia, mal sopporta la vicinanza coi “reietti” che hanno poteri che i “normali” esseri umani non possiedono. La situazione rischia di degenerare quando lo sceriffo inizia a trovare, nei boschi che circondano la Nevermore, alcuni cadaveri fatti a pezzi…

Godibilissima e sfiziosa serie dark per eccellenza, con una protagonista che tutti avremmo voluto avere come compagna di classe durante la nostra adolescenza. Colma di deliziose citazioni del più classico cinema horror o di suspense, questa “Mercoledì” è da vedere, e non solo per gli amanti del genere.

Fedele nello spirito all’opera originale di Charles Addams, che con le sue strisce quotidiane punzecchiava la scintillante way of life americana centrata soprattutto sull’apparenza e non sulla sostanza, “Mercoledì” ci ricorda che i mostri più crudeli spesso si celano sotto l’aspetto più presentabile e innocente.

I primi quattro episodi sono diretti dal maestro Tim Burton, che dona alla serie una strepitosa luce gotica e assai inquietante. Non è un caso, per esempio, che Burton abbia diretto in precedenza Christina Ricci ne “Il mistero di Sleepy Hollow“.

“ONI: la leggenda del dio del tuono” di Daisuke ‘Dice’ Tsutsumi

(USA/Giappone, 2022)

La feroce urbanizzazione che, ormai da molti decenni, in Giappone sta riducendo inesorabilmente la vegetazione selvatica è una triste realtà che il cinema d’animazione del Sol Levante denuncia da tempo.

Oltre ai numerosi ed espliciti richiami che il maestro Hayao Miyazaki ha fatto in tutte le sue opere, il film “Pom Poko” di Isao Takahata, storico collaboratore di Miyazaki, prodotto dalla Studio Ghibli nel 1994 centra la sua storia sull’indiscriminata urbanizzazione raccontandola dal punto di vista dei Tanuki, creature mitiche della cultura orientale, protagonisti di numerosi miti e leggende.

Questa deliziosa mini serie d’animazione in stop motion, in quattro episodi da circa 50 minuti l’uno, riprende il tema portandoci nel cuore del Monte dei Kami, dove vivono gli spiriti più antichi della tradizione giapponese.

Fra i più piccoli c’è Onari, una bambina dalle piccole corna, figlia di Naridon, un grande e imponente spirito rosso con una folta chioma nera, che si prende cura di lei con amore sconfinato. Si avvicina però la fatidica notte della Luna Demoniaca – la luna rossa – che segna il terribile attacco da parte dei famigerati Oni ai danni del villaggio.

Tutti si preparano, anche i più piccoli che cercano di far sbocciare il più rapidamente possibile il loro potere di spirito. L’unica che non riesce a capire quale sia il suo è proprio Onari, che inizia così ad entrare in crisi. Inoltre, la piccola tenta in ogni modo di capire chi sia sua madre, della quale Naridon ha sempre rifiutato di parlare.

Nel suo doloroso ma indimenticabile viaggio Onari scoprirà molte cose, soprattutto che il mondo, che possa essere freddamente reale o magnificamente fantastico, non è inesorabilmente tutto bianco o tutto nero. E la contaminazione non è detto che sia sempre nociva e negativa…

Frutto di una coproduzione fra i due Paesi leader nella produzione mondiale di cartoni animati, questa serie “ONI: la leggenda del dio del tuono” merita di essere vista per la sua poesia che ci riconcilia col mondo frenetico e rumoroso in cui viviamo.

“Vatican Girl: la scomparsa di Emanuela Orlandi” di Mark Lewis

(UK/Italia, 2022)

Il 22 giugno del 1983 scompare Emanuela Orlandi, una quindicenne romana “come tante”, che inspiegabilmente non rientra a casa. Ma Emanuela è una giovane abitudinaria e così i suoi familiari si allertano subito. Nello stesso giorno Giovanni Paolo II torna per la prima volta da Pontefice in Polonia.

E’ una vista epocale: la Polonia fa parte del blocco sovietico e l’ingombrante viaggio del Santo Padre è un chiaro attacco al regime di Mosca, visto poi che Karol Wojtyła ha chiaramente affermato di voler riportare il cattolicesimo oltre cortina e, soprattutto, appoggia pubblicamente e materialmente “Solidarność”, il sindacato fondato nel 1980 nei cantieri navali di Danzica e guidato da Lech Wałęsa che è diventato una delle più imponenti spine nel fianco del blocco sovietico.

A Roma, intanto, solo il giorno dopo viene fatta redigere la denuncia di scomparsa della giovane Orlandi, che gli inquirenti considerano uno dei numerosi – in quell’epoca – allontanamenti volontari di giovani adolescenti.

La famiglia Orlandi precipita naturalmente nella disperazione perché Emanuela sembra essersi volatilizzata nel nulla, senza lasciare traccia. Pochi giorni dopo, inaspettatamente, anche Giovanni Paolo II rientrato in Vaticano, all’Angelus lancia un appello ai “responsabili” della scomparsa di Emanuela. Ercole Orlandi, disperato, decide di pubblicare un’inserzione su un noto quotidiano romano chiedendo informazioni sulla figlia, mettendoci anche il numero di telefono di casa.

Cosa che fanno anche sui manifesti che stampano a loro spese a che vengono attaccati su quasi tutti i muri di Roma. Manifesti che io personalmente ricordo benissimo, visto che era quasi impossibile non incontrali camminando per la capitale, e che nel bene e nel male hanno segnato l’iconografia sociale di quegli anni. Inizia così un nuovo tormento per gli Orlandi: le continue vessazioni da parte di mitomani e sciacalli.

Ma fra le centinaia di telefonate arriva anche quella anonima di un uomo che possiede notizie attendibili su Emanuela. E in una di queste afferma che la ragazza è stata rapita e sarà rilasciata solo dopo la scarcerazione di Mehmet Ali Ağca, l’autore dell’attentato a Giovanni Paolo II avvenuto in piazza San Pietro il 13 maggio del 1981. La cosa cambia immediatamente la prospettiva della scomparsa di Emanuela che viene prepotentemente messa al centro dell’attenzione di tutti i media, e non solo italiani.

La Orlandi così non è più una ragazza “come tante”, ma è la vittima di un complotto internazionale al centro della guerra fredda fra Occidente e Oriente. A casa sua arrivano gli uomini dei Servizi Segreti italiani che prendono in mano la situazione. Al “Corriere della Sera” è un giovane reporter romano che si occupa del caso: Andrea Purgatori. E’ lui stesso a raccontarci, in questa ottima serie in 4 puntate, il corso delle sue indagini, parallele a quelle degli inquirenti.

Dopo le prime telefonate e l’associazione di Emanuela ad Ağca, l'”americano” – così viene chiamata la persona che le effettua, grazie al suo marcato accento inglese – inizia a contraddirsi e a non seguire una linea precisa. Per questo Purgatori si rivolge a una delle sue fonti, che in quel momento ha un ruolo di rilievo nei nostri Servizi Segreti, la quale gli esprime la massima perplessità sulla tesi che in quel momento va per la maggiore, e cioè che dietro il rapimento di Emanuela ci sia il KGB, l’intelligence sovietica, che non sarebbe assolutamente così vago e contraddittorio.

Allora Purgatori concentra l’attenzione su un’altra pista, una pista legata alla finanza vaticana che attraverso l’Arcivescovo Paul Marcinkus, presidente dello IOR – l’Istituto per le Opere Religiose, la banca del Vaticano – si era legata al Banco Ambrosiano e al suo presidente Roberto Calvi, trovato impiccato a Londra esattamente un anno prima. E Purgatori ipotizza proprio nelle centinaia di miliardi di lire che lo IOR versa a “Solidarność”, soldi che escono dai vari giri finanziari a cui partecipa anche la criminalità organizzata – che allora a Roma era la famigerata Banda della Magliana – il motivo di scontro che ha portato al rapimento di Emanuela Orlandi, prima cittadina vaticana a scomparire nella storia.

L’articolo non riscuote apparentemente un particolare successo, ma l’allora direttore del Corriere Alberto Cavallari chiede al giornalista di “fare un passo indietro” e occuparsi di altro. Andrea Purgatori così comprende di avere toccato un nervo scoperto e molto delicato, probabilmente assai vicino alla verità.

Passano gli anni ma di Emanuela non si hanno più tracce, e la famiglia Orlandi deve accettare di vivere con l’atroce consapevolezza di non poter portare neanche un fiore sulla sua tomba. La situazione cambia quando nel 2005, pochi mesi dopo la morte di Wojtyła un anonimo, attraverso la trasmissione “Chi l’ha visto?”, pone i riflettori sulla tomba di Enrico De Pedis, detto “Renatino”, boss indiscusso della Banda della Magliana, freddato in strada nei pressi di Campo de’ Fiori nel 1990, e che risulta tumulato incredibilmente e “inspiegabilmente” presso la Basilica di Sant’Apollinare nel cuore di Roma, edificio adiacente a quello della scuola di musica, ultimo luogo noto dove venne vista Emanuela Orlandi.

Sulla scia di queste nuove rivelazioni venne rintracciata una delle amanti del De Pedis all’epoca del rapimento, che dichiara di avere tenuto lei prigioniera, nella sua casa al mare sul litorale romano, Emanuela Orlandi per qualche giorno su richiesta proprio del suo amante. Secondo la donna, la ragazza era continuamente drogata per non dare problemi. Dopo alcuni spostamenti, fu lei stessa – sempre secondo la sua testimonianza – su incarico del De Pedis a consegnarla a un prelato proprio nei pressi delle mura vaticane.

Le teorie prendono un’altra piega e gli inquirenti cercano nuove conferme e nuove piste, tutte comunque portano inesorabilmente dentro le mura dello Stato più piccolo del mondo. Un nuovo elemento che pone un ulteriore punto di vista è la recente testimonianza di una allora compagna di scuola della Orlandi secondo la quale la stessa, pochi giorni prima di scomparire, le aveva confessato di essere stata gravemente “molestata” durante il suo solito girovagare nei giardini vaticani da un’importante personalità molto vicina al Papa, come ad esempio avrebbe potuto essere Marcinkus.

Purtroppo i casi di pedofilia e molestie sessuali riconducibili al Vaticano e al suo clero fanno ormai parte della storia recente, ma allora non era concepibile neanche sussurrarli. E così chi avrebbe creduto a una ragazzina? …Si chiede in lacrime oggi la donna. Le ipotesi sono molte, come quella di un ricatto da parte del De Pedis al Vaticano tramite proprio la giovane Emanuela vittima suo malgrado di un abuso da parte di un alto prelato.

A quasi quarant’anni dalla sua scomparsa l’unica cosa certa è che dietro le mura vaticane si nascondono la dinamica e la conclusione – se non tutte almeno una buona parte – del rapimento e della vita di una giovane adolescente romana. Come ci ricorda Purgatori, però, sono duemila anni che la Santa Sede è uno dei più potenti centri di potere mondiali, e quindi allo stesso tempo è anche luogo di complotti e lotte intestine senza esclusioni di colpi. Lotte e scontri che hanno avuto forse come tragico “effetto collaterale” la vita di una giovane e innocente ragazza e di tutta la sua famiglia che ancora oggi vive nello strazio del dubbio e dell’ignoto.

Quello che ancora oggi lascia sconcertati è vedere le immagini di repertorio in cui Giovanni Paolo II, poche settimane dopo la sua scomparsa, si reca a casa Orlandi per consolare i familiari di Emanuela, lui che indiscutibilmente come Papa la verità l’avrebbe dovuta sapere. Ma la Santa Sede non ha mai espresso l’intenzione di collaborare reputando la scomparsa della Orlandi un evento consumatosi sul suolo italiano e non vaticano. Anche con questa serie, per esempio, la Santa Sede non ha voluto collaborare.

Da vedere.

“Lost Ollie” di Shannon Tindle

(USA, 2022)

Non è semplice parlare di dolore e lutto durante l’infanzia.

Ci sono però alcune opere davvero belle e struggenti, che possono aiutare nell’affrontare la tragedia di una grave perdita, come il romanzo tratto dall’opera dell’indimenticabile Siobhan Dowd – ed elaborato da Patrick Ness – portato ottimamente sul grande schermo da Juan Antonio Bayona nel 2016 con l’omonimo titolo “Sette minuti dopo la mezzanotte“, o “Un ponte per Terabithia” pubblicato da Katherine Paterson nel 1976 e adattato per il cinema nel 2007 da Gabor Csupò.

All’elenco si può aggiungere pure questa serie televisiva, in quattro puntate, anch’essa tratta da un libro: “Ollie e i giocattoli dimenticati” pubblicato da William Joyce, prolifico scrittore di libri illustrati per bambini, vincitore del premio Oscar nel 2012 col cortometraggio animato “The Fantastic Flying Books of Mr. Morris Lessmore” e uno dei più noti autori delle copertine del “The New Yorker”. Ideata da Shannon Tindle (già autore dello script del bellissimo “Kubo e la spada magica” diretto da Travis Knight nel 2016) e scritta assieme a Kate Gersten e Marc Haimes (anche lui coautore di “Kubo e la spada magica”) la serie è diretta da Peter Ramsey.

Il coniglio di pezza Ollie si risveglia in uno scatolone dentro un vecchio negozio di cose usate. La sua memoria sembra essere scomparsa e l’unica cosa che ricorda è di appartenere al bambino Billy. Così, una volta sistemato su uno scaffale, rifiuta cortesemente l’invito di Suzy, una bambina che si offre di adottarlo.

Ma senza memorie, e quindi senza sapere dove andare, tutto è molto complicato. Fortunatamente in suo soccorso arriva Zozo, un vecchio pupazzo da baraccone che, incantato dal particolare campanellino che Ollie possiede al posto del cuore, decide di aiutarlo.

La prima cosa che Zozo fa fare a Ollie sono dei disegni per risvegliare i suoi ricordi, disegni che poi il vecchio pupazzo incolla l’uno all’altro ottenendo una sorta di mappa per trovare Billy. Ai due si unisce Rosy, un orso di peluche che Zozo molto tempo prima è riuscito a ricucire.

Intanto nella mente del coniglio di pezza iniziano a tornare frammenti di memoria con immagini e sensazioni di profondo affetto che circondano il piccolo Billy, che però inesorabilmente dovrà affrontare una prova dura e molto dolorosa…

Commovente ed emozionante, questa serie ci sottolinea, visto che ce ne è sempre bisogno, come nella vita sia importante l’amore, l’affetto e la serenità di saper lasciare andare le cose, anche quelle più dolorose.

Nella versione originale la voce di Rosy è quella straordinaria della cantate Mary J. Blige.

“Avvocata Woo” di Ji-Won Moon

(Corea del Sud, 2022)

La cinematografia della Corea del Sud è ormai, da alcuni decenni, fra le più produttive e originali del Pianeta. Non sono pochi, infatti, i film realizzati a Seul che poi vengono rifatti in Occidente o che collezionano riconoscimenti prestigiosi in ambito internazionale. Negli ultimi tempi anche la televisione coreana realizza serie che spopolano in molti altri Paesi, come il vero e proprio fenomeno planetario di “Squid Game”.

Con questa serie “Avvocata Woo” la televisione coreana, in collaborazione con Netflix, sposta l’asticella ancora più su, raccontandoci la storia di Woo Young-woo (la bravissima Eun-bin Park) una giovane avvocata con il QI di 164 e migliore del suo corso universitario, assunta come “novellina” nello studio Hanbada, uno dei più prestigiosi di Seul.

Ma nonostante la sua preparazione, il suo acume e la sua incredibile memoria, sono molti quelli che provano disagio a lavorare con lei, così come sono pochi i clienti che non rimangono titubanti stringendole la mano. Perché Woo Young-woo, dalla nascita, vive nello spettro autistico.

Ha proferito le sue prime parole a cinque anni citando a memoria il libro di giurisprudenza del padre, che le ha fatto conoscere e amare il Diritto parlandogliene come se fosse una favola della buonanotte fin da piccola. Ricorda tutti i libri che ha letto da quando è nata ma questo, per molta parte del mondo, non basta.

Per il suo modo di interagire con gli altri lei sarà sempre e comunque una disabile della quale magari si può avere pena, ma di cui certo non ci si può fidare, soprattutto nel mondo duro e tagliente come quello degli avvocati. Inoltre Woo Young-woo deve fare i conti anche col resto della società patriarcale per gran parte della quale lei ha due grandi e insormontabili limiti: oltre ad avere una “fin troppo evidente” disabilità …è pure una donna.

Ma Woo Young-woo è abituata a essere guardata con gli occhi superficiali e compassionevoli, e così porta l’ingiusto e vergognoso fardello che gli altri miseramente le caricano sulle spalle, triste sì, ma mai rassegnata…

Bellissima serie dalle caratteristiche del classico Courtroom Drama che ci parla soprattutto della vita e delle relazioni fra gli essere umani che troppo spesso sanno essere spietati, meschini e ipocriti.

Nel nostro Paese, purtroppo, la disabilità nel mondo delle fiction resta ancora un tabù. Sono troppo pochi e spesso non perfettamente riusciti i film o le serie che l’affrontano senza ipocrisie o amorevole e odiosa compassione. Ma per fortuna esistono altre cinematografie o televisioni come quella coreana, appunto. Prima o poi arriveremo anche noi a realizzare una serie così, forse più poi …che prima.

Da vedere.

“LOVE DEATH + ROBOTS” di David Fincher e Tim Miller

(USA, dal 2019)

Alla fine del primo decennio del nuovo millennio i registi David Fincher e Tim Miller volevano realizzare un remale del cult assoluto “Heavy Metal” diretto da Gerald Potterton e prodotto da Ivan Reitman nel 1981.

Ma i tempi non sembrarono maturi e nessuno era pronto a investire per un lungometraggio di animazione per adulti che, citando il grande Zerocalcare, non è un cartone animato “zozzo” ma un lungometraggio che per argomenti e scene spesso crude e cruenti è dedicato ad un pubblico maggiorenne.

Il successo planetario del film “Deadpool” diretto dallo stesso Miller nel 2016 cambia le cose e permette ai due di trovare i finanziamenti per il loro vecchio progetto che diventa una serie antologica distribuita da Netflix a partire dal 2019.

La prima stagione è composta da 18 episodi, la seconda da 8 e la terza da 9, che durano fra i 6 e i 21 minuti, spesso ispirati a racconti di fantascienza contemporanei e diretti da artisti provenienti da tutto il globo. L’episodio “Mutaforma”, ad esempio, è diretto da Gabriele Pennacchioli, storico disegnatore di “Diabolik”, “Martin Mystère” e “Dylan Dog”, e poi assunto alla Dreamworks dove ha partecipato a successi internazionali come “Shrek”, “Kung Fu Panda” o “Dragon Trainer”.

Così come nella prima serie, anche nelle successive ci sono episodi realizzati in vari studi sparsi per il Pianeta, ma anche “Un brutto viaggio”, tosto fino all’ultimo frame, diretto dallo stesso Fincher e scritto dall’autore cyberpunk Neal Asher.

Se proprio mi costringete a fare una scelta dico “Tre robot” (che apre la prima stagione) e “Tre robot: Strategie d’uscita” (che apre la terza) nonché il delizioso “L’era glaciale” diretto dallo stesso Miller, tratto da un racconto di Michael Swanwick, con Mary Elizabeth Winstead e Topher Grace.

Da vedere.

“Il fiuto di Sherlock Holmes” di Marco Pagot e Gi Pagot

(Italia/Giappone, 1984)

Da un’idea di Gi Pagot e Marco Pagot, grande cartoonist italiano nonché figlio di Nino Pagot – fondatore dello Studio Pagot creatore di numerosi e indimenticabili cortometraggi d’animazione come “Grisù il draghetto” e spot pubblicitari che hanno segnato la nostra cultura nazionale come quello che vedeva quale protagonista il pulcino Calimero – la RAI decide di realizzare una serie d’animazione composta da 26 episodi di circa 30 minuti ciascuno.

Il concept si ispira al mitico e inossidabile Sherlock Holmes creato da Arthur Conan Doyle quasi cento anni prima, ma per rendere il cartone più adatto ai piccoli telespettatori i personaggi hanno le sembianze di cani antropomorfi, a partire dal grande investigatore che ha i colori e le fattezze che ricordano quelle di una volpe, mentre il famigerato Professòr Moriarty quelle di un perfido lupo viola. A dirigere buona parte degli episodi viene chiamato il maestro Hayao Miyazaki che insieme a uno staff italo-giapponese realizza una delle migliore serie per ragazzi di sempre.

Viviamo così ventisei avventure nella Londra e nell’Inghilterra vittoriana – che spesso ha i colori della nostra splendida campagna – dove Holmes riesce inesorabilmente a sconfiggere il malefico Professòr costringendolo sempre alla fuga finale. Indimenticabili e geniali sono i piani dello stesso Moriarty che – ovviamente non è un caso – ricordano quelli che mette a punto e finalizza l’ineffabile pronipote di Arsenio Lupin nella mitica serie “Le avventure di Lupin III”, di cui qualche anno prima lo stesso Miyazaki fu regista. Ci troviamo però dall’altra parte della barricata a tifare per la Legge e non per i manigoldi, anche se tanto simpatici e accattivanti come Lupin.

Nonostante i numerosi anni trascorsi dalla sua prima messa in onda questa serie possiede ancora tutto il suo fascino e la sua magia, ennesima dimostrazione della grande arte e genialità dei suoi autori. Nella nostra edizione devono essere ricordati gli ottimi attori che prestano la voce ai protagonisti come gli indimenticabili Elio Pandolfi e Riccardo Garrone nei panni rispettivamente di Sherlock Holmes e il Dottor Watson; così come il bravissimo Mauro Bosco in quelli del perfido Moriarty con un divertente accento torinese, nonché Maurizio Mattioli che doppia Todd, uno dei due scagnozzi del Professòr. 

Ma un motivo in più per rivedere questa serie è per cogliere al meglio l’influenza del nostro Paese nella grande arte del maestro Miyazaki, nei cui film molto spesso paesaggi e atmosfere sono spesso riconducibili alla nostra Penisola. Non è un caso quindi che il protagonista dello splendido “Porco Rosso” che Miyazaki realizzerà nel 1992 guarda caso si chiami …Marco Pagot. 

Indimenticabile è anche la sigla, fra le migliori in assoluto degli anni Ottanta.

Da vedere.

“Paranoia Agent” di Satoshi Kon

(Giappone, 2004)

Il geniale e visionario Satoshi Kon (1963-2010) realizza la sua unica – purtroppo… – serie anime da 13 episodi di circa 23 minuti l’uno, che viene trasmessa per la prima volta nel Paese del Sol Levante nel 2004.

In una grigia sera di Tokyo la giovane design Tsukiko Sagi cammina solitaria verso il suo appartamento. Nonostante il clamoroso successo che ha ottenuto in tutto il Giappone “Maromi”, il pupazzo cane che ha disegnato qualche tempo prima, la giovane è travolta dalla pressione.

E’ in post produzione la serie anime “Maromi Dolcesonno” che milioni di fan attendono trepidanti in tutto il Paese, e anche per questo lo studio presso il quale lavora pretende entro pochi giorni la consegna dei disegni di un nuovo pupazzo. Ma Tsukiko non ha alcuna idea, e mentendo ha preso un po’ di tempo. Meditando su come sfuggire alle scadenze, la giovane arriva a sperare in un “miracolo” che poco dopo si materializza alle sue spalle. Dal fondo della strada arriva un ragazzino, sui pattini a rotelle, che con un sorriso maligno le si avvicina e la colpisce alla testa con una mazza da baseball dorata.

L’aggressione suscita sdegno e scalpore non solo a Tokyo, anche se fortunatamente Tsukiko se la cava in pochi giorni. La situazione però precipita quando altre persone vengono aggredite dal diabolico ragazzino che sembra imperdibile. Attraverso gli occhi dei due poliziotti che seguono le indagini per la cattura di “Shonen Bat”, come è stato battezzato dai media l’aggressore, conosciamo le vittime tutte con un solo punto in comune: vivere un momento profondamente ansioso e angosciante…

Scritta dallo stesso Satoshi Kon assieme a Seishi Minakami e Tomomi Yoshino “Paranoia Agent” è, come tutte le altre opere del suo autore, un indimenticabile e allucinante viaggio nel profondo dell’animo umano, dove si scontrano, senza esclusioni di colpi, le nostre più terribili paure e le nostre più grandi speranze. Tutto narrato con mano geniale attraverso vari e diversi stili grafici e visivi, e con dinamiche narrative che ricordano quelle del grande Sergio Leone, non a caso sempre tanto vicino alla cultura nipponica. 

Da vedere.

“Strappare lungo i bordi” di Zerocalcare

(Italia, 2021)

E’ finalmente arrivata su Netflix la serie di animazione ideata, scritta e diretta da Zerocalcare.

“Strappare lungo i bordi”, nelle sue 6 puntante da circa 20 minuti l’una, ci parla di temi al fumettista – anche se ormai chiamarlo solo autore di fumetti è davvero riduttivo – molto cari come il sopravvivere all’amara e cruda adolescenza e, soprattutto, a se stessi.

Purtroppo nella vita non basta “strappare lungo i bordi” la nostra figura dal foglio che il destino ci pone, perché lo strappo fin troppo spesso sconfina con imponderabili conseguenze…

Anche se si tratta di argomenti che abbiamo già affrontato in altre opere di Zerocalcare come “La profezia dell’armadillo” o “Un polpo alla gola”, grazie al suo modo unico e originale di raccontarceli e approfondirli non smettono mai di essere interessanti, divertenti e, naturalmente, anche tristi.

A doppiare l’Armadillo, forma in carne e corazza della coscienza del protagonista, è Valerio Mastandrea che duetta deliziosamente con Zerocalcare, che fino all’ultima parte dell’ultima puntata doppia da solo tutti i personaggi – come nei suoi indimenticabili video che sui social ci hanno aiutato ad affrontare il primo famigerato lockdown – tranne appunto il mammifero corazzato.

Ma, come in ogni fumetto, non è solo la storia centrale ad appassionarci, ma anche i piccoli dettagli sullo sfondo, come le locandine dei film di fantascienza appese sui muri di casa di Zero, fra le quali su tutte: “ROG UAN – NA STORIA DE GUERRA FRA ‘E STELLE” e “L’IMPERO RIATTACCA E MO SO’ CAZZI”.

“Midnight Diner – Tokyo Stories”

(Giappone, dal 2016)

Tratto dall’ottimo manga “La taverna di mezzanotte” di Yaro Abe, questa serie ci porta in un piccolo ristorante nei pressi di Shinzoku, il quartiere di Tokyo col nodo ferroviario più frequentato al mondo, che apre ogni notte da mezzanotte alle sette del mattino.

Tutti i clienti, sia quelli abituali che quelli nuovi, hanno una ricetta preferita che chiedono allo chef. Attraverso i loro gusti apprendiamo in ogni puntata la loro storia, rimanendo immersi nei sapori e negli odori della cucina giapponese.

Con un cast di noti attori nipponici, questa serie ci parla della cultura e della società giapponese contemporanea che è tanto legata alla propria antica tradizione, così come all’innovazione e alle contaminazioni cosmopolite. E’ disponibile su Netflix (che l’ha co-prodotta) in lingua originale con sottotitoli, cosa che ci aiuta ancora di più ad entrare negli usi e nei costumi di un popolo che sembra così lontano ma che poi in realtà non lo è.

Per gli amanti del buon sapore e delle storie piccole, ma vere.

Lo stesso Yaro Abe ha curato la sceneggiatura di numerosi episodi che, pur riprendendo le atmosfere e le emozioni del suo manga, raccontano vicende differenti. Di questa particolare serie sono state realizzate due stagioni, la prima nel 2016 e la seconda nel 2019, e comunque la serie al momento, fortunatamente, non risulta chiusa.