“Perfect Days” di Wim Wenders

(Giappone, 2023)

Con “Perfect Days”, Wim Wenders ci consegna un’opera che sembra distillata dall’essenza stessa del suo cinema: la capacità di catturare la bellezza della vita quotidiana con uno sguardo delicato e profondamente umano. In un’epoca cinematografica dominata dalla velocità e dal rumore, Wenders ci invita a rallentare, a soffermarci sui dettagli più minuti, sulle pieghe del tempo che si srotola in silenzio, offrendo uno sguardo inedito su Tokyo e sui suoi abitanti.

Il protagonista, Hirayama (interpretato magistralmente da Koji Yakusho), è un uomo che ha fatto della semplicità il suo regno. Addetto alla pulizia dei bagni pubblici della città, vive in un appartamento spartano, arredato con pochi, essenziali oggetti. La sua vita è scandita da rituali quotidiani: la cura delle piante, la lettura di libri, l’ascolto di musica su audiocassette. Wenders, con una regia che si fa discreta, quasi invisibile, trasforma questi gesti ordinari in momenti di contemplazione poetica.

“Perfect Days” – la cui sceneggiatura è firmata da Takuma Takasaki oltre che dallo stesso Wenders – non è un film che racconta una storia nel senso tradizionale del termine. Non c’è un conflitto centrale, non ci sono svolte narrative drammatiche. Eppure, c’è una profondità emotiva che si costruisce progressivamente, strato dopo strato, come una fotografia sviluppata lentamente. Wenders ci conduce in un viaggio intimo attraverso le giornate di Hirayama, dove ogni incontro, ogni scambio di sguardi, ogni suono della città diventa parte di un mosaico più grande, un ritratto di un uomo che ha trovato una sua forma di serenità.

La Tokyo di Wenders è lontana anni luce dalle rappresentazioni iperattive e futuristiche a cui siamo abituati. Qui, la città diventa uno spazio di quiete, di riflessione, quasi un personaggio a sé stante, con i suoi angoli nascosti e le sue strade secondarie che sembrano condurre fuori dal tempo, proprio come quella della serie “Midnight Diner – Tokyo Stories”. La fotografia limpida e cristallina curata da Franz Lustig, enfatizza questa dimensione sospesa, restituendo una Tokyo che è al contempo reale e trasfigurata, uno spazio in cui il tempo sembra rallentare per permettere allo spettatore di cogliere ogni sfumatura, ogni dettaglio.

In “Perfect Days”, Wenders riesce a toccare corde profonde senza mai ricorrere a facili sentimentalismi. Il film si costruisce attraverso un minimalismo narrativo che diventa il suo punto di forza. Ogni scena è un frammento di vita, un tassello che si inserisce in un mosaico più grande, quello della ricerca della bellezza nel quotidiano. Hirayama è un eroe del nostro tempo, un uomo che, nel suo silenzio, riesce a trovare una connessione profonda con il mondo che lo circonda, ricordandoci che la felicità non risiede negli eventi straordinari, ma nella capacità di apprezzare i piccoli momenti di cui è fatta la vita.

Wenders non ha paura di lasciare spazio al silenzio, di lasciare che siano i volti, gli sguardi, i movimenti lenti dei personaggi a raccontare la storia. È un cinema che richiede attenzione, che chiede allo spettatore di lasciarsi trasportare in un flusso di immagini e suoni che, pur nella loro apparente semplicità, costruiscono una narrazione ricca di sfumature.

Con “Perfect Days”, Wim Wenders ci consegna un’opera che è al tempo stesso un atto di resistenza e un omaggio all’essenzialità. È un film che parla di un mondo in cui il tempo è tornato ad avere un valore, in cui la bellezza si trova negli atti più semplici, nella ripetizione dei gesti quotidiani. Un’opera che, in definitiva, ci invita a riscoprire la poesia della vita ordinaria, facendoci sentire, almeno per un momento, parte di qualcosa di più grande, di più profondo.

Wenders, con la sua consueta maestria, ci ricorda che il cinema, come la vita, non ha bisogno di essere urlato per essere ascoltato. Basta saper guardare, saper ascoltare, per trovare in ogni giornata un “perfect day”.

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“Le ali della libertà” di Frank Darabont

(USA, 1994)

Devo essere onesto: mi sono sempre tenuto a distanza dai film che promettono di essere edificanti o, peggio ancora, “di grande ispirazione”. Troppo spesso, questo tipo di pellicole si rivelano moraliste, ricattatorie, o addirittura melense. Ma poi, arriva “Le ali della libertà” (“The Shawshank Redemption”), diretto da Frank Darabont, che con un colpo magistrale riesce a sfuggire a tutte queste trappole, consegnandoci un film che, pur toccando corde profondamente umane, non scade mai nel facile sentimentalismo.

Il film, non a caso tratto dal racconto del Re Stephen King “Rita Heyworth e la redenzione del carcere di Shawshank” (contenuto nella mirabile raccolta “Stagioni diverse” del 1982, che annovera anche “The Body” da cui Rob Reiner ha tratto “Stand By Me – Ricordo di un’estate” e “L’allievo” dal quale Bryan Singer si è ispirato per il suo omonimo film interpretato da un agghiacciante Ian McKellen), si concentra sulla storia di Andy Dufresne (un Tim Robbins davvero in stato di grazia), vice presidente di banca condannato ingiustamente per l’omicidio della moglie e del suo amante.

Da qui ci si potrebbe aspettare un dramma giudiziario o una classica storia di vendetta. E invece no. “Le ali della libertà” sceglie un’altra strada, più sottile, più lenta, ma anche più incisiva. La prigione di Shawshank, che in qualsiasi altro film sarebbe semplicemente lo sfondo di una vicenda di soprusi e violenza, qui diventa un luogo di crescita, un campo di battaglia per l’anima.

Darabont, alla sua prima prova da regista, ha la saggezza di non forzare mai la mano. La sua regia è discreta, rispettosa dei tempi e degli spazi emotivi dei personaggi. La vera forza del film risiede nei piccoli dettagli: lo sguardo sperduto di Andy all’inizio della sua detenzione, l’amicizia che lentamente si costruisce tra lui e Red (un monumentale Morgan Freeman), e il modo in cui la speranza si insinua, quasi furtivamente, tra le crepe della disperazione.

Uno dei temi portanti del film è la libertà. Non quella fisica, che è negata a tutti i detenuti di Shawshank, ma quella mentale, interiore. Andy, pur rinchiuso tra le mura spesse della prigione, riesce a mantenere viva la fiamma della sua dignità e del suo spirito. E lo fa attraverso gesti che sembrano insignificanti: un piccolo sasso scolpito, un vinile delle “Nozze di Figaro” di Wolfgang Amadeus Mozart fatto suonare ad alto volume per tutti i carcerati, una biblioteca costruita con pazienza e determinazione. Sono questi gesti che, alla fine, si rivelano rivoluzionari.

La forza del film sta anche nella sua capacità di non cedere mai alla retorica. Anche nei momenti più toccanti, Darabont – autore pure della sceneggiatura – mantiene un equilibrio narrativo che impedisce al racconto di scivolare nel patetico. Questo equilibrio è amplificato dalla splendida fotografia di Roger Deakins, che sa essere tanto claustrofobica quanto ariosa, con i suoi giochi di luce e ombra che sembrano commentare la condizione esistenziale dei personaggi.

E poi c’è il finale. Non lo svelo per chi non avesse ancora visto il film, ma posso dire che è uno di quei finali che ti lasciano con un nodo alla gola e un senso di catarsi. Non perché sia sorprendente o pieno di colpi di scena, ma perché è onesto, autentico. Un finale che rende giustizia a tutto ciò che è venuto prima, e che ci ricorda che la speranza, quella vera, non è mai ingenua o facile, ma nasce dalla sofferenza e dalla resistenza.

Le ali della libertà” non è un film perfetto, ma è un film necessario. Un’opera che parla della capacità dell’animo umano di resistere, di trovare luce anche nell’oscurità più profonda, e di spiccare il volo quando tutto sembra perduto. In un mondo in cui spesso siamo prigionieri di noi stessi e delle nostre paure, questo film ci ricorda che la libertà, quella vera, inizia e finisce nella nostra mente.

Quindi, se non lo avete ancora fatto, prendetevi due ore e mezza, e lasciatevi trasportare a Shawshank. Potreste scoprire che, in fondo, le ali della libertà sono già dentro di voi.

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“Sotto il vulcano” di John Huston

(USA/Messico, 1984)

Diretto dal leggendario John Huston e uscito nelle sale nel 1984, questo film è l’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo “Sotto il vulcano” di Malcolm Lowry, uno dei testi più complessi e affascinanti del XX secolo. Huston, con la sua consueta maestria, riesce a catturare l’essenza della storia, trasportando sul grande schermo la tormentata esistenza del protagonista Geoffrey Firmin e la vibrante atmosfera del Messico degli anni ’30, sull’orlo del baratro della Seconda Guerra Mondiale.

La trama del film segue fedelmente il romanzo, concentrandosi su una singola, fatidica giornata: il Giorno dei Morti del 1938, nella città di Quauhnahuac. Geoffrey Firmin, interpretato magistralmente da Albert Finney, è un ex console britannico in rovina, divorato dall’alcolismo e dai rimorsi. La sua discesa nell’abisso è rappresentata con una tale intensità che lo spettatore non può che sentirsi trascinato nella spirale autodistruttiva del protagonista.

Accanto a Geoffrey, troviamo sua moglie Yvonne (Jacqueline Bisset) che, dopo il divorzio, torna a Quauhnahuac con la speranza di salvarlo, e suo fratellastro Hugh (Anthony Andrews), un giornalista idealista, appena tornato dalla Spagna, dove ha combattuto vanamente contro i militari di Franco. Le dinamiche tra i tre personaggi si sviluppano sullo sfondo di un Messico reso con un realismo quasi tangibile, grazie alla straordinaria fotografia di Gabriel Figueroa, che cattura superbamente la bellezza e la brutalità del paesaggio messicano.

Figueroa, direttore della fotografia preferito dal cineasta messicano Emilio Fernández, autore di numerose pellicole a partire dagli anni Cinquanta, collabora con Huston grazie soprattutto all’amicizia personale fra Fernández e lo stesso cineasta americano. Non è un caso quindi se Huston, in questo film, affida allo stesso Fernández la parte del proprietario di galli da combattimento che apre la sequenza finale.

Il film riesce a mantenere la complessità emotiva del romanzo, esplorando temi come la disperazione, la redenzione, la solitudine e la comunione. Huston, con il suo tocco inconfondibile, infonde nella pellicola una serie di simboli e riferimenti che arricchiscono la narrazione, proprio come Lowry fa nel suo romanzo. La struttura del film, sebbene più lineare rispetto alla prosa frammentaria di Lowry, riflette comunque il caos interiore di Geoffrey, portando lo spettatore in un viaggio onirico attraverso la sua psiche tormentata.

Uno degli aspetti più sorprendenti del film è la sua capacità di trasmettere la stessa sensazione di inesorabile discesa verso l’abisso che si prova leggendo il romanzo. La regia di Huston è a tratti ipnotica, immergendo lo spettatore nelle profondità della mente del console, dove il confine tra realtà e allucinazione si fa sempre più labile.

“Sotto il vulcano” di John Huston non è solo una storia di autodistruzione, ma anche una meditazione sull’amore e la perdita, sul senso di colpa e sulla possibilità di redenzione. È un film che sfida e coinvolge, richiedendo allo spettatore un impegno totale per essere pienamente compreso e apprezzato, proprio come il romanzo da cui è tratto.

Attraverso la figura tragica di Geoffrey Firmin, Huston, seguendo le orme di Lowry, ci offre uno specchio in cui riflettere sulle nostre stesse paure e debolezze, ricordandoci quanto sia fragile l’equilibrio tra l’ordine e il caos nella vita di ciascuno di noi. “Sotto il vulcano” è, senza dubbio, un capolavoro cinematografico che continua a risuonare con forza nel cuore di chiunque abbia il coraggio di immergersi nelle sue profondità. E pensare che per decenni il romanzo di Lowry è stato considerato “infilmabile”.

Sono passati quarant’anni dall’uscita di questa pellicola nelle sale cinematografiche di tutto il mondo ma, per comprendere al meglio la modernità e la contemporaneità del genio di Huston, basta osservare quanto l’umanità sia oggi ancora davanti ad un baratro.

“Sotto il vulcano” di Malcom Lowry

(Feltrinelli, 2000)

Pubblicato per la prima volta nel 1947, “Sotto il vulcano” di Malcolm Lowry è senza dubbio uno dei romanzi più complessi e affascinanti della letteratura del XX secolo, capace di stregare lettori di tutto il mondo con la sua prosa opulenta e la sua profondità emotiva.

La storia si svolge in un’unica giornata, il Giorno dei Morti del 1938, nella città messicana di Quauhnahuac. Il protagonista, Geoffrey Firmin, è un ex console britannico in rovina, devastato dall’alcolismo e da un dolore inestinguibile. Attraverso una narrazione intrecciata e frammentaria, Lowry ci guida in un viaggio nella psiche tormentata del console, i cui ricordi e rimorsi emergono incessantemente nel corso di quella fatidica giornata.

Accanto a Geoffrey, troviamo sua moglie Yvonne, che torna a Quauhnahuac con la speranza di riconciliarsi e salvarlo dalla spirale autodistruttiva in cui è caduto, e il suo fratellastro Hugh, un giornalista idealista con i propri demoni interiori. La relazione tra questi personaggi si sviluppa sullo sfondo di un Messico vibrante e misterioso, che Lowry descrive con un realismo sensoriale sorprendente, quasi tangibile.

Il romanzo è un’esplorazione profonda della disperazione e della redenzione, della solitudine e del riscatto. Lowry utilizza una serie di simboli e riferimenti letterari, biblici e mitologici per arricchire la narrazione, rendendo “Sotto il vulcano” un’opera densa di significati e aperta a molteplici interpretazioni.

Uno degli aspetti più sorprendenti del romanzo è la sua struttura, che riflette il caos interiore di Geoffrey. La prosa di Lowry è a tratti onirica, quasi ipnotica, capace di trasportare il lettore nelle profondità della mente del console, dove il confine tra realtà e allucinazione si fa sempre più labile.

“Sotto il vulcano” non è solo una storia di autodistruzione, ma anche una meditazione sull’amore e la perdita, sul senso di colpa e sulla possibilità di redenzione. È un romanzo che sfida e coinvolge, richiedendo al lettore un impegno totale per essere pienamente compreso e apprezzato.

Malcolm Lowry, attraverso la figura tragica di Geoffrey Firmin, ci offre uno specchio in cui riflettere le nostre stesse paure e debolezze, ricordandoci quanto sia fragile l’equilibrio tra l’ordine e il caos nella vita di ciascuno di noi. “Sotto il vulcano” è, senza dubbio, un capolavoro della letteratura mondiale, un libro che continua a risuonare con forza nel cuore di chiunque abbia il coraggio di immergersi nelle sue pagine. Non è un libro facile, né è facile leggero, ma è proprio questo a renderlo un capolavoro, una pietra miliare per più di una generazione.

Nel 1984 il maestro John Huston dirige l’ottimo adattamento cinematografico “Sotto il vulcano” con Albert Finney nel ruolo di Firmin e Jacqueline Bisset in quello di Yvonne.

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“Se succede qualcosa, vi voglio bene” di Michael Govier e Will McCormack

(USA, 2020)

Questo cortometraggio animato, il cui titolo originale è “If Anything Happens I Love You”, rappresenta una pietra miliare nell’animazione contemporanea, un’opera di rara intensità che esplora il dolore della perdita terrificante con una delicatezza squisita. In un panorama cinematografico spesso dominato dalla verbosità, questo film si distingue per l’uso magistrale del silenzio, lasciando che le immagini e le suggestioni visive parlino al cuore dello spettatore.

L’animazione minimalista, che ricorda le linee essenziali e stilizzate dell’arte orientale, serve non solo come veicolo estetico ma come potente strumento narrativo. Le ombre che accompagnano i genitori, protagonisti silenziosi e disperati, incarnano i loro pensieri inespressi, il loro rimpianto, e l’amore che, pur nella sofferenza, continua a legarli. Queste figure evanescenti, quasi spettrali, trasformano la casa in un luogo di memorie in cui il tempo sembra essersi fermato, cristallizzando un momento di irrevocabile perdita.

Govier e McCormack, con un tocco che richiama l’eleganza sobria di registi come Ozu o Bresson, evitano il rischio del melodramma e scelgono una narrazione visiva che si concentra sull’essenziale. Una scelta che risuona fragorosamente, specialmente in scene chiave come quella del disegno ritrovato, simbolo di una felicità irrimediabilmente spezzata, ma mai dimenticata. La forza del cortometraggio risiede proprio in questa capacità di evocare emozioni autentiche e universali, senza ricorrere a facili soluzioni narrative.

“Se succede qualcosa, vi voglio bene” non è solo un racconto di dolore, ma un inno alla resilienza umana, alla capacità di trovare speranza anche nelle circostanze più buie e tragiche, come quella di due genitori che sono sopravvissuti alla loro giovane figlia appena adolescente, perita in una sparatoria scolastica. È un’opera che, pur nella sua brevità, offre una riflessione profonda sul significato della perdita e sull’importanza della memoria, temi cari a molto del cinema d’autore.

Questo cortometraggio ha meritatamente vinto l’Oscar per il Miglior Cortometraggio d’Animazione, riconoscimento che celebra non solo la qualità tecnica e artistica del film, ma anche la sua capacità di comunicare in modo diretto e senza mediazioni con il pubblico.

Un’opera da vedere e rivedere, capace di restare impressa nella mente e nel cuore di chi la guarda.

2 agosto 1980 – 2 agosto 2024

Copertina Ora e sempre

Care lettrici e cari lettori,

oggi, 2 agosto 2024, ricorre il 44° anniversario della strage di Bologna del 1980, un evento tragico che ha segnato profondamente la storia del nostro Paese. È con un nodo alla gola che mi unisco al ricordo delle 85 vittime innocenti e dei 200 feriti, persone la cui vita è stata spezzata vai o compromessa in un attimo di violenza cieca, vile e infame.

Nel mio romanzo “Ora e sempre“, pubblicato nel 2012, ho cercato di esplorare le oscure profondità del terrorismo che ha insanguinato l’Italia durante gli anni di piombo. Il libro si chiude proprio con la strage di Bologna, un evento che rappresenta il culmine di un periodo di terrore e sofferenza. Attraverso le vicende dei miei personaggi, ho voluto rendere omaggio a tutte le vittime del terrorismo, cercando di dar voce a chi ha vissuto quei momenti drammatici.

Scrivere di quegli anni è stato un viaggio intenso e doloroso, ma necessario. Ho voluto ricordare le vittime, coloro che erano occupati semplicemente a portare avanti le proprie esistenze, ma anche il coraggio di chi ha lottato contro il terrorismo, di chi ha cercato la verità e la giustizia, chi si è opposto senza remore alla violenza. La strage di Bologna non deve essere dimenticata, perché la memoria è l’unico antidoto contro la ripetizione degli errori del passato.

Oggi, mentre ricordiamo e onoriamo le vittime, dobbiamo anche riflettere sul valore della pace, della democrazia e della giustizia. La nostra società deve continuare a lavorare affinché tali atrocità non abbiano mai più luogo. Dobbiamo coltivare la memoria storica e trasmetterla alle nuove generazioni, affinché sappiano e comprendano.

Vi invito a rileggere “Ora e sempre” con questa consapevolezza, a immergervi nelle storie dei miei personaggi e a riflettere sul significato profondo di quegli eventi. La letteratura ha il potere di farci sentire, di farci capire e di farci ricordare. È attraverso la condivisione di queste storie che possiamo mantenere viva la memoria e costruire un futuro migliore.

Chi vorrà, per oggi, potrà scrivere una mail a info@valeriotagliaferri.it e ricevere una copia digitale gratuita di “Ora e sempre”. 

Con affetto e speranza, Valerio Tagliaferri

“Egli camminava nella notte” di Alfred L. Werker

(USA, 1948)

Alfred L. Werker, con la collaborazione non accreditata di Anthony Mann, ci consegna un capolavoro del cinema noir con “Egli camminava nella notte”. Basato su una storia vera, il film esplora le oscure profondità di Los Angeles attraverso l’indagine di un omicidio che si trasforma in una caccia all’uomo, incarnata nella figura di Roy Morgan, interpretato con glaciale intensità da Richard Basehart.

La pellicola è un esempio sublime di cinema noir, dove la maestria di John Alton nella direzione della fotografia gioca un ruolo cruciale. Le sue inquadrature, caratterizzate da forti contrasti tra luci e ombre, non solo amplificano la tensione narrativa ma anche simbolizzano la dualità morale dei personaggi e l’oscurità della metropoli americana. Alton riesce a fare di Los Angeles non solo uno sfondo, ma un vero e proprio protagonista del film, un labirinto di strade e vicoli che riflette l’angoscia e l’alienazione dei suoi abitanti.

La narrazione è tesa, quasi documentaristica, evidenziando una cruda autenticità che era innovativa per l’epoca. Questo approccio è esemplificato nella rappresentazione dei poliziotti, in particolare del detective Marty Brennan, interpretato da Scott Brady. La sceneggiatura non risparmia dettagli nel dipingere i dubbi e le pressioni a cui sono sottoposti, un aspetto che arricchisce il film di una profondità psicologica rara.

Scritto da Crane Wilbur, John C. Higgins e Harry Essex (che qualche anno dopo parteciperà alla stesura della sceneggiatura de “Il mostro della laguna nera” di Jack Arnold), alla sua uscita, “Egli camminava nella notte” non ricevette l’attenzione che meritava, forse a causa del suo realismo e della sua rappresentazione disincantata della giustizia. Di fatto Werker e Mann firmano l’antesignano del genere true crime che molto successo avrà nei decenni successivi. Ancora oggi lascia affascinati la creazione del primo vero identikit dell’assassino che viene fatto dalla Polizia in collaborazione con alcuni testimoni.

Tuttavia, come accade spesso nel mondo del cinema, il tempo ha saputo fare giustizia, rivalutando questa opera come un punto di riferimento del genere noir. Le sequenze ambientate nei sotterranei di Los Angeles, in particolare, sono divenute iconiche, influenzando generazioni di cineasti e critici.

È proprio questa capacità di fondere tecnica cinematografica e narrazione che rende “Egli camminava nella notte” un film imprescindibile per ogni appassionato di cinema. Werker e Mann, con la loro regia incisiva e la visione chiara, ci ricordano che il noir non è solo un genere, ma un mezzo per esplorare le complessità dell’animo umano e le ambiguità della società moderna.

In sintesi, “Egli camminava nella notte” rappresenta un momento di grazia nella storia del cinema, un’opera che merita di essere studiata e apprezzata, non solo per la sua importanza storica, ma per la sua capacità di parlare al cuore delle tenebre che ognuno di noi nasconde.

Per la chicca: nel 1950, quando questa pellicola approdò nelle nostre sale, Ennio Flaiano ne scrisse una critica e parlando molto del suo attore protagonista. Solo pochi anni dopo dopo, nel 1954, Federico Fellini dirigerà il capolavoro assoluto “La strada“, scritto assieme allo stesso Flaiano e a Tullio Pinelli, dove uno dei tre personaggi principali verrà interpretato non a caso da Basehart.

Per comprendere al meglio l’impatto che questo film ha avuto nella cultura americana, e non solo, basta ricordare che Jack Webb, che ha la piccola e marginale parte dell’addetto della “Scientifica” del Dipartimento, pochi anni dopo creerà e interpreterà la serie televisiva “Dragnet”, proprio incentrata sui true crime consumatisi a Los Angeles, che riscosse un successo decennale.

“Il condominio dei cuori infranti” di Samuel Benchetrit

(Francia, 2015)

Samuel Benchetrit, con “Il condominio dei cuori infranti”, ci consegna una pellicola che sembra sfuggire ai canoni del cinema moderno, per avvicinarsi a un racconto intimista e malinconico, dove il vero protagonista è l’umanità nella sua disarmante quotidianità. Questo film del 2015, tratto dalla prima raccolta di racconti “Cronache dall’asfalto” che lo stesso Benchetrit ha pubblicato nel 2005, è ambientato in un anonimo complesso residenziale parigino e potrebbe sembrare, a prima vista, un’ordinaria esplorazione della vita urbana. Eppure, sotto la superficie, si nasconde una sottile riflessione sul senso di appartenenza e sull’isolamento che caratterizzano la nostra epoca.

Nella trama, fatta di incontri e sguardi incrociati, emergono: il solitario Sterkowitz (Gustave Kervern) che sembra vivere ai margini della società, intrappolato in una routine autoreferenziale e priva di scosse. Con lui, una donna dal passato ingombrante, Jeanne Meyer (interpretata da una bravissima Isabelle Huppert) e il suo giovanissimo dirimpettaio Charly (Jules Benchetrit, figlio dello stesso regista e di Marie Trintignant); un astronauta americano che ha il volto di Michael Pitt, che si trova bloccato sul tetto del condominio e viene ospitato da Hamida (Tassadit Mandi), un’anziana magrebina giunta a Parigi negli anni Sessanta e rimasta sola da quando suo figlio è finito in carcere. E poi c’è l’infermiera (Valeria Bruni Tedeschi) che, nel posto più improbabile, sembra poter illuminare la vita di Sterkowitz.

Questi personaggi, ciascuno con il proprio bagaglio di solitudine e desiderio di connessione, si muovono come ombre nella grande scenografia della vita urbana, cercando, inconsapevolmente, un’uscita dal proprio isolamento.

Benchetrit ci offre una regia che è allo stesso tempo attenta e discreta, capace di catturare i dettagli più insignificanti e trasformarli in simboli di una condizione umana universale. Il film si sviluppa come un mosaico di piccoli momenti di vita, dove anche il gesto più banale può diventare un atto di resistenza contro l’indifferenza. La narrazione è punteggiata da un umorismo sottile, che stempera la malinconia senza mai cadere nel cinismo.

La scelta di un condominio come ambientazione principale non è casuale: rappresenta un microcosmo dove vite diverse si sfiorano senza mai veramente toccarsi, un’immagine potente di una società in cui la vicinanza fisica non si traduce automaticamente in connessione emotiva. In questo senso, “Il condominio dei cuori infranti” è anche una riflessione sulla fragilità dei rapporti umani e sull’importanza della gentilezza come atto di ribellione contro l’alienazione.

Il film ci ricorda che, anche nelle situazioni più disperate, c’è sempre spazio per l’inaspettato, per l’incontro che può cambiare una vita. La forza del cinema di Benchetrit sta nella sua capacità di mostrare questa possibilità, di rivelare la bellezza nascosta nel quotidiano, di farci vedere l’umanità dietro le facciate anonime di un condominio qualunque.

In un’epoca in cui il cinema spesso si perde in grandiose narrazioni, “Il condominio dei cuori infranti” riscopre il valore del piccolo, dell’intimo, dell’irrilevante che si fa rilevante. È un film che ci invita a guardare più da vicino, a riscoprire la poesia nelle pieghe del reale. Un’opera, dunque, che merita di essere vista, non solo per la sua delicatezza narrativa, ma per la sua capacità di parlare al cuore dello spettatore con una voce pacata e sincera.

“The Fighter” di David O. Russell

(USA, 2010)

“The Fighter” esplora le complesse sfaccettature familiari e personali dietro la vera carriera e la vera vita del pugile statunitense Micky Ward. Ma, attenzione, non è solo una storia di pugilato, ma una dissezione cruda e implacabile delle dinamiche familiari e delle lotte interiori che spingono un uomo verso il ring e, ancor di più, verso la redenzione.

Mark Wahlberg, nel ruolo di Micky Ward, è come una corda tesa, sempre sul punto di spezzarsi, ma incredibilmente resiliente. La sua interpretazione è una sinfonia di silenzi e sguardi che dicono tutto senza dire nulla. Ma, come spesso accade nei migliori racconti, sono i personaggi ai margini a catturare l’attenzione. Christian Bale (che vince l’Oscar come migliore attore non protagonista) nei panni del fratellastro Dicky Eklund, è un tornado di energia caotica e devastante. Ex pugile promettente ormai caduto in disgrazia, Dicky è una figura tragica, un uomo che combatte demoni più spaventosi di qualsiasi avversario sul ring: la tossicodipendenza da crack. E Bale lo interpreta con una ferocia che è sia terrificante che profondamente commovente.

E poi c’è Melissa Leo (anche lei premio Oscar come migliore attrice non protagonista), che incarna magistralmente la madre di Micky e Dicky, una donna tanto devota quanto manipolatrice, madre e patriarca di nove figli avuti da uomini diversi. La sua interpretazione è come una mano gelida che ti stringe il cuore, costringendoti a riconoscere la complessità della maternità in un ambiente così spietato e senza sconti, come sono i margini della società americana.

Russell dirige con la precisione di un chirurgo, alternando con maestria le scene di combattimento viscerali con momenti di dramma familiare che tagliano come coltelli affilati. La fotografia di Hoyte van Hoytema cattura la grinta e la desolazione di Lowell, Massachusetts, come una città intrappolata in un incubo senza fine.

La sceneggiatura, firmata da Scott Silver, Paul Tamasy e Eric Johnson, evita i sentieri battuti dei film sportivi, scegliendo invece di immergersi nelle profondità delle relazioni umane. I dialoghi sono taglienti e autentici, come voci che sussurrano segreti oscuri nelle orecchie degli spettatori. Non è un caso, quindi, che come produttore esecutivo ci sia il regista Darren Aronofsky.

La colonna sonora, con brani di The Rolling Stones e degli Aerosmith, non è solo un accompagnamento musicale, ma un pulsante battito cardiaco che sottolinea ogni pugno, ogni urlo, ogni lacrima e ogni bacio appassionato.

“The Fighter” non è solo pugilato, ma un’epopea umana che scava nei recessi più oscuri dell’anima. È una storia di riscatto e sacrificio, di speranza e disperazione, che ti lascia esausto ma stranamente ispirato. Come un bel romanzo, è un viaggio che esplora non solo il coraggio e la determinazione, ma anche le ombre che perseguitano ciascuno di noi. E alla fine, ti rendi conto che il vero combattimento non è mai sul ring, ma sempre dentro di noi.

Nel cast da ricordare anche l’ottima interpretazione di Amy Adamas nei panni di Charlene, la compagna di Micky.

“The Door” di István Szabó

(Ungheria/Germania, 2012)

Il regista ungherese István Szabó ci porta in un piccolo mondo che racchiude la complessità della vita stessa. Basato sull’omonimo romanzo autobiografico di Magda Szabó (1917-2007) pubblicato per la prima volta nel 1987, il film esplora la relazione tra due donne molto diverse tra loro, Magda ed Emerenc. La storia è ambientata nell’Ungheria degli anni ’60, e possiede un’umanità profonda e una delicatezza colme di dettagli e sfumature della vita quotidiana, ed esplora le profondità dell’animo umano attraverso la storia di un’intensa relazione tra due donne di epoche e classi sociali diverse.

Magda (interpretata splendidamente da Martina Gedeck) è una scrittrice emergente, che cerca di bilanciare la sua carriera con la sua vita personale centrata sul matrimonio con Tibor (Károly Eperjes). Quando assume Emerenc (una magistrale Helen Mirren) come domestica, inizia un rapporto che è tanto complesso quanto affascinante. Emerenc è una figura enigmatica, con un passato pieno di segreti, che vive una vita rigida e austera. La porta chiusa della sua casa diventa un simbolo potente, rappresentando le barriere emotive e i misteri che separano le due donne.

Szabó utilizza un linguaggio visivo ricco di dettagli, che ricorda i piccoli momenti quotidiani che tanto amo esplorare nei miei romanzi. Ogni scena è costruita con cura, come una stanza piena di ricordi e storie nascoste. La fotografia è delicata e attenta, catturando le sfumature della luce e dell’ombra che giocano sui volti dei personaggi e negli angoli delle loro vite. Questo approccio crea un’atmosfera intima e riflessiva, invitando lo spettatore a soffermarsi e a contemplare la bellezza nascosta nelle piccole cose.

Helen Mirren, nel ruolo di Emerenc, è semplicemente straordinaria. La sua interpretazione dà vita a un personaggio che è allo stesso tempo forte e vulnerabile, pieno di dignità e profondamente umano. Martina Gedeck, nei panni di Magda, è altrettanto convincente. La sua rappresentazione di una donna moderna che cerca di capire e connettersi con un mondo molto diverso dal suo è toccante e autentica. Insieme, le due attrici creano una dinamica complessa e avvincente, che è il cuore pulsante del film.

“The Door” è un film che parla di segreti, fiducia e il difficile cammino verso la comprensione reciproca. Szabó ci mostra che, come nelle migliori storie, le risposte non sono sempre chiare o facili da trovare. Ogni personaggio è un enigma, ogni relazione una sfida. Ma è proprio questa incertezza che rende la vita così ricca e affascinante.

Guardare “The Door” è come leggere un romanzo che svela lentamente i suoi segreti, pagina dopo pagina. È un film che ci invita a guardare oltre la superficie, a cercare il significato nascosto nelle piccole cose, e a trovare la bellezza nei momenti di pura connessione umana.

In un’epoca in cui cerchiamo spesso risposte rapide e definitive, “The Door” ci ricorda che la vera comprensione richiede tempo, pazienza e un cuore aperto. È un’opera che ci tocca profondamente, lasciandoci con la consapevolezza che, alla fine, le storie più belle sono quelle che ci sfidano a guardare più da vicino e ad amare ciò che troviamo.

Da vedere.