“Indiana Jones e il quadrante del destino” di James Mangold

(USA, 2023)

Ci siamo, il tempo passa per tutti anche per il leggendario professor Henry Jones Jr (un sempre gajardo e tosto Harrison Ford) che tutti chiamano “Indiana”. E così, alla fine degli anni Sessanta, l’archeologo più famoso della celluloide deve andare in pensione, proprio mentre i primi esseri umani mettono il piede sulla Luna.

Ma non è la pensione ad annichilire il dottor Jones, sono le cose e le scelte fatte e, soprattutto, quelle non fatte. Fra le prime, senza dubbio, ci sono quelle che hanno portato al naufragio della sua famiglia. L’allontanamento definitivo da Marion (Karen Allen) ha minato l’anima del professore che si rassegna così a passare quello che gli rimane da vivere in assoluta e alcolica solitudine.

A scardinare questa convinzione ci pensa Helena Shaw (Phoebe Waller-Bridge), figlia di Basil Shaw (Toby Jones) vecchio amico e collaboratore di Jones, scomparso qualche anno prima. Proprio con Shaw, durante la fine del secondo conflitto mondiale, Jones era riuscito a trovare una parte della macchina di Anticitera realizzata da Archimede nel II secolo a.C., che di fatto è il più antico calcolatore meccanico conosciuto al mondo.

La macchina, che prese il nome dell’isola greca presso la quale venne rinvenuta nei primi del Novecento da due pescatori di spugne nel relitto di un’antica nave romana, era una sorta di planetario che serviva ad anticipare le stagioni, i cambiamenti climatici e gli eventi atmosferici in generale. Ma il Dottor Voller (Mads Mikkelsen), fra i matematici di spicco del Terzo Reich, la voleva portare ad Hitler perché convinto che possedesse la chiave per viaggiare nel tempo e poter vincere così ogni guerra.

E proprio dalle mani di Voller, Jones la prese assieme a Shaw che la conservò gelosamente. Però lo studio morboso della macchina di Archimede portò Shaw alla follia, tanto che alla fine era convinto che Voller avesse ragione e per questo era sul punto di distruggerla. Per conservare un reperto archeologico così importante Jones gliela portò via promettendo di distruggerla. Motivo per il quale 18 anni dopo Helena la richiede al vecchio amico di suo padre.

Ma sulle sue tracce ci sono gli uomini dell’implacabile professor Smith, il matematico che più degli altri è riuscito a mandare l’Apollo 11 sulla Luna e per questo ha il massimo appoggio della Casa Bianca. Ma la stessa Casa Bianca forse ignora che Smith è in realtà Voller, che vuole la macchina di Anticitera per cambiare la storia e il destino del mondo…

Scritto da David Koepp, Jez Butterworth, John-Henry Butterworth e James Mangold, e basato sui personaggi ideati da George Lucas, questo “Indiana Jones e il quadrante del destino” – che è il primo della serie a non essere diretto da Steven Spielberg che appare però assieme all’amico Lucas come produttore esecutivo – oltre a divertici con sequenze mozzafiato, battute e godibilissime autocitazioni, ci offre una riflessione crepuscolare sul tempo che passa inesorabilmente per tutti, anche per gli eroi immortali dei film.

Da sempre l’essere umano vorrebbe viaggiare nel tempo, spesso per poterlo cambiare a proprio favore, per correggere i propri errori o forse per non morire mai. Ma già il grande H.G. Wells nel suo splendido “La macchina del tempo” sosteneva che, anche potendo tornare indietro, il nostro destino, come quello degli altri, sarebbe comunque immutabile. E allora Indiana Jones, alla fine, ci sussurra all’orecchio che se proprio il nostro passato non lo possiamo cambiare, possiamo senza dubbio essere padroni del nostro futuro.

Nel cast appare anche Antonio Banderas, che si doppia da solo nella nostra versione. Dopo “Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta” e “Indiana Jones e l’ultima crociata” questo è il più sfizioso della serie.

Un solo appunto al film, e alla nostra versione, in cui Jones replica tagliente al Dottor Voller che nessun tedesco sa essere spiritoso. Che i nazisti, tedeschi o di qual qualsivoglia nazionalità, non siano capaci di essere spiritosi è un tragico dato di fatto scritto a ferro fuoco e sangue nella storia planetaria dell’ultimo secolo, ma non condivido assolutamente che la cosa possa valere per tutti i tedeschi in generale.

“Elemental” di Peter Sohn

(USA, 2023)

Le incomprensioni e gli attriti all’interno di una famiglia, in cui c’è comunque tanto amore incondizionato, sono fra gli elementi – …è proprio il caso di dirlo – principali della narrativa scritta e filmata contemporanea.

Se nel nostro Paese questi argomenti sono stati affrontati straordinariamente, e per la prima volta, dal maestro Eduardo De Filippo – sulla scia di Luigi Pirandello – nella sua immortale commedia “Natale in casa Cupiello”, negli Stati Uniti noti autori come Eugene O’Neill, Tennesse Williams o Arthur Miller li hanno portati superbamente sul palcoscenico, e poi sul grande schermo, nei decenni successivi.

Non c’è da stupirsi, quindi, se anche il cinema di animazione – che purtroppo ancora nel nostro Paese qualcuno considera un semplice e banale “passatempo” per i più piccoli – ha iniziato a raccontarci dei problemi e delle gravi ansie che nascono e crescono vorticosamente, spesso sotto traccia, all’interno di una famiglia.

Gli esempi sono numerosi, sia per quanto riguarda il cinema d’animazione giapponese, a partire dalle pellicole realizzate dallo Studio Ghibli ma non solo, che in quello francese con, ad esempio, lo splendido “La mia vita da zucchina“. Ma anche la stessa Disney con film come “Encanto” ci ha raccontato le pressioni e i relativi traumi di una famiglia in cui tutti si vogliono un profondo bene.

Per parlarci di questo tema Peter Sohn (che ha firmato “Il viaggio di Arlo“) si affida alla sceneggiatura scritta da John Hoberg, Kat Likkel e Brenda Hsueh che ci porta ad Elemental City, la città in cui convivono i vari elementi dell’universo: fuoco, terra, aria e acqua. Ma spesso fra i vari individui la convivenza non è facile, cosa che dà adito ad attriti e intolleranze.

Cosa succede allora quando un acquatico incontra e si innamora di una ragazza, letteralmente, di fuoco?

Per rendere più interessante e divertente la storia gli autori hanno invertito i soliti e “vecchi schemi” narrativi affidando il ruolo femminino all’acquatico Wade Ripple che, trasparente come una sorgente di alta montagna, non nasconde alcuno dei suoi sentimenti; mentre quello mascolino a Ember, una ragazza di fuoco che è convinta di dover essere sempre tutta d’un pezzo e per questo è spesso preda di un’ira incontrollabile.

Con toni leggeri e divertenti, così, entriamo in quella che spesso è la fucina di dolori e sofferenze, molto spesso evitabili, a cui tutti noi nel bene e nel male dobbiamo sopravvivere, soprattutto durante l’adolescenza: la famiglia.

Sfizioso.

“Mr. Ove” di Hannes Holm

(Svezia, 2015)

Nel 2014 lo svedese Fredrik Backman (classe 1981) pubblica il romanzo “L’uomo che metteva in ordine il mondo” che riscuote un ottimo successo, non solo in patria. L’anno successivo Hannes Holm realizza l’adattamento cinematografico del romanzo, di cui scrive anche la sceneggiatura.

Ove Lindahl (Rolf Lassgård, che è stato il primo attore, a partire dalla metà degli anni Novanta, ad impersonare davanti alla macchina da presa il commissario Kurt Wallander, creato dallo scrittore Henning Mankell) è un uomo solitario e scontroso con tutti. Vive da solo nella sua villetta in un comprensorio di cui è stato presidente finché tutti gli inquilini, compreso il suo ex amico e vicino Rune, non lo hanno sfiduciato per la sua insopportabile precisione e burbera arroganza nel far rispettare a tutti le regole, senza eccezioni.

Come suo padre, anche Ove ha sempre lavorato presso l’officina locale delle ferrovie svedesi, ma superati i sessant’anni, appena raggiunta l’anzianità, viene rapidamente pensionato. All’uomo, oltre alla lapide della sua amata moglie Sonya (Ida Engvoll), non rimane nient’altro e così decide di tornare a casa e suicidarsi per poterla finalmente raggiungere.

Ma proprio mentre sta per compiere l’insano gesto, viene interrotto dai suoi nuovi vicini: Parvaneh (Bahar Pars) e Patrick (Tobia Almborg), lei persiana e lui svedese, da poco diventati i suoi nuovi e “molesti” – secondo Ove, visto che hanno due bambine piccole e sono in attesa della terza – vicini.

Ma la tenacia e la volontà di Ove sono granitiche, e così tenterà più di una volta di togliersi la vita, ed ogni volta rivivrà i momenti più determinanti e segnanti della sua esistenza, dalla morte della madre quando era ancora un bambino, all’incontro casuale con la sua amata Sonja. Anche a Parvaneh, Ove racconterà le sue fortune e le sue sfortune, tanto che alla fine la donna comprenderà l’essenza di un uomo complicato che ha avuto un’esistenza ancora più complicata di lui…

Deliziosa e malinconica riflessione sull’esistenza e, soprattutto, sul senso di questa, che indipendentemente dalla latitudine in cui si vive non è mai semplice e lineare. Ma anche un atto d’amore per tutte quelle persone che non sono comprese e quindi spesso ignorate ed escluse dalla società che sempre più spesso idolatra solo i vincenti.

Le pellicola viene candidata a due Oscar, quello per il miglior film straniero e quello per il miglior trucco, proprio per l’incredibile trasformazione di Rolf Lassgård. Nel 2022 Marc Forster dirige l’adattamento hollywoodiano del romanzo di Backman dal titolo “Non così vicino” con Tom Hanks nel ruolo del protagonista.

“Lo spaventapasseri” di Jerry Schatzberg

(USA, 1973)

Sul bordo di una strada, persa fra le colline dell’immensa campagna degli Stati Uniti, si incontrano due sconosciuti in cerca di un passaggio: Max (Gene Hackman) e Francis Lionel (Al Pacino). Mentre il primo è un rude e volitivo ex detenuto con in testa l’idea che gli farà cambiare la vita e cioè metter su un autolavaggio a Pittsbugh, il secondo è un pacifico ex marinaio che vuole solo tornare a Detroit dove ha lasciato la sua ragazza incinta, sei anni prima.

I due caratteri così opposti diventano subito complementari, mentre Max ce l’ha col mondo intero ed è pronto a venire alle mani con tutti, grazie anche al suo fisico massiccio e possente, Lionel è invece un minuto e placido ottimista che è convinto, per esempio, che gli spaventapasseri facciano ridere di gusto gli uccelli, senza terrorizzarli, motivo per il quale poi lasciano in pace il campo coltivato sottostante.

Max decide così’ di fare diventare Lionel il suo socio nell’autolavaggio, ma prima di arrivare a Pittsburgh, dove lui ha in banca i soldi che gli consentiranno di aprire l’attività, decide di passare a Denver per trovare la sua ex Coley (Dorothy Tristan). Ma già prima di arrivare a Detroit, il destino impartisce una dura lezione a Lionel, ricordandogli quanto sia pericoloso il lato più ingenuo e superficiale del suo carattere…

Grazie anche ai due grandissimi protagonisti Hackman e Pacino, questa pellicola è una delle più significative del cinema americano indipendente degli anni Settanta. Dopo il sogno dei Sessanta, la dura realtà sbatte prepotentemente contro le speranze di una generazione che credeva davvero nel cambiamento e nel riuscire a realizzare i propri desideri, anche quelli più semplici e banali. Il risveglio così è senza sconti per nessuno.

Schatzberg, come avevano fatto qualche anno prima John Schlesinger nel suo splendido “Un uomo da marciapiede” o Bob Rafelson nel suo “Cinque pezzi facili“, ci tratteggia una società occidentale che inizia a fare i conti con se stessa, conti che per i più deboli, economicamente ma soprattutto emotivamente, non tornano più. E’ una società che ormai non concede loro spazio né pietà.

Scritto da Garry Michael White, con l’ottima fotografia curata da Vilmos Zsigmond (che è stato il responsabile della fotografia di pellicole come “Un tranquillo weekend di paura” di John Boorman, “Sugarland Express” e “Incontri ravvicinati del terzo tipo” di Steven Spielberg, “Obsession – Complesso di colpa” e il cult “Blow Out” di Brian De Palma” o “Il cacciatore” di Michael Cimino) questo film, fra gli altri premi, ha vinto anche la Palma d’Oro al Festival di Cannes.

Da vedere.

“Gente allegra” di Victor Fleming

(USA, 1942)

Nel 1942 il cineasta Victor Fleming, regista di pellicole memorabili come “Via col vento” o “Il mago di Oz”, dirige l’adattamento cinematografico del romanzo di John Steinbeck “Pian della Tortilla“, pubblicato per la prima volta sette anni prima.

La sceneggiatura è firmata da John Lee Mahin e Benjamin Glazer, due storici autori di Hollywood, mentre il cast raduna tre fra i più noti attori del momento: Spencer Tracy, John Garfield e Hedy Lamarr.

Tracy è uno degli interpreti con cui Fleming ha più feeling, tanto da averlo già diretto in film come “Capitani coraggiosi” e “Il dottor Jekyll e Mr. Hyde”, e per questo gli viene affidato il ruolo del protagonista Pilon, il paisanos fulcro del gruppo di scansafatiche e bevitori incalliti che vive a Pian della Tortilla, sulle colline di Monterey, in California.

All’altro attore che va per la maggiore all’epoca, John Garfield (la cui carriera qualche anno dopo, a causa delle sue simpatie verso il Partito Comunista, verrà devastata dalla famigerata “caccia alla streghe” maccartista) viene assegnato il ruolo del coprotagonista Danny, che nella nostra versione dell’epoca prende il nome di Daniele.

La star femminile è Hedy Lamarr (1914-2000) il cui nome vero era Hedwig Eva Maria Kiesler, nota ai più per essere stata la prima attrice a posare completamente nuda in un film (“Estasi” diretto da Gustav Machatý nel 1931), ma anche ottima attrice e grande inventrice: studentessa di Ingegneria presso l’Università di Vienna, trasferitasi negli USA, durante la Seconda Guerra Mondiale, studiò e brevettò un sistema per l’individuazione dei sommergibili tedeschi, sistema che oggi è alla base del wi-fi.

Alla Lamarr (cui poi Mel Brooks dedicherà un delizioso gioco di parole nel suo “Mezzogiorno e mezzo di fuoco“) viene affidato il compito di impersonare Dolores Ramirez, l’unica in grado di far battere il cuore di Danny.

Fra sotterfugi ed espedienti, più o meno leciti, vivono a Pian della Tortilla un gruppo di paisanos – i più antichi abitanti della California, con ancora sangue spagnolo nelle vene – nullatententi capitanati dallo scaltro Pillon. Le cose cambiano quando Danny riceve in eredità dal nonno due case. Diventa così un proprietario e stenta ad andare d’accordo con i suoi amici che invece vogliono spartire con lui i suoi beni.

Danny sarà diviso fra la sua antica e solida amicizia con Pilon e l’amore che gli scoppia nel cuore per Dolores, una ragazza di Salinas, che vorrebbe sposarlo. Intorno a loro ruotano le storie degli altri paisanos, fra cui quella del Pirata (Frank Morgan, che aveva interpretato proprio il famigerato mago di Oz nell’omonimo film di Fleming) un anziano vagabondo che vive con alcuni cani randagi come lui, e che nasconde un segreto nel cuore…

Anche se il film è girato tutto in studio, sia gli interni che gli esterni, e Tracy e la Lamarr sono truccati pesantemente per sembrare dei veri paisanos, questa pellicola possiede il suo fascino e mantiene, almeno fino al finale, lo spirito del romanzo di Steinbeck. D’effetto, ancora oggi, la storia proprio del Pirata.

La mano pesante della produzione, allora assai perbenista e ipocrita, obbligò sceneggiatori e regista a scostarsi dall’epilogo originale dello splendido libro di Steinbeck per offrire al pubblico – ritenuto evidentemente immaturo e assai ingenuo – un lieto fine che accontentasse tutti, facendo tornare a casa gli spettatori felici, e forse …evitandogli di pensare troppo.

Nonostante ciò “Gente allegra” – il cui titolo in italiano ammicca al vecchio proverbio che recita nella seconda parte: “…Dio l’aiuta!” – merita comunque di essere visto sia per la magia e il fascino della storia, che per apprezzare la bravura di un grande attore come Spencer Tracy, forse dimenticato da troppi.

“Il collezionista di carte” di Paul Schrader

(USA, 2021)

Paul Schrader (classe 1946) è uno dei più importanti autori cinematografici americani della sua generazione. Ha firmato script di film come “Taxi Driver”, “Toro scatenato” e “L’ultima tentazione di Cristo” diretti da Martin Scorsese (che cooproduce questo film); “Obsession – Complesso di colpa” diretto da Brian De Palma; “American gigolò”, “Lo spacciatore” e “Affliction” di cui lui stesso ha poi curato la regia.

Così come in molte sue pellicole, e soprattutto nell’ottimo “Lo spacciatore” del 1992 con protagonista Willem Dafoe (vero attore “feticcio” del regista), Schrader ci racconta la storia della dolorosa e cruda redenzione di un uomo che ha sbagliato.

William Tell (un bravo Oscar Isaac) è un giocatore d’azzardo professionista che vive delle proprie vincite girando per tutti i numerosi casinò degli Stati Uniti. E’ un uomo solitario che, una volta alzatosi dal tavolo verde, passa le sue giornate in auto e le sue nottate nei motel. William Tell è un giocatore molto bravo e astuto, soprattutto perché è in grado contare con esattezza le carte di ogni mano.

Se legalmente è vietato farlo, lui viene tollerato perché si accontenta di piccole vincite raggiunte le quali se ne va senza attirare attenzione o creare problemi. William Tell ha però uno strano vizio: in ogni stanza che occupa si porta una grande valigia piena di enormi lenzuola bianche con cui fodera tutto l’arredamento prima di riposare.

E’ una sua vecchia “abitudine” che risale a qualche tempo prima, anche prima degli otto anni e mezzo che ha passato in un carcere militare. Nella sua vita precedente, infatti, il suo nome era William Tillich ed era uno dei militari carcerieri di Abu Ghraib, la prigione irachena dove nel 2004 è scoppiato lo scandalo per le feroci torture e umiliazioni fisiche e mentali, a cui venivano sottoposti i prigionieri iracheni, da parte dei militari statunitensi.

Proprio scontando la sua lunga pena William ha imparato tutto sulle carte e sul gioco d’azzardo. Uscendo di prigione ha cambiato cognome e ha deciso di iniziare una nuova vita, anche se le atrocità che ha commesso non potrà mai dimenticarle.

Un giorno però, in un grande casinò, William incappa casualmente in una conferenza tenuta da John Gordo (Williem Dafoe) sui nuovi sistemi di sicurezza e sorveglianza che la sua ditta produce. Mentre si allontana viene fermato da un ragazzo che afferma di chiamarsi Cirk (Tye Sheridan), e che dice di averlo riconosciuto: era, insieme a suo padre, ad Abu Ghraib. Le foto in cui William e il padre di Cirk sorridevano accanto ai prigionieri vessati hanno fatto il giro del mondo, e così lui non ha avuto problemi ad individuarlo.

Il ragazzo gli confida che ha assistito anche lui alla conferenza di Gordo perché ha un piano per ucciderlo. Gordo, infatti, era uno degli ufficiali specialisti in torture efferate che dirigevano il carcere iracheno gestito dalla Forze Armate americane. A differenza dei soldati che vennero fotografati lui, come tutti i superiori e responsabili anche ad alto livello – fino alle soglie della Casa Bianca – non vennero puniti. Il padre di Cirk, invece come William, venne congedato con disonore e incarcerato. Una volta tornato a casa era ormai un alcolista violento e aggressivo. La madre di Cirk fuggì una notte lasciandolo solo col padre che qualche tempo dopo si sparò.

Il ragazzo vede in Gordo tutto il male che è gli è capitato nella vita e così, ingenuamente, vuole ucciderlo. William tenta in ogni modo di scoraggiarlo e decide di portarselo dietro in giro fra i casinò. Accetta poi l’offerta di La Linda (Tiffany Haddish), un’ex giocatrice professionista ora diventata una manager che trova finanziatori per i giocatori d’azzardo più famosi. L’idea è quella di guadagnare un pò di soldi da dare a Cirk affinché torni a studiare e soprattutto riallacci i rapporti con sua madre.

Abu Ghraib ha rovinato la vita di così tante persone che Will è disposto a tutto pur che non lo faccia con quella del ragazzo, che ha già pagato un prezzo altissimo nonostante la sua giovane età. Ma nella vita, spesso, non basta saper contare le carte di una mano…

Con una regia apparentemente scarna e razionale ma al tempo stesso carica di tensione – tipica di Schrader – assistiamo al viaggio allucinante di William Tell che tenta in ogni modo di sfuggire al proprio destino, destino che però fatalmente incontrerà a causa della sua natura.

Da ricordare anche le scenografie che per la maggior parte sono le reali e immense sale dei casinò americani, vere cattedrali dei sogni perduti di numerosissimi essere umani, che ci sottolineano come nelle guerre vince sempre il banco: i giocatori che materialmente le fanno difficilmente ne escono vincitori, indipendentemente dalla barricata che occupano.

Duro e senza sconti.

Per la chicca: il titolo originale è “The Card Counter”, e un giorno – …forse – capiremo quello in italiano.

“Kinamand” di Henrik Ruben Genz

(Danimarca/Cina, 2005)

Keld (Bjarne Henriksen) è un idraulico che la vita ha reso passivo e apatico, e anche la sua storica passione per gli scacchi sta inesorabilmente svanendo. Sua moglie Rie (Charlotte Fich) tenta in ogni modo di scuoterlo ma, al suo ennesimo rifiuto di partire per un viaggio turistico, decide di lasciarlo.

Keld rimane sorpreso e annichilito dal gesto della compagna e tenta in ogni modo di riconquistarla, ma si deve arrendere quando scopre che Rie ha iniziato a frequentare un altro uomo. Preso dallo sconforto l’uomo vende tutto l’arredamento del loro appartamento e si sistema su una brandina per dormire.

Non essendo abituato a cucinare, la sera inizia a mangiare nel piccolo ristorante cinese sotto casa. Col passare dei giorni fa la conoscenza del padrone Feng (Lin Kun Wu) tanto che quando nel locale si spacca una tubatura l’uomo gli propone un accordo: lui pagherà in contanti il materiale ma per la manodopera retribuirà Keld con una cena al giorno per qualche mese.

L’idraulico accetta e così la sua frequentazione del ristorante e della famiglia di Feng diventa ancora più assidua, tanto che un giorno il ristoratore gli fa una proposta molto particolare: visto che lui ormai è solo, in cambio di 4.000 dollari, potrebbe sposare sua sorella Ling (Vivian Wu) che ha bisogno a tutti i costi del visto per rimanere in Danimarca e non dover tornare in Cina.

Keld, più stupito che sconvolto, declina l’offerta ma quando si trova davanti al giudice per la separazione definitiva da Rie, e questo gli impone un risarcimento pecuniario di cui lui però non ha disponibilità, torna da Feng e accetta la sua offerta per la somma che deve all’ex moglie.

Saputa la notizia Bjorn (Johan Rabaeus), l’avventore del ristorante di Feng con il quale Keld ci si ritrova ogni sera, lo chiama ironicamente “Kinamand”, che in danese vuol dire “muso giallo”. Dopo la cerimonia inizia una convivenza molto formale e distaccata, visto poi che Ling non conosce il danese, convivenza che serve solo per i controlli dell’ufficio immigrazione.

Ma Keld, ogni giorno che passa, rimane sempre più affascinato dalla sua nuova moglie tanto che decide di imparare da solo il mandarino. Ma una giorno a casa si presenta Rie…

Scritto da Kim Fupz Aakeson (autore dello script di “In ordine di sparizione” di Hans Petter Moland) questa “piccola”, deliziosa e struggente pellicola indipendente danese ha un plot che ricorda molto quello di “Green Card – Matrimonio di convenienza” con Gérard Depardieu e Andie MacDowell scritto e diretto da Peter Weir nel 1990, ma con tutt’altre atmosfere.

Keld impersona, infatti, quel pregiudizio che l’Occidente, e l’Europa soprattutto, possiede verso l’Oriente e la Cina in particolare. Ma lo stesso pregiudizio, molto spesso, è destinato a sbriciolarsi sul fascino che una cultura e una tradizione millenaria possiedono e che molti di noi forse non conoscono davvero.

Un piccolo e struggente gioiellino in celluloide.

“The Fabelmans” di Steven Spielberg

(USA, 2022)

Dal 24 marzo del 1974, giorno in cui uscì nelle sale cinematografiche americane “Sugarland Express“, e soprattutto dal 20 giugno dell’anno successivo in cui venne presentato per la prima volta nei cinema “Lo squalo”, tutto il mondo del cinema, e non solo, conosce il nome e la carriera artistica di Steven Spielberg, vero Re Mida di Hollywood, considerato fra i più importanti creatori di sogni in celluloide degli ultimi cinquant’anni.

Ma non tutti conoscono la storia di Spielberg fino al suo esordio come regista televisivo che risale al 1969 a quello cinematografico che è appunto del ’74. E allora lo stesso regista ce la racconta in questa sua ottima pellicola scritta assieme a Tony Kushner.

Il 10 gennaio del 1952 Mitzi Fabelman (Michelle Williams) e Burt Fabelman (Paul Dano) portano il loro secondo genito Sammy, di sei anni, per la prima volta al cinema. Il film è “Il più grande spettacolo del mondo” diretto da Cecil B. DeMille. Sammy rimane letteralmente folgorato e, con i suoi giocattoli, tenta di riprodurre l’incidente più spettacolare e al tempo stesso cruento della pellicola.

Mitzi intuisce che il bambino vuole ripetere continuamente la scena che evidentemente lo ha spaventato, tentando di controllarla e così non averne più paura. Allora, invece che sacrificare continuamente i suoi giocattoli, presta al figlio la cinepresa amatoriale di Burt: lui potrà ripetere l’incidente una sola volta riprendendolo e così potrà rivederlo tutte le volte che desidera, senza danneggiare più i suoi giochi.

E così il piccolo Sammy – che ricorda tanto il piccolo Steven Spielberg… – ha per la prima volta fra le mani quello strumento che lo renderà uno degli uomini più famosi del suo tempo. Ma crescere non è semplice per nessuno, anche se da grandi si diventerà un genio del cinema, e se proviene da una famiglia di tradizione ebraica in un Paese dove l’antisemitismo è ancora molto radicato. E proprio attraverso le lenti delle sue cineprese Sammy (Gabriel LaBelle) vedrà il mondo evolversi e cambiare, così come la sua famiglia, le sue sorelle e naturalmente i suoi genitori.

Sarà poi suo zio Boris (Judd Hirsch), fratello di sua nonna materna e unico parente che ha a che fare col mondo del cinema avendo fatto per anni la comparsa, a spiegargli schiettamente il rapporto troppo spesso irrisolto fra gli affetti stretti e l’arte.

Ma i film, per Sammy, saranno l’unico mezzo di salvezza e sopravvivenza emotiva, morale e a volte anche fisica…

L’uomo dei sogni di Hollywood firma una delle pellicole di formazione più interessanti degli ultimi anni, raccontandoci attraverso la macchina da presa, i dolori e le pene del giovane Sammy che però, nonostante i profondi sensi di colpa e le grandi insicurezze, riuscirà a fare quello che solo pochi eletti fanno: realizzare il suo sogno più grande.

Come in ogni altra pellicola di Spielberg, anche in questa le immagini hanno un ruolo centrale nella narrazione. E così il cineasta americano ci mostra anche solo visivamente da dove nacquero gli spunti che poi, anni dopo, metterà in pellicole come “E.T. – L’extraterrestre”, “I predatori dell’arca perduta“, “Ritorno al futuro” (che ha prodotto) o “Salvate il soldato Ryan”. Nel cast da ricordare anche il grande David Lynch che ci regala un cameo davvero spettacolare.

Consigliato non solo per gli amanti del cinema, ma per tutti coloro che sono riusciti a sopravvivere alla propria adolescenza.

“Green Sea” di Angeliki Antoniou

(Grecia/Germania, 2020)

Anna (Angeliki Papoulia) è una donna che in un evidente stato confusionale vaga per il mercato di una città della costa greca. Quando si ferma ad una bancarella di spezie e aromi il venditore, da come Anna maneggia e odora la merce, capisce che è una cuoca e così la consegna un biglietto con sopra l’indirizzo di una taverna in riva al mare rimasta senza chef.

Anna, quasi per caso, arriva nel vecchio e trasandato locale e con il biglietto in mano incontra Roula (Giannis Tsortekis), il proprietario che le offre vitto, alloggio e 300 euro al mese per cucinare. La donna accetta e la mattina dopo inizia il suo lavoro. Roula le porta polpette e patate surgelate, cibo molto gradito dagli avventori della locanda che sono tutti operai, meccanici o autisti che spesso si portano anche del cibo da casa.

Ma Anna preferisce cucinare la cose fresche e così, nonostante il parere contrario di Roula, serve ai clienti i suoi piatti della antica e povera tradizione greca. Tutti gli avventori, così come Roula, ne rimangono estasiati e così il locale per la prima volta inizia ad essere sempre più pieno.

Un pomeriggio alla porta della taverna si presenta l’anziano Kyriakos (Tasos Palatzidis), un pensionato che ha deciso di abbandonare, con i suoi colori e pennelli, la casa di riposo in cui era stato lasciato. L’anziano si offre di realizzare un grande quadro a tema da appendere nella taverna, che è di fatto senza un vero e proprio arredamento. Roula gli concede una settimana poi non offrirà ospitalità all’anziano.

Sarà Anna a scegliere il tema centrale del quadro: il grande mare verde, il Mediterraneo, che gli Egizi nonostante fossero degli ottimi navigatori del Nilo hanno sempre avuto paura di attraversare. Mentre Kyriakos inizia la sua opera, Roula si reca in libreria per acquistare un nuovo tomo di ricette tradizionali da servire ai suoi clienti e casualmente scopre il segreto di Anna…

Scritta dalla stessa Angeliki Antoniou assieme a Evgenia Fakinou, questa “piccola” pellicola indipendente greca è un gustosissimo viaggio nell’anima e nei sapori veri della vita più intima dei protagonisti. Le atmosfere e gli “aromi” ricordano quelli del delizioso “Soul Kitchen” di Fatih Akın o dei tomi della serie manga “La Taverna di Mezzanotte” di Yaro Abe e della sua relativa serie tv “Midnight Diner – Tokyo Stories”.

Parafrasando il grande Giacchino Rossini, dopo aver visto questo film, possiamo asserire serenamente che il cibo è per il corpo quella che (a volte) il cinema – anche se Rossini diceva in realtà la musica… – è per l’anima.

Buona visione e buon appetito!

“Il tesoro dell’Africa” di John Huston

(USA/UK/Italia, 1953)

Torna la coppia John Huston/Humprey Bogart (fresco vincitore dell’Oscar per il suo ruolo da protagonista nello splendido “La regina d’Africa” per il quale lo stesso Huston ottiene due candidature: come miglior regista e come miglior sceneggiatore) in una pellicola tratta dal romanzo “Beat the Devil” del britannico Claud Cockburn.

A firmare la sceneggiatura, oltre allo stesso Huston, c’è anche Truman Capote che dona alla pellicola un’ironia pungente e allo stesso tempo cruda e senza sconti.

In un piccolo porto di un paese dell’Europa meridionale – che è potrebbe essere l’Italia – un gruppo eterogeneo dei rappresentanti della parte più oscura e forse misera dell’umanità è in attesa di salpare con un mercantile verso l’Africa, dove ognuno di loro ha un progetto, più o meno lecito, per diventare finalmente ricco.

Assieme a Billy Dannreuther (Bogart) e sua moglie Maria (Gina Lollobrigida) ci sono i loro loschi complici Julius O’Hara (Peter Lorre che con Bogart girò anche il mitico “Il mistero del falco” diretto dallo stesso Huston nel 1941), Ravello (Marco Tulli) e il maggiore Ross (Ivor Barnard) capitanati dall’affarista senza scrupoli Peterson (Robert Morley, anche lui nel cast de “La regina d’Africa”) che intendono arraffare alcuni terreni ricchi di uranio per poi vendere il prezioso elemento chimico al miglior offerente.

In attesa di partire ci sono però anche i coniugi inglesi Harry Chelm (Edward Underwood) e sua moglie Gwendolen (Jennifer Jones) che vogliono anche loro trovare fortuna nel continente africano. Ma i loschi piani di Peterson e compagni – che hanno bisogno loro malgrado delle entrature africane di Dannreuther – cozzeranno con quelli più ingenui e al tempo stesso sfrontati di Gwendolen Chelm che si innamora a prima vista e perdutamente di Billy…

Originale e caustica pellicola firmata da uno dei maestri della Hollywood degli anni Quaranta e Cinquanta, e che ci racconta le miserie di un’umanità che forse ancora non si è ripresa moralmente ed eticamente dalla Seconda Guerra Mondiale. Se c’è chi come l’inglese “puro sangue” maggiore Ross che è un dichiarato nostalgico di Hitler e Mussolini, ci sono quelli come Peterson, O’Hara e Ravello disposti a tutto, anche a uccidere, pur di ottenere il proprio tornaconto personale. E poi ci sono quelli come Billy e Maria Dannreuther, maestri della resilienza, disposti a vendersi pur di sopravvivere.

Ma il personaggio più insolito è quello di Gwendolen Chelm, vera ed ingenua sognatrice ad occhi aperti, che però sa essere anche cinica e calcolatrice nei momenti giusti. Insomma, un ritratto disilluso e lucido di perdenti e antieroi firmato da un maestro assoluto della macchina da scrivere come Capote e da uno dei maestri assoluti della macchina da presa come Huston.

Nel cast anche il grande Saro Urzì – nel ruolo del capitano del mercantile – e l’inglese Bernard Lee – in quello di un agente di Scotland Yard – che nel decennio successivo vestirà i panni del primo “M” nella serie di 007.