“Kinamand” di Henrik Ruben Genz

(Danimarca/Cina, 2005)

Keld (Bjarne Henriksen) è un idraulico che la vita ha reso passivo e apatico, e anche la sua storica passione per gli scacchi sta inesorabilmente svanendo. Sua moglie Rie (Charlotte Fich) tenta in ogni modo di scuoterlo ma, al suo ennesimo rifiuto di partire per un viaggio turistico, decide di lasciarlo.

Keld rimane sorpreso e annichilito dal gesto della compagna e tenta in ogni modo di riconquistarla, ma si deve arrendere quando scopre che Rie ha iniziato a frequentare un altro uomo. Preso dallo sconforto l’uomo vende tutto l’arredamento del loro appartamento e si sistema su una brandina per dormire.

Non essendo abituato a cucinare, la sera inizia a mangiare nel piccolo ristorante cinese sotto casa. Col passare dei giorni fa la conoscenza del padrone Feng (Lin Kun Wu) tanto che quando nel locale si spacca una tubatura l’uomo gli propone un accordo: lui pagherà in contanti il materiale ma per la manodopera retribuirà Keld con una cena al giorno per qualche mese.

L’idraulico accetta e così la sua frequentazione del ristorante e della famiglia di Feng diventa ancora più assidua, tanto che un giorno il ristoratore gli fa una proposta molto particolare: visto che lui ormai è solo, in cambio di 4.000 dollari, potrebbe sposare sua sorella Ling (Vivian Wu) che ha bisogno a tutti i costi del visto per rimanere in Danimarca e non dover tornare in Cina.

Keld, più stupito che sconvolto, declina l’offerta ma quando si trova davanti al giudice per la separazione definitiva da Rie, e questo gli impone un risarcimento pecuniario di cui lui però non ha disponibilità, torna da Feng e accetta la sua offerta per la somma che deve all’ex moglie.

Saputa la notizia Bjorn (Johan Rabaeus), l’avventore del ristorante di Feng con il quale Keld ci si ritrova ogni sera, lo chiama ironicamente “Kinamand”, che in danese vuol dire “muso giallo”. Dopo la cerimonia inizia una convivenza molto formale e distaccata, visto poi che Ling non conosce il danese, convivenza che serve solo per i controlli dell’ufficio immigrazione.

Ma Keld, ogni giorno che passa, rimane sempre più affascinato dalla sua nuova moglie tanto che decide di imparare da solo il mandarino. Ma una giorno a casa si presenta Rie…

Scritto da Kim Fupz Aakeson (autore dello script di “In ordine di sparizione” di Hans Petter Moland) questa “piccola”, deliziosa e struggente pellicola indipendente danese ha un plot che ricorda molto quello di “Green Card – Matrimonio di convenienza” con Gérard Depardieu e Andie MacDowell scritto e diretto da Peter Weir nel 1990, ma con tutt’altre atmosfere.

Keld impersona, infatti, quel pregiudizio che l’Occidente, e l’Europa soprattutto, possiede verso l’Oriente e la Cina in particolare. Ma lo stesso pregiudizio, molto spesso, è destinato a sbriciolarsi sul fascino che una cultura e una tradizione millenaria possiedono e che molti di noi forse non conoscono davvero.

Un piccolo e struggente gioiellino in celluloide.

“The Truman Show” di Peter Wier

(USA, 1998)

Siamo alla fine degli anni Novanta, il nuovo millennio è ormai alle porte ma la società a molti non sembra pronta ad affrontare le sfide che il nuovo corso storico sembra presentare all’orizzonte.

A dominare la scena planetaria è senza dubbio la televisione che sta immettendo un nuovo – …ma poi era davvero così? – format: il reality, destinato a rivoluzionare il modo di fare e soprattutto di vedere la televisione.

E così lo sceneggiatore neozelandese Andrew Niccol – classe 1964, che poi scriverà e dirigerà il bellissimo “Gattaca – La porta dell’universo” – ispirandosi ad alcune memorabili puntate delle prime stagioni della straordinaria serie televisiva “Ai confini della realtà” creata da Rod Serling nel 1959, e al racconto di Philip K. Dick “Tempo fuor di sesto” pubblicato per la prima volta sempre nel 1959, firma uno script il cui protagonista ignora di essere il personaggio principale del reality show più famoso del globo.

Programma tv noto in ogni angolo del pianeta e conosciuto da tutti, tranne che dallo stesso Truman Burbank (un bravissimo Jim Carrey, forse alla sua migliore interpretazione e inspiegabilmente ignorato agli Academy Awards), adottato legalmente trent’anni prima dal network che ha costruito il set più grande del mondo dove lo ha fatto crescere e vivere, riprendendo ogni istante a sua totale insaputa.

Truman vive assieme ad attori e comparse, che lui crede essere invece veri parenti e amici, a partire dalla sua fidanzata Meryl (una sempre brava Laura Linney) o dal suo storico amico Marlon (Noah Emmerich, che vestirà i panni dello spietato colonnello Nelec in “Super 8” di J.J. Abrams).

Nonostante la sua esistenza apparentemente perfetta ed edulcorata, Truman cova dentro un crescente e incontenibile senso di oppressione e insoddisfazione, e così confessa ai suoi affetti più cari – e davanti a milioni di telespettatori… – che intende lasciare la sua piccola città natale per esplorare il mondo e trovare se stesso.

La cosa, naturalmente, non può che far preoccupare Christof (Ed Harris), il carismatico e dispotico creatore del “Truman Show”…

Con una battuta finale memorabile, questa pellicola supera il quarto di secolo di età conservando integra la sua potenza narrativa e caustica. A distanza di venticinque anni la nostra società è molto cambiata, ma i reality hanno ancora un seguito rilevante. Il centro nevralgico della vita quotidiana, però, non è più il nostro televisore ma è il nostro cellulare, dal quale osserviamo e cerchiamo di afferrare cosa accade nel mondo passando dentro e attraverso i social.

E allora, rivedendo questa sempre affascinante pellicola, la domanda – …come diceva Antonio Lubrano – sorge spontanea: ma non è che adesso siamo diventati tutti dei Truman Burbank che consumano la propria esistenza al centro di uno show planetario che è proprio il nostro social preferito?

….E che a differenza del vero Truman Burbank noi ne siamo totalmente, e colpevolmente, a conoscenza?

Chi non sbircia i social ogni tanto lanci la prima pietra, e ai posteri l’ardua sentenza…

“Picnic ad Hanging Rock” di Peter Weir

(Australia, 1975)

La scrittrice australiana Joan Lindsay (1896-1984) pubblica nel 1967 il suo romanzo più famoso “Il lungo pomeriggio della morte” che racconta la misteriosa scomparsa di tre studentesse e un’insegnante durante una gita ad Hanging Rock (singolare formazione vulcanica nei pressi della città di Melbourne) il giorno di San Valentino del 1900.

Su richiesta – alquanto saggia… – dell’editore, la Lindsay toglie dalla bozza finale il capitolo 18 in cui si dipana la scomparsa delle donne (pubblicato postumo nel 1987, su espresse disposizioni della stessa scrittrice). Così il romanzo esce “mozzato” del finale, insolito elemento che, assieme all’atmosfera di oppressione e angoscia che si respira in ogni pagina, ne decreta un certo successo. La Lindsay inventa di sana pianta la drammatica vicenda, e anche l’articolo di giornale che inserisce alla fine del suo libro è un falso.

Sono solo due i riferimenti ad eventi realmente accaduti: nel 1867 su Hanging Rock scomparvero tre ragazzini che non vennero mai più ritrovati (e ancora oggi è visibile il piccolo monumento, proprio nei pressi della montagna, che ricorda la tragica vicenda) e nel giorno di San Valentino del 1922 la scrittrice si sposò con Daryl Lindsay, dal quale poi prese il cognome.

Nel 1975 il promettente regista australiano Peter Weir decide di adattare per lo schermo il romanzo. Al centro del film c’è ovviamente Hanging Rock che con le sue pietre – che spesso sembrano volti arcigni – i suoi cunicoli e le sue grotte ci opprime e inquieta sin dai primi fotogrammi.

Il 14 febbraio del 1900 tutte le studentesse – tranne una… – dell’aristocratico Appleyard College non troppo distante da Melbourne, vanno in gita ad Hanging Rock. Dopo pranzo, mentre tutte le altre riposano alle falde della montagna, Miranda, Marion, Irma e Edith decidono di fare una piccola passeggiata sulla roccia.

Sempre più influenzate dal caldo e del bush australiano, le quattro si sdraiano e dormono in uno spiazzo fra i dirupi. Al loro risveglio Miranda, Marion e Irma iniziano a proseguire il cammino scomparendo dietro una roccia, mentre Edith, in stato di choc torna correndo dal gruppo.

A notte fonda la scolaresca torna al collegio dove l’attende una disperata Mrs. Appleyard (una bravissima Rachel Roberts) Preside e proprietaria dell’istituto. Tutte le ragazza sono sconvolte, così come l’insegnante Mlle. de Poitiers visto che, nonostante le ricerche, Miranda Marion e Irma sono scomparse nel nulla, così come l’altra accompagnatrice Miss. McCraw, insegnante di matematica.

La situazione diventa ancora più angosciante quando, otto giorni dopo, viene ritrovata fra i cunicoli di Hanging Rock Irma: viva ma priva di sensi…

Weir firma un’appassionante pellicola drammatica che ancora oggi ci inchioda davanti allo schermo fino alla fine. Il successo di questo film consacrerà il regista a livello internazionale aprendogli la porta a dirigere altri grandi film come “Gli anni spezzati”, “Un anno vissuto pericolosamente”, “Witness – Il testimone”, “L’attimo fuggente” o “Truman Show”.

Per la chicca: per decenni, nel nostro Paese, questo film è stato considerato erroneamente ispirato a fatti realmente accaduti. Questo perché, buona parte della critica italiota contemporanea alla sua uscita nelle nostre sale (1977) si è semplicemente limitata a vedere il film, senza approfondire.

Il dvd propone la versione in alta definizione rimasterizzata, con il doppiaggio originale fatto nel 1977. Nella sezione extra sono presenti le scene eliminate da Weir nella versione “Directors’ Cut”; il “Making Of” e il documentario “1900-A Recollection” con interviste a Weir e al cast artistico. C’è anche una sfiziosissima alla bravissima – e sfortunata – Rachel Roberts che parla del suo personaggio. E quando l’intervistatrice le chiede se solo un’attrice inglese avrebbe potuto interpretare il ruolo austero e severo di Mrs. Appleyard, lei piccata risponde: “Prima di tutto io non sono un’attrice inglese: io sono gallese!”.