“Il tesoro dell’Africa” di John Huston

(USA/UK/Italia, 1953)

Torna la coppia John Huston/Humprey Bogart (fresco vincitore dell’Oscar per il suo ruolo da protagonista nello splendido “La regina d’Africa” per il quale lo stesso Huston ottiene due candidature: come miglior regista e come miglior sceneggiatore) in una pellicola tratta dal romanzo “Beat the Devil” del britannico Claud Cockburn.

A firmare la sceneggiatura, oltre allo stesso Huston, c’è anche Truman Capote che dona alla pellicola un’ironia pungente e allo stesso tempo cruda e senza sconti.

In un piccolo porto di un paese dell’Europa meridionale – che è potrebbe essere l’Italia – un gruppo eterogeneo dei rappresentanti della parte più oscura e forse misera dell’umanità è in attesa di salpare con un mercantile verso l’Africa, dove ognuno di loro ha un progetto, più o meno lecito, per diventare finalmente ricco.

Assieme a Billy Dannreuther (Bogart) e sua moglie Maria (Gina Lollobrigida) ci sono i loro loschi complici Julius O’Hara (Peter Lorre che con Bogart girò anche il mitico “Il mistero del falco” diretto dallo stesso Huston nel 1941), Ravello (Marco Tulli) e il maggiore Ross (Ivor Barnard) capitanati dall’affarista senza scrupoli Peterson (Robert Morley, anche lui nel cast de “La regina d’Africa”) che intendono arraffare alcuni terreni ricchi di uranio per poi vendere il prezioso elemento chimico al miglior offerente.

In attesa di partire ci sono però anche i coniugi inglesi Harry Chelm (Edward Underwood) e sua moglie Gwendolen (Jennifer Jones) che vogliono anche loro trovare fortuna nel continente africano. Ma i loschi piani di Peterson e compagni – che hanno bisogno loro malgrado delle entrature africane di Dannreuther – cozzeranno con quelli più ingenui e al tempo stesso sfrontati di Gwendolen Chelm che si innamora a prima vista e perdutamente di Billy…

Originale e caustica pellicola firmata da uno dei maestri della Hollywood degli anni Quaranta e Cinquanta, e che ci racconta le miserie di un’umanità che forse ancora non si è ripresa moralmente ed eticamente dalla Seconda Guerra Mondiale. Se c’è chi come l’inglese “puro sangue” maggiore Ross che è un dichiarato nostalgico di Hitler e Mussolini, ci sono quelli come Peterson, O’Hara e Ravello disposti a tutto, anche a uccidere, pur di ottenere il proprio tornaconto personale. E poi ci sono quelli come Billy e Maria Dannreuther, maestri della resilienza, disposti a vendersi pur di sopravvivere.

Ma il personaggio più insolito è quello di Gwendolen Chelm, vera ed ingenua sognatrice ad occhi aperti, che però sa essere anche cinica e calcolatrice nei momenti giusti. Insomma, un ritratto disilluso e lucido di perdenti e antieroi firmato da un maestro assoluto della macchina da scrivere come Capote e da uno dei maestri assoluti della macchina da presa come Huston.

Nel cast anche il grande Saro Urzì – nel ruolo del capitano del mercantile – e l’inglese Bernard Lee – in quello di un agente di Scotland Yard – che nel decennio successivo vestirà i panni del primo “M” nella serie di 007.

“Oscar insanguinato” di Douglas Hickox

(UK, 1973)

Il premio Oscar, in realtà, con questo film non ha nulla a che fare. E’ stato il genio – fin troppo spesso incompreso… – dei nostri distributori a infilarcelo tentando di rendere la pellicola più accattivante per un pubblico nostrano che evidentemente reputava troppo basico per apprezzare un “semplice” premio teatrale inglese.

Perché il riconoscimento in questione è, infatti, un ambitissimo Emmy che una squadra di critici teatrali, spocchiosi e presuntuosi, assegna ogni anno all’artista del palcoscenico che ritiene più degno.

Un paio di anni prima il veterano Edward Lionheart (un grande Vincent Price), noto attore shakespeariano, era convinto di meritarlo ma alla cerimonia, vedendo premiare un giovane e secondo lui inesperto collega, aveva dato in escandescenza presentandosi poi nella casa di uno dei critici per protestare. Lì, però, era stato sbeffeggiato tanto che alla fine Lionheart aveva deciso di gettarsi dal terrazzo direttamente nel Tamigi.

In maniera assai cruenta vengono uccisi inesorabilmente i critici della giura e solo Peregrin Devlin (Ian Hendry) uno di essi, intuisce che le modalità degli omicidi ricalcano quelle di alcune famose opere del grande William Shakespeare, unico autore mai interpretato da Lionheart. Ma l’attore è morto ormai da tempo, anche se il suo cadavere non è mai stato ritrovato.

Così Devlin e la Polizia si rivolgono a Edwina Lionheart (Diana Rigg, che solo qualche anno prima aveva impersonato la sfortunata coniuge dell’agente 007 James Bond) che di mestiere fa la truccatrice. Ma per la giovane è solo un inutile motivo per riaprire una ferita ancora non del tutto cicatrizzata…

Deliziosa pellicola divenuta un vero e proprio cult – il cui titolo originale è “Theatre of Blood” – grazie soprattutto al suo indimenticabile protagonista e ai versi dell’immortale Bardo che fanno da sottofondo a uno dei temi più efficaci e irresistibili della storia umana: la vendetta. “Il conte di Montecristo” docet…

Il tema della spietata e cruenta vendetta è il centro anche della pellicola “L’abominevole Dr. Phibes” sempre con un grande Vincent Price, prodotta e realizzata sempre in Gran Bretagna due anni prima.

Scritto da John Kohn, Stanley Mann e Anthony Greville-Bell questo “Oscar insanguinato” ha un cast di prim’ordine composto oltre che dal protagonista anche dai migliori caratteristi del cinema britannico del momento come Harry Andrews, Robert Morley, Joan Hickson e Michael Hordern.

Anche se a volte la regia psichedelica e frenetica rimane troppo legata alla moda del periodo storico in cui è stato realizzato, questo film merita di essere visto anche solo per ascoltare una delle voci cinematografiche e teatrali più famose del Novecento – come era quella di Vincent Price, che non a caso Quincy Jones e Michael Jackson vollero nel video del brano “Thriller” – interpretare i versi fra i più belli mai prodotti dalla civiltà umana, e recitati con barocca e spietata bellezza.

E poi diciamoci la verità, ovviamente solo moralmente e non certo fisicamente come nel film, ma ogni tanto alcuni sedicenti e boriosi “critici” non se la meriterebbero una bella strigliata?

Nella versione distribuita nei nostri cinema, noi italiani abbiamo la grande fortuna di poter godere di un altro grande indimenticabile artista: Emilio Cigoli che doppia superbamente Price ricordandoci, se davvero ce ne fosse bisogno, la grandezza del Bardo anche nella nostra lingua.

“Milioni che scottano” di Eric Till

(UK, 1968)

Marcus Pendleton (un grande Peter Ustinov) esce, dopo un paio d’anni, dalle regali prigioni di Sua Maestà. Ha scontato la sua pena per truffa aggravata, ad inchiodarlo è stato un famigerato computer, cosa che lui proprio non aveva …calcolato.

Tornato in libertà, Marcus desidera “vendicarsi” dei programmatori elettronici – così si chiamavano allora – preparando una nuova truffa milionaria, ma per realizzarla senza rischi deve diventare un vero e proprio programmatore.

Padrone della programmazione, Marcus ruba l’identità e il curriculum di Caesar Smith (Robert Morley) che, per seguire la sua passione per l’ornitologia, si reca nella foresta fluviale.

Smith/Pendleton viene assunto così come responsabile programmatore presso la sede londinese della società americana Tacanco, il cui Vice Presidente Esecutivo Carlton J. Kempler (Karl Malden) rimane subito colpito dalle sue capacità. Solo Willard C. Gnatpole (Bob Newhart), secondo Vice Presidente dell’azienda, nutre dei sospetti sul nuovo assunto.

Una mattina, nel suo ufficio, Marcus trova la sua nuova segretaria: Patty Terwillinger (un’avvenente e prosperosa Maggie Smith) la sua goffa e pasticciona vicina di casa, che lo conosce come Mr. Pendleton…

Scritta dallo stesso Ustinov assieme a Ira Wallach, questa deliziosa commedia possiede un cast davvero straordinario. Oltre a Ustinov e la Smith – già allora notissimi attori shakespeariani – spiccano Karl Malden, fra i più conosciuti caratteristi di Hollywood, e Bob Newhart che molti decenni dopo impersonerà Arthur Jeffries, il professor Proton, vero e proprio feticcio del mitico Sheldon Cooper in “The Big Bang Theory”.

In piena “Swinging London”, hanno fatto epoca le lunghissime e sinuose gambe della Smith, allora già vincitrice di un premio Oscar, che poi impersonerà Minerva McGranitt nella saga di Harry Potter.

E, a proposito di Oscar, la pellicola viene candidata per la Miglior Sceneggiatura Originale.

“La regina d’Africa” di John Huston

(USA, 1951)

Tenetevi stretti e indossate il giubbotto di salvataggio: questo è uno dei capolavori della grande Hollywood di una volta.

Tratto dall’omonimo romanzo di C.S. Foster, il grande John Houston firma una splendida e insolita storia d’amore fra due emarginati della società: un vecchio pilota di barche alcolista e una “zitella” bacchettona, persi nel cuore del grande continente Nero.

Charlie Allnutt (un barbuto e trasandato Humprey Bogart) è il solitario e alcolizzato proprietario di una vecchia bagnarola, “La regina d’Africa”, che nell’Africa occidentale risale periodicamente uno dei numerosi immissari del lago Vittoria, portando generi di prima necessità e la posta ai villaggi presenti sulle sponde.

In uno di questi c’è la piccola missione metodista fondata dal reverendo inglese Samuel Sayer (Robert Morley) e da sua sorella Rose (Katherine Hepburn). Ma la grande guerra è alle porte e Charlie informa il reverendo e sua sorella che ufficialmente l’Inghilterra e la Germania sono entrate in guerra, e le truppe tedesche si stanno inesorabilmente avvicinando.

Ma i due Sayer non intendono abbandonare la loro missione e così, poco dopo che Allnutt è ripartito, assistono impotenti all’arrivo delle truppe tedesche che in poco tempo distruggono tutto il villaggio. Il prelato, per lo choc, cade in uno stato catatonico che in pochi giorni lo porta alla morte.

Quando Allnutt torna alla missione trova solo Rose e il corpo del fratello. Dopo averla aiutata a seppellirlo le offre ospitalità su “La regina d’Africa” e i due iniziano così una viaggio incredibile e indimenticabile attraverso il cuore del continente africano…

Meritatissimo Oscar a Humprey Bogart come miglior attore protagonista e candidatura per Katharine Hepburn, come miglior attrice protagonista, nonché doppia per John Huston: come miglior regista e come autore della sceneggiatura (insieme a James Agee).

Ancora oggi rimangono spettacolari i duetti fra i due giganti del cinema e il finale, romantico e al tempo stesso divertente, che si discosta, senza rovinare nulla all’alchimia della storia, da quello del romanzo di Foster.