“The Fabelmans” di Steven Spielberg

(USA, 2022)

Dal 24 marzo del 1974, giorno in cui uscì nelle sale cinematografiche americane “Sugarland Express“, e soprattutto dal 20 giugno dell’anno successivo in cui venne presentato per la prima volta nei cinema “Lo squalo”, tutto il mondo del cinema, e non solo, conosce il nome e la carriera artistica di Steven Spielberg, vero Re Mida di Hollywood, considerato fra i più importanti creatori di sogni in celluloide degli ultimi cinquant’anni.

Ma non tutti conoscono la storia di Spielberg fino al suo esordio come regista televisivo che risale al 1969 a quello cinematografico che è appunto del ’74. E allora lo stesso regista ce la racconta in questa sua ottima pellicola scritta assieme a Tony Kushner.

Il 10 gennaio del 1952 Mitzi Fabelman (Michelle Williams) e Burt Fabelman (Paul Dano) portano il loro secondo genito Sammy, di sei anni, per la prima volta al cinema. Il film è “Il più grande spettacolo del mondo” diretto da Cecil B. DeMille. Sammy rimane letteralmente folgorato e, con i suoi giocattoli, tenta di riprodurre l’incidente più spettacolare e al tempo stesso cruento della pellicola.

Mitzi intuisce che il bambino vuole ripetere continuamente la scena che evidentemente lo ha spaventato, tentando di controllarla e così non averne più paura. Allora, invece che sacrificare continuamente i suoi giocattoli, presta al figlio la cinepresa amatoriale di Burt: lui potrà ripetere l’incidente una sola volta riprendendolo e così potrà rivederlo tutte le volte che desidera, senza danneggiare più i suoi giochi.

E così il piccolo Sammy – che ricorda tanto il piccolo Steven Spielberg… – ha per la prima volta fra le mani quello strumento che lo renderà uno degli uomini più famosi del suo tempo. Ma crescere non è semplice per nessuno, anche se da grandi si diventerà un genio del cinema, e se proviene da una famiglia di tradizione ebraica in un Paese dove l’antisemitismo è ancora molto radicato. E proprio attraverso le lenti delle sue cineprese Sammy (Gabriel LaBelle) vedrà il mondo evolversi e cambiare, così come la sua famiglia, le sue sorelle e naturalmente i suoi genitori.

Sarà poi suo zio Boris (Judd Hirsch), fratello di sua nonna materna e unico parente che ha a che fare col mondo del cinema avendo fatto per anni la comparsa, a spiegargli schiettamente il rapporto troppo spesso irrisolto fra gli affetti stretti e l’arte.

Ma i film, per Sammy, saranno l’unico mezzo di salvezza e sopravvivenza emotiva, morale e a volte anche fisica…

L’uomo dei sogni di Hollywood firma una delle pellicole di formazione più interessanti degli ultimi anni, raccontandoci attraverso la macchina da presa, i dolori e le pene del giovane Sammy che però, nonostante i profondi sensi di colpa e le grandi insicurezze, riuscirà a fare quello che solo pochi eletti fanno: realizzare il suo sogno più grande.

Come in ogni altra pellicola di Spielberg, anche in questa le immagini hanno un ruolo centrale nella narrazione. E così il cineasta americano ci mostra anche solo visivamente da dove nacquero gli spunti che poi, anni dopo, metterà in pellicole come “E.T. – L’extraterrestre”, “I predatori dell’arca perduta“, “Ritorno al futuro” (che ha prodotto) o “Salvate il soldato Ryan”. Nel cast da ricordare anche il grande David Lynch che ci regala un cameo davvero spettacolare.

Consigliato non solo per gli amanti del cinema, ma per tutti coloro che sono riusciti a sopravvivere alla propria adolescenza.

“Il ragazzo selvaggio” di François Truffaut

(Francia, 1970)

Per scrivere la sceneggiatura di questo struggente film, Truffaut e Jean Gruault si rifecero direttamente al vero diario del dottor Jean Itard, il medico che accolse in casa sua il ragazzo trovato in una foresta francese nel 1798.

Come molti altri film di François Truffaut, anche “Il ragazzo selvaggio” è un inno in difesa dei bambini, dei ragazzi e di tutti i più piccoli e deboli della società.

Lui, che passò molto tempo della sua giovinezza in riformatorio, con la sua cinematografia ha contribuito a creare quell’attenzione all’infanzia – e anche alla disabilità – che oggi sembra scontata ma che fino a poco tempo fa non lo era affatto.

Per questo, per esempio, ogni volta che vado all’Ikea ed entrando nel reparto bambini leggo la scritta “Per i più importanti del mondo” penso al maestro François Truffaut.

Aggiungo, infine, che nulla mi toglie dalla testa che David Lynch si sia ispirato a questa indimenticabile pellicola per girare dieci anni dopo il suo “The Elephant Man”, e non solo per il bianco e nero.

“Una storia vera” di David Lynch

(Francia/UK/USA, 1999)

Questa bellissima e crepuscolare pellicola è tratta da una storia vera (come dice il banale titolo italiano, mentre quello originale è “The Straight Story”, che gioca sul doppio senso del cognome del suo protagonista Alvin Straight).

L’anziano Alvin appunto (interpretato splendidamente da Richard Fansworth, famoso caratterista di Hollywood qui al suo primo grande ruolo e purtroppo anche alla sua ultima interpretazione), miope al limite dell’ipovisione, vuole rivedere il fratello che vive in un altro stato, con il quale non parla da vent’anni per una lite provocata da un motivo ormai perso nel tempo.

L’unico mezzo di locomozione che può condurre legalmente e in maniera indipendente è il suo tagliaerbe, e con questo coraggiosamente parte per un viaggio alla scoperta di un’America fatta di strade statali e piccole cittadine, che raccontano il Paese da un’angolazione insolita e particolare.

Una struggente e minimalista riflessione sulla vita firmata da un grande regista.

Da vedere e rivedere per riconciliarsi con se stessi.