“Ponyo sulla scogliera” di Hayao Miyazaki

(Giappone, 2008)

Per scrivere questo capolavoro della cinematografia mondiale il maestro Hayao Miyazaki si è ispirato a “Iyaiyaen”, pubblicato per la prima volta nel 1962 ed esordio della scrittrice giapponese Rieko Nakagawa – classe 1935, autrice molto amata dal grande cineasta – e illustrato da Yuriko Omura, ma soprattutto a “La sirenetta” di Hans Christian Andersen.

Il mare quindi è il centro della storia, e Miyazaki ci dice che il mare è donna, non a caso la madre di Ponyo è Granmammare, l’anima stessa dell’immenso blu che da tempo immemore è la culla della vita sul nostro Pianeta.

Come in molti altri film del genio dello Studio Ghibli, sono le donne ad avere il ruolo cruciale nella storia. Oltre a Ponyo, Sōsuke è circondato da figure femminili determinate e determinanti, come sua madre Risa, la stessa Granmammare e le signore ospitate nella casa di riposo dove lavora la stessa Risa.

Gli uomini, invece, hanno un ruolo secondario, come Fujimoto, il padre di Ponyo che prima di diventare un mago degli abissi era un essere umano e che, pensando di fare del bene, ostacola in ogni modo il desiderio della figlia di diventare umana, figlia che si ostina a voler chiamare Brunilde.

O come Kōichi, il padre di Sōsuke, che osserva la fantastica storia del figlio solo da lontano perché impegnato nel suo lavoro di marinaio. Miyazaki ci ricorda che la Natura è donna, così come il mare – che gli uomini continuano ottusamente ad inquinare… – e li si possono apprezzare e vivere a pieno solo con un cuore gentile e rispettoso come quello di Sōsuke, capace di ascoltare e assecondare con amore Ponyo.

Sull’aspetto di Ponyo e di Sōsuke circolano molte voci e teorie, come quella che quest’ultimo abbia i lineamenti da bambino di Goro Miyazaki, figlio del regista. Quello che è certo, e che lo stesso Hayao Miyazaki ha affermato più volte, è che in ogni piccolo protagonista delle sue pellicole c’è tanto di lui stesso da bambino, che sognava di vivere le avventure più fantastiche ed emozionanti.

Un grande, instancabile e completo artista capace di condividere i suoi sogni e le sue paure come pochi altri, il cui genio ricorda non a caso quelli di Steven Spielberg e George Lucas.

Una pellicola d’amore e di formazione come poche altre. Un altro capolavoro indiscusso che il maestro Miyazaki ha regalato al mondo.

La deliziosa canzone dei titoli di coda nella nostra versione è stata tradotta ed eseguita da Fabio Liberatori – ex componente degli Stadio, musicista molto amato da Lucio Dalla e autore di numerose colonne sonore di pellicole italiane, come per esempio quelle di Carlo Verdone – e sua figlia Sara.

“Indiana Jones e il quadrante del destino” di James Mangold

(USA, 2023)

Ci siamo, il tempo passa per tutti anche per il leggendario professor Henry Jones Jr (un sempre gajardo e tosto Harrison Ford) che tutti chiamano “Indiana”. E così, alla fine degli anni Sessanta, l’archeologo più famoso della celluloide deve andare in pensione, proprio mentre i primi esseri umani mettono il piede sulla Luna.

Ma non è la pensione ad annichilire il dottor Jones, sono le cose e le scelte fatte e, soprattutto, quelle non fatte. Fra le prime, senza dubbio, ci sono quelle che hanno portato al naufragio della sua famiglia. L’allontanamento definitivo da Marion (Karen Allen) ha minato l’anima del professore che si rassegna così a passare quello che gli rimane da vivere in assoluta e alcolica solitudine.

A scardinare questa convinzione ci pensa Helena Shaw (Phoebe Waller-Bridge), figlia di Basil Shaw (Toby Jones) vecchio amico e collaboratore di Jones, scomparso qualche anno prima. Proprio con Shaw, durante la fine del secondo conflitto mondiale, Jones era riuscito a trovare una parte della macchina di Anticitera realizzata da Archimede nel II secolo a.C., che di fatto è il più antico calcolatore meccanico conosciuto al mondo.

La macchina, che prese il nome dell’isola greca presso la quale venne rinvenuta nei primi del Novecento da due pescatori di spugne nel relitto di un’antica nave romana, era una sorta di planetario che serviva ad anticipare le stagioni, i cambiamenti climatici e gli eventi atmosferici in generale. Ma il Dottor Voller (Mads Mikkelsen), fra i matematici di spicco del Terzo Reich, la voleva portare ad Hitler perché convinto che possedesse la chiave per viaggiare nel tempo e poter vincere così ogni guerra.

E proprio dalle mani di Voller, Jones la prese assieme a Shaw che la conservò gelosamente. Però lo studio morboso della macchina di Archimede portò Shaw alla follia, tanto che alla fine era convinto che Voller avesse ragione e per questo era sul punto di distruggerla. Per conservare un reperto archeologico così importante Jones gliela portò via promettendo di distruggerla. Motivo per il quale 18 anni dopo Helena la richiede al vecchio amico di suo padre.

Ma sulle sue tracce ci sono gli uomini dell’implacabile professor Smith, il matematico che più degli altri è riuscito a mandare l’Apollo 11 sulla Luna e per questo ha il massimo appoggio della Casa Bianca. Ma la stessa Casa Bianca forse ignora che Smith è in realtà Voller, che vuole la macchina di Anticitera per cambiare la storia e il destino del mondo…

Scritto da David Koepp, Jez Butterworth, John-Henry Butterworth e James Mangold, e basato sui personaggi ideati da George Lucas, questo “Indiana Jones e il quadrante del destino” – che è il primo della serie a non essere diretto da Steven Spielberg che appare però assieme all’amico Lucas come produttore esecutivo – oltre a divertici con sequenze mozzafiato, battute e godibilissime autocitazioni, ci offre una riflessione crepuscolare sul tempo che passa inesorabilmente per tutti, anche per gli eroi immortali dei film.

Da sempre l’essere umano vorrebbe viaggiare nel tempo, spesso per poterlo cambiare a proprio favore, per correggere i propri errori o forse per non morire mai. Ma già il grande H.G. Wells nel suo splendido “La macchina del tempo” sosteneva che, anche potendo tornare indietro, il nostro destino, come quello degli altri, sarebbe comunque immutabile. E allora Indiana Jones, alla fine, ci sussurra all’orecchio che se proprio il nostro passato non lo possiamo cambiare, possiamo senza dubbio essere padroni del nostro futuro.

Nel cast appare anche Antonio Banderas, che si doppia da solo nella nostra versione. Dopo “Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta” e “Indiana Jones e l’ultima crociata” questo è il più sfizioso della serie.

Un solo appunto al film, e alla nostra versione, in cui Jones replica tagliente al Dottor Voller che nessun tedesco sa essere spiritoso. Che i nazisti, tedeschi o di qual qualsivoglia nazionalità, non siano capaci di essere spiritosi è un tragico dato di fatto scritto a ferro fuoco e sangue nella storia planetaria dell’ultimo secolo, ma non condivido assolutamente che la cosa possa valere per tutti i tedeschi in generale.

“Ai confini della realtà” di Rod Serling

(USA, 1959-1964)

Rod Serling (1924-1975) è stata una delle figure più rilevanti del cinema e soprattutto della televisione americana del secondo Novecento. Anche se è stato l’autore di sceneggiature di film come “I giganti uccidono” o “Una faccia piena di pugni” (pellicola che ha segnato il cinema e la cultura degli Stati Uniti, tanto da influenzare lo stesso Sylvester Stallone per la stesura dello script di “Rocky” e Quentin Tarantino per quella di “Pulp Fiction”, solo per citarne due) il suo nome sarà per sempre legato alla serie televisiva antologica “Ai confini della realtà” che creò nel 1959 e che venne trasmessa dalla CBS fino al 1964.

Il 24 novembre del 1958 va in onda, per la serie antologica “Westinghouse Desilu Playhouse” l’episodio “L’elemento tempo” scritto da Rod Serling e diretto da Allen Reisner, in cui il protagonista è Pete Jansen (William Bendix), un uomo che rivela al suo medico il dottor Gillespie (Martin Balsam) che ogni notte rivive lo stesso sogno più che reale: essere a Honolulu le ventiquattro ore che precedono l’attacco di Pearl Harbour il 6 dicembre 1941. Il sogno si tramuta incredibilmente e inspiegabilmente in realtà…

Se gli spettatori di quegli anni sono avvezzi alla fantascienza, anche quella più semplice, nessuno invece ha mai visto niente di simile, un racconto fantastico più che fantascientifico, e al tempo stesso concreto e drammatico. Il successo è notevole tanto che la CBS decide di affidare al suo autore il compito di creare e seguire una vera e propria serie antologica con gli stessi toni e argomenti.

Il titolo Serling lo prende dal gergo aeronautico degli anni Quaranta e Cinquanta in cui “twilight zone” si riferisce all’effetto visivo per il quale, in determinate condizioni, la linea dell’orizzonte scompare alla vista del pilota per alcuni instanti durante l’atterraggio. Una zona di luci e ombre in cui è facile perdere l’orientamento.

Per presentare ogni puntata, che ha sempre attori nuovi e una storia indipendente dalle altre, Serling vorrebbe Orson Welles ma il cachet è troppo alto per il budget fissato dalla produzione, interpella poi Richard Egan che però ha appena firmato un contratto esclusivo per un film. Così, per affrettare i tempi e limitare le spese, viene stabilito che sarà lui stesso il presentatore.

Il 2 ottobre del 1959 va in onda il primo episodio della prima stagione “La barriera della solitudine”, scritto naturalmente dallo stesso Serling. Inizia così un nuovo genere televisivo e un nuovo modo di raccontare i sogni e gli incubi della società americana, oppressa in quegli anni dalla guerra fredda. Ma Serling, in anni in cui gli Stati Uniti erano ancora fortemente razzisti, riesce a parlare di tolleranza, uguaglianza e rispetto con originalità e intelligenza, soprattutto alle nuove generazioni che il venerdì sera rimangono attaccate alla televisione per poco più di venti minuti, il tempo di ciascun episodio, senza avere neanche il coraggio di sbattere le palpebre.

L’impatto è enorme e incredibilmente duraturo, visto che ancora oggi, a distanza di sessant’anni, tutti – o quasi – gli episodi continuano ad avere il loro fascino e la loro potenza narrativa. Per quanto concerne i piccoli di allora, basta ricordare due dei tanti fan che hanno più di una volta dichiarato che senza questa serie la loro vita e la loro arte non sarebbero state le stesse: George Lucas e Steven Spielberg.

Tanto che lo stesso Spielberg produce e dirige uno dei tre episodi del film “Ai confini della realtà“, dedicato e ispirato proprio alla serie di Serling, che realizza assieme a John Landis, George Miller e Joe Dante nel 1983.

Sono moltissimi gli attori, ma anche i registi, che giovani e ancora sconosciuti girano uno o più episodi che andranno in onda dal 1959 al 1964. Nomi come Robert Redford, Sidney Pollack, Ida Lupino (che reciterà nell’episodio della prima stagione “Il sarcofago” e dirigerà l’episodio “Le maschere” della quinta stagione, fra le prime donne in assoluto ad esordire dietro una telecamera), Peter Falk, Charles Bronson, Lee Marvin (interprete dell’episodio “La tomba” della terza stagione, che come alcuni altri, col passare del tempo, è diventato una vera e propria leggenda metropolitana), Robert Duvall, Dennis Hooper, Martin Landau, Art Carney, Cloris Leachman, Ron Howard (nei panni di un bambino nell’episodio “La giostra” della prima stagione), Paul Mazursky, Burt Reynolds, Jack Warden, Burgess Meredith (che poi vestirà i panni del primo allenatore di Rocky Balboa, ma che interpreterà alcuni episodi fra cui lo strepitoso “Tempo di leggere” andato in onda nella prima stagione), Kevin McCarthy (protagonista del bellissimo “Lunga vita a Walter Jameson”, ancora oggi molto citato), William Shatner (interprete di due episodi fra cui il famosissimo “Incubo a 20.000 piedi” diretto da un giovane Richard Donner) James Coburn, Lee Van Cleef o Telly Savalas, solo per citare i più famosi.

Senza parlare delle attrici e degli attori che diventeranno famosi, negli anni successivi, soprattutto nel piccolo schermo come Agnes Moorehead (interprete del delizioso “Gli invasori” della seconda stagione), Bill Bixby, George Takei, Jack Klugman, Elizabeth Montgomery, Roddy McDowall (protagonista del caustico “Gente come noi”) Claude Atkins e Jack Weston (questi ultimi due interpreti del bellissimo “Mostri in Marple Street”, fra i più significati e antirazzisti della serie che si schiera, neanche troppo velatamente, contro la famigerata “caccia alle streghe” maccartista di quegli anni).

A scrivere gli episodi delle prime stagioni, oltre a Serling, ci sono Charles Beaumont e Richard Matheson (autore, nel 1954, del bellissimo romanzo di fantascienza “Io solo leggenda” da cui sono stati tratti vari adattamenti cinematografici tra i quali, da ricordare, “L’ultimo uomo sulla Terra” e “1975: occhi bianchi sul pianeta Terra”, nonché la lunga serie di lungometraggi che parte da “La notte dei morti viventi” diretto da George Romero nel 1968 e passa per “28 giorni dopo” diretto da Danny Boyle nel 2002). Visto il clamoroso successo della serie però, nel corso degli anni, Serling venne citato in numerosissime cause per presunto plagio, cosa che alla fine lo costrinse a cedere i diritti di “Ai confini della realtà” direttamente alla CBS.

Amareggiato, Rod Serling si dedicò a serie con i toni più marcati dell’orrore, fino al 28 giugno del 1975 quando, mentre stata tagliando l’erba del suo giardino, venne stroncato da un infarto a soli 50 anni. Certo, oggi è difficile non associare la sua improvvisa e fulminante morte alle sigarette che aveva sempre in mano, anche quando presentava gli episodi della sua serie più famosa e nella quale divenne anche il testimone di una nota fabbrica di tabacco, o nelle varie foto che lo ritraggono nella vita di tutti i giorni.

Se Serling ha conosciuto il successo e la stima dei suoi contemporanei, non ha potuto apprezzare quelli delle generazioni successive che ancora oggi amano profondamente la sua opera.

Vera pietra miliare della televisione e dell’immaginario collettivo del Novecento, “Ai confini della realtà” è una serie immortale e da vedere e rivedere ad intervalli regolari.

“Zen – Grogu e i nerini del buio” di Katsuya Kondô

(Giappone/USA, 2022)

Che la saga di “Guerre Stellari”, fin dal suo concepimento nella testa geniale di George Lucas, fosse fortemente legata alla tradizione e alla cultura giapponese è sempre stato molto lampante. La stessa figura dello Jedi si ispira palesemente a quella degli antichi samurai, come la Forza tocca corde e riferimenti delle filosofie orientali Zen. Per non parlare poi del casco del famigerato Lord Darth Fenner che prende chiaramente spunto da quello tradizionale dei samurai.

Non è un caso quindi che lo stesso Lucas, assieme a Francis Ford Coppola, sia stato anche il produttore di alcune pellicole giapponesi come “Kagemusha: l’ombra del guerriero” diretta dal maestro Akira Kurosawa.

Anche se ormai Lucas ha ceduto i diritti delle sue opere – compresi quelli di “Guerre Stellari” – alla Disney, il rapporto fra le sue idee geniali e la fantasia del Sol Levante è sempre molto forte, tanto da portare il mitico Studio Ghibli a realizzare – col supporto della stessa Disney – questo delizioso cortometraggio dedicato all’incredibile incontro fra Grogu – il piccolo protagonista della fortunata serie “Mandalorian” – e i nerini del buio, minuti personaggi fatti di fuliggine, creati dal maestro Hayao Miyazaki nella splendida pellicola “Il mio vicino Totoro” e ripresi nell’altrettanto splendido “La città incantata“.

Un incontro in pieno stile Zen, che non ha bisogno di nessuna parola, ma che parla brillantemente alla nostra anima e alla nostra fantasia.

Scritto e diretto da Katsuya Kondô, storico collaboratore della stesso Miyazaki, questo cortometraggio è fatto da 180 secondi di pura poesia.

“Star Wars: L’ascesa di Skywalker” di J.J. Abrams

(USA, 2019)

Ecco, ci siamo…

dopo 42 anni si chiude una delle saghe del cinema più famose di sempre (non ci possiamo scordare, infatti, quella dell’agente segreto 007 James Bond che da quasi sessant’anni furoreggia al botteghino).

La terza trilogia della saga sembra definitivamente conclusa. E con quest’ultima fatica del geniale J.J Abrams scopriamo il posto nell’Universo – o forse sarebbe meglio dire …nella Galassia – di ognuno dei personaggi. Ci sono quelli che scompaiono e quelli che rimangono, quelli che fanno scelte oltre i propri limiti e quelli che accettano l’inevitabile.

Se la seconda trilogia ha deluso molti (compreso me) questa riporta “Star Wars” a livello della prima, che ha rinnovato e cambiato il cinema di fantascienza, e non solo. Così non ci dobbiamo stupire se la Forza trova la sua pedina più forte e coraggiosa in una ragazza, o se assistiamo al primo bacio lesbo consumatosi tanto tempo fa in una galassia lontana lontana…

Abrams rinnova la saga, la rende attuale e contemporaneamente senza tempo, così come è la prima. E se ci rattristiamo per la sua fine annunciata, aggrappiamoci alla speranza che gli incassi superino i record di quelli precedenti tanto da “costringere” la Disney a mettere in lavorazione – oltre ai film della serie “A Star Wars Story” – una nuova trilogia.

Comunque vada …che la Forza sia con voi!

“Guerre Stellari” di George Lucas

(Arnoldo Mondadori Editore, 1977)

La storia ci ha chiarito bene l’impatto che il merchandising di “Guerre Stellari” ha avuto sul fatturato multimilionario del film, e non solo. Ci sono in giro alcuni ottimi documentari che ci raccontano come le action figure – che io allora chiamavo romanticamente “pupazzetti”… – di Luke Skywalker, Han Solo, Leia Organa, Chewbacca, ma soprattutto quella di Lord Darth Vader hanno incisio l’immaginario collettivo, oltre che il PIL degli USA.

E di come poi le grandi case di produzione abbiamo imparato a programmare il merchandising già nella fase di pre produzione della pellicola.

Su quell’onda, la Arnoldo Mondadori Editore pubblicò il romanzo del film, scritto proprio da George Lucas (così almeno cita il copryright). Ovviamente parliamo di due opere completamente diverse, dove il libro è lo sviluppo del trattamento della sceneggiatura, esattamente l’inverso di quello che accade di solito.

Se per quanto riguarda il merchandising vero e proprio “Guerre Stellari” è stato il primo grande caso nella storia, per il romanzo invece no. Nel 1966 venne affidata a Isaac Asimov la trasposizione letteraria del film blockbuster “Viaggio allucinante” diretto da Richard Fleischer, solo per fare un esempio.

Ma torniamo a tanto tempo fa in una galassia lontana lontana: il romanzo ha il suo perché, soprattutto leggendolo a oltre quarant’anni di distanza. Nel prologo poi troviano i punti cruciali che lo stesso Lucas userà per scrivere i primi tre capitoli, mentre nulla ci anticipa i due che verranno girati negli anni successivi, “L’impero colpisce ancore” e “Il ritorno dello Jedi”.

Ci sono dettagli che nel film, per esigenze di montaggio sono semplicemente accennati, come la storica amicizia fra Luke e Ben, o il rapporto ambiguo fra Tarkin e Vader.

Ma soprattutto ci sono termini e traduzioni indimenticabili, su tutti l’astronave cargo del cornelliano Han Solo che si chiama: “Il Falcone Millenario” – …che goduria! – oltre a numerose foto di scena rigorosamente in bianco e nero, e in quarta di copertina il “Chi è” di Guerre Stellari.

Per veri patiti …e che la Forza sia con te!

“Il segreto degli Incas” di Jerry Hopper

(USA, 1954)

Harry Steele (Charlton Heston) è uno americano che vive a Cuzco, in Perù, e sbarca il lunario facendo la guida turistica per i suoi connazionali che visitano il Paese.

Steele, come molti altri, ha sentito parlare del grande tesoro degli Incas che è scomparso fra le alte vette delle Ande ormai da secoli e non disdegna alcun mezzo per reperire notizie attendibili e piccoli resti.

Un giorno arriva a Cuzco la rumena Elena Antonescu (Nicole Maurey) una dark lady dall’oscuro passato. La donna è disposta a pagare qualsiasi cifra pur di entrare clandestinamente negli Stati Uniti per sfuggire alla polizia segreta della sua Nazione, e Steele sembra l’uomo adatto.

Con uno stratagemma Steele riesce a rubare un aereo con il quale i due lasciano Cuzco. Per nascondere le proprie tracce decidono poi di atterrare nei pressi del mitico Machu Picchu e proseguire a piedi. Nell’antico sito, Steele e la Antonescu incontrano la spedizione archeologica americana diretta dal professore Moorhead (Robert Young) che è sulle tracce del mitico Sole d’Oro degli Incas, pezzo centrale dell’antico tesoro.

Steele dovrà scegliere se aiutare la rifugiata rumena a raggiungere gli USA o cercare il Sole d’Oro, ma…

Originale pellicola d’avventura (come si diceva un tempo) girata in studio ma anche in loco, con delle panoramiche che ancora oggi incantano, non a caso è la prima volta che una produzione hollywoodiana gira davvero fra i resti archeologici peruviani.

Ma il vero fascino di questo film è un altro: per ammissione dello stesso George Lucas, Harry Steele è il personaggio dal quale è nato nientepopodimeno che il Professor Henry Walton Jones Junior, meglio conosciuto come Indiana Jones.

Il cappello a grandi falde, il giubbotto di pelle, e la presenza di Heston – che nulla ha da invidiare a quella di Harrison Ford – nonché il suo beffardo sorriso lo testimoniano. E poi c’è il fascino dei tesori legati a una civiltà dell’America Latina scomparsa da secoli, e gli enigmi per ritrovarli.

Insomma, un vero gioiellino per amanti del Professor Jones.

Per la chicca: prima di scritturare Sean Connery (che aveva impersonato l’altro grande “padre” di Indiana, e cioè James Bond) nella parte del Professor Jones Senior, Lucas aveva pensato non a caso proprio a Heston.

“La gang del bosco” di Tim Johnson e Karey Kirkpatrick

(USA, 2006)

La Dreamworks – nata da un’idea del genio di George Lucas – è l’unica casa di produzione di animazione digitale che riesce davvero a competere con la Pixar. Nel corso degli anni sono riusciti, infatti, a creare lungometraggi di alta qualità come questo “La gang del bosco”.

RJ (la cui voce italiana è quella di Luca Ward) è un procione solitario che vive di piccoli espedienti. Ma una sera di primavera commette l’errore di rubare le riserve di cibo al feroce orso Vincent, che sveglia aprendo un pacco di infingarde Tuberine. Per non essere ucciso RJ promette di riportare all’orso tutte le vettoglie rubate, che nel frattempo sono andate perdute.

L’impresa sembra impossibile per un solo procione, ma RJ incapperà in un gruppo di animali ingenui che lo aiuteranno loro malgrado e in buona fede. Ma la bontà è spesso – e fortunatamente – “infettiva”…

Nel cast originale la voce di RJ è quella di Bruce Willis, coadiuvato da Steve Carell, William Shatner, Nick Nolte, Eugene Levy e Avril Lavigne. Nella nostra versione, oltre a Ward, va ricordato Pupo che da doppiatore consumato dona la voce allo scoiattolo iperattivo Hammy, doppiato in originale da Carell.

Scritta da Karey Kirkpatrick, Len Blum, Lorne Cameron e David Hoselton, questa pellicola è davvero un gioiellino.

“Indiana Jones e l’ultima crociata” di Steven Spielberg

(USA, 1988)

Come già scritto parlando de “Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta“, questo “Indiana Jones e l’ultima crociata” è l’unico sequel davvero straordinario della serie dedicata all’archeologo più famoso del cinema.

Scritto da George Lucas insieme all’olandese Menno Meyjes (candidato all’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale de “Il colore viola” di Spielberg) questo film consacra definitivamente il mito del professor Henry Jones Jr..

Conosciamo finalmente il professor Henry Jones Senior, che non poteva essere interpretato magistralmente che da Sean Connery (il primo grande 007, personaggio al quale gli stessi Spielberg e Lucas si ispirarono per scrivere “Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta”) che incarna splendidamente il classico “topo di biblioteca” incapace e inadatto a qualsiasi tipo di azione, la vera e propria antitesi del figlio.

Ma non solo, nelle prime scene del film incontriamo il giovane Indiana Jones (interpretato da River Phoenix) nel momento in cui inizia a usare la frusta – che gli causa la cicatrice al mento che lo stesso Ford ha davvero nella vita reale – e soprattutto indossa per la prima volta il suo famoso cappello.

E nella scena finale conosciamo finalmente la storia del suo strano nome. Il tutto mentre siamo sulle tracce di una delle leggende e dei miti più famosi della civiltà umana: il Santo Graal.

Con sequenze mozzafiato, scene ed effetti speciali che ancora fanno colpo, la terza avventura di Indiana Jones è fra i migliori film d’azione mai realizzati, grazie anche alla profonda ironia che permea ogni scena, soprattutto quelle che mostrano il rapporto complicato e al tempo stesso spassoso fra padre e figlio Jones.

E pensare che all’anagrafe Sean Connery e Harrison Ford hanno meno di dodici anni di differenza. Potere del cinema e dei grandi attori…

“Rogue One: A Star Wars Story” di Gareth Edwards

(USA, 2016)

Scritto da Chris Weitz e Tony Gilroy – giovani ma ben rodati sceneggiatori – e diretto da Gareth Edwards, è arrivato caldo caldo nelle sale italiane l’ultimo capitolo della saga più famosa della storia del cinema.

Ultimo sì, ma non in senso cronologico della storia – che al momento rimane “Star Wars: Il risveglio della Forza” – questo “Rogue One” (che è il primo della nuova serie “Star Wars Anthology” che racchiuderà una serie di pellicole parallele a quelle vere e proprie della saga) è ambientato poco prima di “Guerre Stellari” – che poi ha preso il titolo “Una nuova speranza” – e ci racconta come un manipolo di ribelli eroi riesca a rubare i preziosissimi piani della famigerata Morte Nera, dettaglio fondamentale dello stesso primo film, fino a oggi mai affrontato.

Nel cast spiccano Felicity Jones, Forest Whitaker, Mads Mikkelsen (il primo cattivissimo di James Bond/Daniel Craig) e Diego Luna (attore e regista messicano, interprete fra gli altri di film come “Elysium”, “Milk” o “Il Libro della Vita”). E ovviamente lui, il cattivo dei cattivi, colui che una volta era Anakin Skywalker: Lord Darth Vader. E con lui è presente anche un tormentato rapporto padre-figlio, o meglio figlia.

Se “Star Wars: Il risveglio della Forza” era rivolto alle nuove generazioni, questo “Rogue One” è stato pensato, scritto e realizzato per chi nel lontano 1977 rimase “folgorato” – eddaje! – al cinema da “Guerra Stellari”.

Torna tutto, tutto si incastra e ci prepara per andare “Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana”. E poi c’è l’incredibile ricostruzione digitale di Peter Cushing, che come in “Star Wars: Una nuova speranza” interpreta il perfido Tarkin, incredibile visto che Cushing è scomparso nel 1994. E quella di…

Il titolo – che letteralmente sarebbe “canaglia 1” – è riferito a… beh, ve lo andate a vedere al cinema!

Per veri amatori: astenersi perditempo.