“Il collezionista di carte” di Paul Schrader

(USA, 2021)

Paul Schrader (classe 1946) è uno dei più importanti autori cinematografici americani della sua generazione. Ha firmato script di film come “Taxi Driver”, “Toro scatenato” e “L’ultima tentazione di Cristo” diretti da Martin Scorsese (che cooproduce questo film); “Obsession – Complesso di colpa” diretto da Brian De Palma; “American gigolò”, “Lo spacciatore” e “Affliction” di cui lui stesso ha poi curato la regia.

Così come in molte sue pellicole, e soprattutto nell’ottimo “Lo spacciatore” del 1992 con protagonista Willem Dafoe (vero attore “feticcio” del regista), Schrader ci racconta la storia della dolorosa e cruda redenzione di un uomo che ha sbagliato.

William Tell (un bravo Oscar Isaac) è un giocatore d’azzardo professionista che vive delle proprie vincite girando per tutti i numerosi casinò degli Stati Uniti. E’ un uomo solitario che, una volta alzatosi dal tavolo verde, passa le sue giornate in auto e le sue nottate nei motel. William Tell è un giocatore molto bravo e astuto, soprattutto perché è in grado contare con esattezza le carte di ogni mano.

Se legalmente è vietato farlo, lui viene tollerato perché si accontenta di piccole vincite raggiunte le quali se ne va senza attirare attenzione o creare problemi. William Tell ha però uno strano vizio: in ogni stanza che occupa si porta una grande valigia piena di enormi lenzuola bianche con cui fodera tutto l’arredamento prima di riposare.

E’ una sua vecchia “abitudine” che risale a qualche tempo prima, anche prima degli otto anni e mezzo che ha passato in un carcere militare. Nella sua vita precedente, infatti, il suo nome era William Tillich ed era uno dei militari carcerieri di Abu Ghraib, la prigione irachena dove nel 2004 è scoppiato lo scandalo per le feroci torture e umiliazioni fisiche e mentali, a cui venivano sottoposti i prigionieri iracheni, da parte dei militari statunitensi.

Proprio scontando la sua lunga pena William ha imparato tutto sulle carte e sul gioco d’azzardo. Uscendo di prigione ha cambiato cognome e ha deciso di iniziare una nuova vita, anche se le atrocità che ha commesso non potrà mai dimenticarle.

Un giorno però, in un grande casinò, William incappa casualmente in una conferenza tenuta da John Gordo (Williem Dafoe) sui nuovi sistemi di sicurezza e sorveglianza che la sua ditta produce. Mentre si allontana viene fermato da un ragazzo che afferma di chiamarsi Cirk (Tye Sheridan), e che dice di averlo riconosciuto: era, insieme a suo padre, ad Abu Ghraib. Le foto in cui William e il padre di Cirk sorridevano accanto ai prigionieri vessati hanno fatto il giro del mondo, e così lui non ha avuto problemi ad individuarlo.

Il ragazzo gli confida che ha assistito anche lui alla conferenza di Gordo perché ha un piano per ucciderlo. Gordo, infatti, era uno degli ufficiali specialisti in torture efferate che dirigevano il carcere iracheno gestito dalla Forze Armate americane. A differenza dei soldati che vennero fotografati lui, come tutti i superiori e responsabili anche ad alto livello – fino alle soglie della Casa Bianca – non vennero puniti. Il padre di Cirk, invece come William, venne congedato con disonore e incarcerato. Una volta tornato a casa era ormai un alcolista violento e aggressivo. La madre di Cirk fuggì una notte lasciandolo solo col padre che qualche tempo dopo si sparò.

Il ragazzo vede in Gordo tutto il male che è gli è capitato nella vita e così, ingenuamente, vuole ucciderlo. William tenta in ogni modo di scoraggiarlo e decide di portarselo dietro in giro fra i casinò. Accetta poi l’offerta di La Linda (Tiffany Haddish), un’ex giocatrice professionista ora diventata una manager che trova finanziatori per i giocatori d’azzardo più famosi. L’idea è quella di guadagnare un pò di soldi da dare a Cirk affinché torni a studiare e soprattutto riallacci i rapporti con sua madre.

Abu Ghraib ha rovinato la vita di così tante persone che Will è disposto a tutto pur che non lo faccia con quella del ragazzo, che ha già pagato un prezzo altissimo nonostante la sua giovane età. Ma nella vita, spesso, non basta saper contare le carte di una mano…

Con una regia apparentemente scarna e razionale ma al tempo stesso carica di tensione – tipica di Schrader – assistiamo al viaggio allucinante di William Tell che tenta in ogni modo di sfuggire al proprio destino, destino che però fatalmente incontrerà a causa della sua natura.

Da ricordare anche le scenografie che per la maggior parte sono le reali e immense sale dei casinò americani, vere cattedrali dei sogni perduti di numerosissimi essere umani, che ci sottolineano come nelle guerre vince sempre il banco: i giocatori che materialmente le fanno difficilmente ne escono vincitori, indipendentemente dalla barricata che occupano.

Duro e senza sconti.

Per la chicca: il titolo originale è “The Card Counter”, e un giorno – …forse – capiremo quello in italiano.

“Hitchcock-Truffaut” di Kent Jones

(Francia/USA, 2015)

Nel 1962, dopo una fitta corrispondenza, Alfred Hitchcock accetta l’intervista propostagli dal giovane critico e cineasta francese Francois Truffaut.

Il regista inglese, reduce dal successo planetario del suo superbo “Psyco” che di fatto ha cambiato il modo di fare e vedere il cinema, è curioso dell’interesse di Truffaut – che ha al suo attivo, allora, solo tre film – uno dei rappresentati di spicco della Nouvelle Vague che dalla Francia, e dalle scrivanie della rivista “Cahiers du cinéma” fondata da André Bazin nel 1951, sta rivoluzionando il modo di pensare al cinema e, soprattutto, sta riscoprendo e rivalutando i “vecchi” maestri.

Negli Stati Uniti Hitchcock è considerato soprattutto un grande intrattenitore e, oltre al cinema, la sua fama è legata alle serie televisive che cura e presenta. Ma Truffaut vuole intervistare e conoscere alla radice la tecnica e la genialità di quello che lui – assieme ai cineasti della Nouvelle Vague – considera un vero e proprio maestro assoluto, e comprendere meglio anche il ruolo focale di Alma Reville, compagna di lavoro di Hitchcock dagli inizi e poi divenuta sua compagna di vita, che molti considerano geniale come il marito, soprattutto in sede di montaggio.

I due si vedranno in un ufficio degli studi dell’Universal per una settimana coadiuvati da Helen Scott che tradurrà dal francese all’inglese e viceversa. Finita la settimana e l’intervista fra i due grandi cineasti nascerà una profonda amicizia fatta di stima e affetto che proseguirà fino alla morte di Hitchcock avvenuta nel 1980. Per questo, nel corso degli anni, i due si scambieranno regolarmente lettere e telegrammi con opinioni e consigli sulle rispettive opere.

Sistemando il materiale scaturito da quella incredibile settimana, nel 1966 Truffaut pubblica il libro “Il cinema secondo Hitchcock” che diventa di fatto una pietra miliare e un testo fondamentale della letteratura cinematografica, indispensabile anche per chi semplicemente ama il cinema, e non solo quello del maestro inglese. Testo che con gli anni diventa un vero e proprio manuale per tutte le generazioni di cineasti.

A documentare quell’intervista ci sono le fotografie in bianco e nero scattate da Philippe Halsman e la registrazione audio. Questo ottimo documentario, scritto dallo stesso Kent Jones assieme a Serge Toubiana, la ripercorre con l’aggiunta di immagini di archivio e interviste a vari cineasti come Martin Scorsese, David Fincher, Peter Bogdanovich e Paul Schrader che raccontano l’impatto del libro nella loro carriera.

A pochi mesi dalla sua morte, a Hitchcock venne assegnato un prestigioso premio televisivo – sì, sì: televisivo e non …cinematografico, che rappresenta tristemente il suo unico vero riconoscimento pubblico ricevuto in vita – e per consegnarlo venne chiamato lo stesso Truffaut che disse: “…Voi qui lo chiamate semplicemente Hitch, ma noi in Francia invece lo chiamiamo …Monsieur Alfred Hitchcock!”.

Da vedere.

“Obsession – Complesso di colpa” di Brian De Palma

(USA, 1975)

Da molti Brian De Palma è considerato – a ragione – il vero erede cinematografico del maestro del brivido Alfred Hitchcock.

E guardando questa affascinante quanto angosciante pellicola non si può che condividere tale tesi, magari in silenzio e semplicemente annuendo, mentre si osserva sublimati l’ultima indimenticabile scena (che poi è un classico di De Palma – vedi pure Hitchcock – la sorpresa all’ultima scena).

Scritto dallo stesso regista insieme a Paul Schrader – uno dei migliori sceneggiatori americani di tutti i tempi (ha firmato, tanto per la fredda cronaca, script tipo “Taxi Driver”, “Toro scatenato” e “American gigolò”) – questo film sembra essere girato per ricordare a tutti che grande innovatore e che immortale regista era Hitchcock.

In più, come in ogni pellicola di De Palma, c’è sempre un po’ di Italia: qui il regista ci mette Firenze, ma soprattutto la bellissima e incantevole facciata di San Miniato al Monte.

Merita un plauso anche il cast con il bello hollywoodiano – in un più che dignitoso declino – Cliff Robertson, la giovane e davvero brava Geneviève Bujold, e il cattivo “infame” preferito da De Palma: John Lithgow, che poi ha mostrato le sue grandi doti comiche nella travolgente sit-com “Una famiglia del terzo tipo”, nonché donando la voce originale al perfido Lord Farquaad nel primo “Sherk”. Deve essere ricordata anche l’ottima fotografia curata da Vilmos Zsigmond.

Insomma, da rivedere anche se – e forse diventa anche meglio… – si conosce l’esito della scena finale.