“Maestro” di Bradley Cooper

(USA, 2023)

Leonard Bernstein (1918-1990) è stato una delle maggiori figure di spicco della musica, nel solo quella classica, e della cultura del Novecento. Musicista poliedrico e assai prolifico, è stato compositore, arrangiatore, concertista, insegnante e, naturalmente, direttore d’orchestra.

Come direttore di un’orchestra sinfonica, per esempio, è considerato secondo, di un passo, solo ad Herbert von Karajan. E questo non dai famigerati “esperti” o critici – di cui naturalmente l’opinione lascia il tempo che trova, soprattutto col passare del tempo – ma dai musicisti stessi che hanno suonato e hanno avuto entrambi come direttori per un concerto. Parliamo dei maestri della Berliner Philharmoniker, dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma o della Metropolitan Opera House di New York, solo per citarne alcune.

L’impatto di Bernstein sulla cultura contemporanea, quindi, è stato molto rilevante. Basta pensare che il termine “radical chic” venne coniato dal giornalista Tom Wolfe nel 1970, che scrisse un articolo caustico sul New York Magazine dedicato ad una festa esclusiva organizzata da lui e da sua moglie Felicia Montealegre per raccogliere fondi a favore del gruppo rivoluzionario marxista-leninista delle Pantere Nere.

Anche la sua privata è stata al centro dei riflettori, soprattutto da quando nel 1976 rese pubblica la propria omosessualità, separandosi da sua moglie per convivere con un giovane direttore d’orchestra.

Bradley Cooper e Josh Singer decidono di raccontare la sua storia dalla mattina del novembre del 1943 quando venne chiamato a sostituire il direttore Bruno Walter per un concerto alla Carnegie Hall di New York. Si aprono così, finalmente, le porte per il giovane Lenny (un bravissimo Cooper, truccato in maniera davvero incredibile) della fama e del successo. La sua direzione lascia tutti entusiasti, soprattutto perché il giovane Bernstein, vista l’urgenza della sostituzione, ha diretto l’orchestra senza neanche poter fare una prova.

Sulla scia dei festeggiamenti per il suo clamoroso esordio, ad una festa, sua sorella Shirley (Sarah Silverman) le presenta la giovane attrice Felicia Montealegre (una straordinaria Carey Mulligan). Fra i due scocca subito la scintilla, anche se Leonard da tempo convive con David (Matt Bomer). Felicia accetta la sua sessualità fluida, che lui d’altronde non le nasconde, ma soprattutto la ragazza decide di convivere con il suo essere sempre alla ricerca di “onorare” il dono del genio musicale che gli è stato concesso.

Quattro anni dopo i due si sposano e nel giro di pochi anni diventano genitori di tre bambini, due femmine e un maschio. Intanto, la carriera artistica di Leonard è definitivamente decollata nonostante le sue umili origini di figlio di ebrei ucraini immigrati, che allora era un vero e proprio “limite”, tanto che il suo professore, agli inizi, gli propose di cambiare il cognome da Bernstein in Burns. Anche Felicia riesce a calcare con successo il palcoscenico dei teatri più noti degli Stati Uniti, a partire da quelli di Broadway.

Tutto sembra idilliaco, ma alla fine Felicia non riesce più a conciliare la natura e i desideri di Leonard con il suo ruolo di madre e moglie. Soprattutto quello di madre che cerca in ogni modo di proteggere e tenere nascosti ai figli, che crescono, i commenti e i pettegolezzi sulla “dubbia” sessualità del loro padre. Costringe per questo il marito a mentire spudoratamente a Jamie (Maya Hawke), la maggiore, quando preoccupata la ragazza gli chiede conferma se le voci che le sono arrivate sulla sua omosessualità siano vere.

Inesorabilmente arriva la rottura e nel 1976 Felicia e Leonard si separano ufficialmente. Mentre Lenny non nasconde la sua relazione con un giovane direttore d’orchestra, Felicia stenta a trovare un nuovo compagno. Quando però le viene diagnosticato un tumore al seno Leonard lascia tutto, lavoro e relazione, per dedicarsi a lei senza sosta…

Prodotto da Steven Spielberg e Martin Scorsese, “Maestro” ci racconta la storia di un uomo geniale che è riuscito a realizzarsi e a regalare al mondo opere uniche e immortali, così come concerti memorabili, grazie anche alla donna che gli è stata accanto, non certo come moglie tradizionale e devota – come vorrebbero i nostalgici del patriarcato – ma come compagna e alleata nei momenti più difficili e focali, legata a lui da un amore sconfinato che va oltre i canoni e i limiti ottusi della società più retrograda.

Se è vero, come diceva il giovane Fabrizio De Andrè al giovane Paolo Villaggio, che: “Ci vuole un genio per riconoscere un genio” allora dobbiamo riconoscere a Felicia Montealegre tutta la sua indiscussa genialità.

Da vedere ed ascoltare, visto che le musiche sono firmate dal maestro Leonard Bernstein …in persona.

“Il collezionista di carte” di Paul Schrader

(USA, 2021)

Paul Schrader (classe 1946) è uno dei più importanti autori cinematografici americani della sua generazione. Ha firmato script di film come “Taxi Driver”, “Toro scatenato” e “L’ultima tentazione di Cristo” diretti da Martin Scorsese (che cooproduce questo film); “Obsession – Complesso di colpa” diretto da Brian De Palma; “American gigolò”, “Lo spacciatore” e “Affliction” di cui lui stesso ha poi curato la regia.

Così come in molte sue pellicole, e soprattutto nell’ottimo “Lo spacciatore” del 1992 con protagonista Willem Dafoe (vero attore “feticcio” del regista), Schrader ci racconta la storia della dolorosa e cruda redenzione di un uomo che ha sbagliato.

William Tell (un bravo Oscar Isaac) è un giocatore d’azzardo professionista che vive delle proprie vincite girando per tutti i numerosi casinò degli Stati Uniti. E’ un uomo solitario che, una volta alzatosi dal tavolo verde, passa le sue giornate in auto e le sue nottate nei motel. William Tell è un giocatore molto bravo e astuto, soprattutto perché è in grado contare con esattezza le carte di ogni mano.

Se legalmente è vietato farlo, lui viene tollerato perché si accontenta di piccole vincite raggiunte le quali se ne va senza attirare attenzione o creare problemi. William Tell ha però uno strano vizio: in ogni stanza che occupa si porta una grande valigia piena di enormi lenzuola bianche con cui fodera tutto l’arredamento prima di riposare.

E’ una sua vecchia “abitudine” che risale a qualche tempo prima, anche prima degli otto anni e mezzo che ha passato in un carcere militare. Nella sua vita precedente, infatti, il suo nome era William Tillich ed era uno dei militari carcerieri di Abu Ghraib, la prigione irachena dove nel 2004 è scoppiato lo scandalo per le feroci torture e umiliazioni fisiche e mentali, a cui venivano sottoposti i prigionieri iracheni, da parte dei militari statunitensi.

Proprio scontando la sua lunga pena William ha imparato tutto sulle carte e sul gioco d’azzardo. Uscendo di prigione ha cambiato cognome e ha deciso di iniziare una nuova vita, anche se le atrocità che ha commesso non potrà mai dimenticarle.

Un giorno però, in un grande casinò, William incappa casualmente in una conferenza tenuta da John Gordo (Williem Dafoe) sui nuovi sistemi di sicurezza e sorveglianza che la sua ditta produce. Mentre si allontana viene fermato da un ragazzo che afferma di chiamarsi Cirk (Tye Sheridan), e che dice di averlo riconosciuto: era, insieme a suo padre, ad Abu Ghraib. Le foto in cui William e il padre di Cirk sorridevano accanto ai prigionieri vessati hanno fatto il giro del mondo, e così lui non ha avuto problemi ad individuarlo.

Il ragazzo gli confida che ha assistito anche lui alla conferenza di Gordo perché ha un piano per ucciderlo. Gordo, infatti, era uno degli ufficiali specialisti in torture efferate che dirigevano il carcere iracheno gestito dalla Forze Armate americane. A differenza dei soldati che vennero fotografati lui, come tutti i superiori e responsabili anche ad alto livello – fino alle soglie della Casa Bianca – non vennero puniti. Il padre di Cirk, invece come William, venne congedato con disonore e incarcerato. Una volta tornato a casa era ormai un alcolista violento e aggressivo. La madre di Cirk fuggì una notte lasciandolo solo col padre che qualche tempo dopo si sparò.

Il ragazzo vede in Gordo tutto il male che è gli è capitato nella vita e così, ingenuamente, vuole ucciderlo. William tenta in ogni modo di scoraggiarlo e decide di portarselo dietro in giro fra i casinò. Accetta poi l’offerta di La Linda (Tiffany Haddish), un’ex giocatrice professionista ora diventata una manager che trova finanziatori per i giocatori d’azzardo più famosi. L’idea è quella di guadagnare un pò di soldi da dare a Cirk affinché torni a studiare e soprattutto riallacci i rapporti con sua madre.

Abu Ghraib ha rovinato la vita di così tante persone che Will è disposto a tutto pur che non lo faccia con quella del ragazzo, che ha già pagato un prezzo altissimo nonostante la sua giovane età. Ma nella vita, spesso, non basta saper contare le carte di una mano…

Con una regia apparentemente scarna e razionale ma al tempo stesso carica di tensione – tipica di Schrader – assistiamo al viaggio allucinante di William Tell che tenta in ogni modo di sfuggire al proprio destino, destino che però fatalmente incontrerà a causa della sua natura.

Da ricordare anche le scenografie che per la maggior parte sono le reali e immense sale dei casinò americani, vere cattedrali dei sogni perduti di numerosissimi essere umani, che ci sottolineano come nelle guerre vince sempre il banco: i giocatori che materialmente le fanno difficilmente ne escono vincitori, indipendentemente dalla barricata che occupano.

Duro e senza sconti.

Per la chicca: il titolo originale è “The Card Counter”, e un giorno – …forse – capiremo quello in italiano.

“Alice non abita più qui” di Martin Scorsese

(USA, 1974)

Fra le cose rilevanti che ha fatto il famigerato ’68 – visto che tante ne aveva promesse ma molte poche ne ha davvero mantenute – c’è quella di aver portato definitivamente l’attenzione dell’intera società sulla difficile emancipazione della donna. La strada, ancora oggi, è molto lunga ma da quegli anni anche solo il racconto della situazione è cambiato.

Affrontando concretamente il tema si realizza, già in quegli anni, anche che non ci sono solo le giovani che hanno bisogno dei loro diritti e dei loro spazi, ma anche le donne delle generazioni precedenti, cresciute sotto le asfissianti e opprimenti regole del patriarcato, hanno le medesime necessità, vista poi la scarsa considerazione che la società ha sempre e comunque di loro.

Così Robert Getchell scrive una sceneggiatura dedicata a una donna che superati i 35 anni – anni che nel momento in cui venne realizzato il film erano considerati per una donna l’abbondante “mezza età” – e che improvvisamente resta da sola contro un mondo arrogantemente maschilista.

Alice Hyatt (una bravissima Ellen Burstyn) vive col marito Donald (Billy Green Bush) e col figlio appena adolescente Tommy (Alfred Lutter). Donald, che è l’unico che porta i soldi a casa, è un’autista di camion che inizia a mal tollerare il figlio che, suo malgrado, sta crescendo. Ad Alice, quindi, spetta il compito di fare da ammortizzatore fra i due suoi maschi, oltre che naturalmente portare avanti la casa cucinando e rassettando senza dover troppo disturbare il marito che quando torna vuole solo guardare la televisione e bere birra. L’unica consolazione che Alice ha è Bea (Lelia Goldoni) la sua vicina di casa che ha una vita molto simile alla sua.

Un pomeriggio, però, Donald rimane vittima di un incidente automobilistico e Alice rimane sola assieme a Tommy. I pochi soldi che aveva da parte Doland se ne vanno col funerale e così la donna decide di partire e girare il Paese cercando di mantenere suo figlio e se stessa facendo quella che era la sua passione fin da bambina – ma che ha dovuto abbondare alle soglie del matrimonio – e cioè cantare.

Tra mille difficoltà Alice finalmente riesce ad avere una scrittura in un locale mediocre di Phoenix, in Arizona. Quando le cose sembrano finalmente ingranare e lei vede la concreta possibilità di abbandonare il motel in cui vive assieme al figlio per un appartamento dignitoso, sulla sua strada incappa in Ben (Harvey Keitel) un originale avventore che le inizia a fare una corte sfrenata.

Poco dopo aver iniziato il flirt con l’uomo, nella stanza del motel di Alice si presenta la moglie di Ben che umilmente le chiede di non vedere più il marito, visto che ha smesso di andare al lavoro proprio a causa sua. La donna e soprattutto suo figlio malato hanno bisogno dei soldi che Ben porta a casa per poter sopravvivere. Mentre le due donne stanno parlando nella stanza piomba Ben che picchia violentemente la moglie e minaccia Alice di non mettersi i testa di interrompere la loro relazione.

Appena l’uomo se ne va, Alice prende il figlio e lascia rapidamente la città in cerca di una nuova occasione. A Tucson la donna riesce a trovare solo un impiego come cameriera nella tavola calda di proprietà di Mel (Vic Tayback). I primi giorni di lavoro sono molto duri visto che il locale all’ora di pranzo si riempie come un uovo e il personale che serve ai tavoli, oltre a Alice, è composto solo da Flo (Diane Ladd) e Vera (Valerie Curtin). I rapporti con Flo poi, che ha un carattere opposto a quello di Alice, sono molto bruschi.

Tommy inizia a frequentare la scuola del posto dove conosce Audrey (Jodie Foster) una sua coetanea con delle particolari e originali abitudini. Nel frattempo nel locale appare sempre più spesso David (Kris Kristofferson), proprietario di una fattoria fuori città che inizia a corteggiare Alice. Ma la donna, forse per la prima volta nella sua vita, non è disposta a sacrificare tutto per un uomo…

Martin Scorsese realizza una piccola grande pellicola che rappresenta uno dei migliori e realistici ritratti cinematografici di donna degli anni Settanta. Grazie anche alla magistrale prova della Burstyn – che vince giustamente l’Oscar come miglior attrice protagonista – “Alice non abita più qui” rappresenta uno dei migliori esempi della cinematografia americana indipendente di sempre.

Visto il successo del film, che decreta definitivamente Scorsese come giovane e geniale cineasta, venne creata una serie televisiva dal titolo “Alice” che andò in onda negli Stati Uniti, con un discreto successo, dal 1976 al 1985, serie che poi approdò anche sui nostri schermi.

“Hitchcock-Truffaut” di Kent Jones

(Francia/USA, 2015)

Nel 1962, dopo una fitta corrispondenza, Alfred Hitchcock accetta l’intervista propostagli dal giovane critico e cineasta francese Francois Truffaut.

Il regista inglese, reduce dal successo planetario del suo superbo “Psyco” che di fatto ha cambiato il modo di fare e vedere il cinema, è curioso dell’interesse di Truffaut – che ha al suo attivo, allora, solo tre film – uno dei rappresentati di spicco della Nouvelle Vague che dalla Francia, e dalle scrivanie della rivista “Cahiers du cinéma” fondata da André Bazin nel 1951, sta rivoluzionando il modo di pensare al cinema e, soprattutto, sta riscoprendo e rivalutando i “vecchi” maestri.

Negli Stati Uniti Hitchcock è considerato soprattutto un grande intrattenitore e, oltre al cinema, la sua fama è legata alle serie televisive che cura e presenta. Ma Truffaut vuole intervistare e conoscere alla radice la tecnica e la genialità di quello che lui – assieme ai cineasti della Nouvelle Vague – considera un vero e proprio maestro assoluto, e comprendere meglio anche il ruolo focale di Alma Reville, compagna di lavoro di Hitchcock dagli inizi e poi divenuta sua compagna di vita, che molti considerano geniale come il marito, soprattutto in sede di montaggio.

I due si vedranno in un ufficio degli studi dell’Universal per una settimana coadiuvati da Helen Scott che tradurrà dal francese all’inglese e viceversa. Finita la settimana e l’intervista fra i due grandi cineasti nascerà una profonda amicizia fatta di stima e affetto che proseguirà fino alla morte di Hitchcock avvenuta nel 1980. Per questo, nel corso degli anni, i due si scambieranno regolarmente lettere e telegrammi con opinioni e consigli sulle rispettive opere.

Sistemando il materiale scaturito da quella incredibile settimana, nel 1966 Truffaut pubblica il libro “Il cinema secondo Hitchcock” che diventa di fatto una pietra miliare e un testo fondamentale della letteratura cinematografica, indispensabile anche per chi semplicemente ama il cinema, e non solo quello del maestro inglese. Testo che con gli anni diventa un vero e proprio manuale per tutte le generazioni di cineasti.

A documentare quell’intervista ci sono le fotografie in bianco e nero scattate da Philippe Halsman e la registrazione audio. Questo ottimo documentario, scritto dallo stesso Kent Jones assieme a Serge Toubiana, la ripercorre con l’aggiunta di immagini di archivio e interviste a vari cineasti come Martin Scorsese, David Fincher, Peter Bogdanovich e Paul Schrader che raccontano l’impatto del libro nella loro carriera.

A pochi mesi dalla sua morte, a Hitchcock venne assegnato un prestigioso premio televisivo – sì, sì: televisivo e non …cinematografico, che rappresenta tristemente il suo unico vero riconoscimento pubblico ricevuto in vita – e per consegnarlo venne chiamato lo stesso Truffaut che disse: “…Voi qui lo chiamate semplicemente Hitch, ma noi in Francia invece lo chiamiamo …Monsieur Alfred Hitchcock!”.

Da vedere.

“Re per una notte” di Martin Scorsese

(USA, 1982)

Questo film del maestro Martin Scorsese è, a torto, poco considerato.

Agli inizi degli anni Ottanta il cineasta di New York, ispirandosi allo script di Paul D. Zimmerman, realizza un vero e proprio capolavoro che anticipa incredibilmente i lati oscuri della società contemporanea, e come questa venga implacabilmente influenzata dalla televisione, regno indiscusso di chi desidera prima di tutto apparire. Concetto che oggi ha acquistato ancora più peso grazie, o meglio a causa, dei social.

Uno dei re indiscussi della New York del 1982 è Jerry Langford (un bravissimo Jerry Lewis che dimostra come chi sa far ridere è molto bravo anche a saper far piangere) conduttore storico del Late Show che spopola in tutti gli Stati Uniti.

Fra i suoi fan più sfegatati e ossessivi – che oggi chiameremo stalker – c’è Rupert Pupkin (un monumentale Robert De Niro) un trentacinquenne che vive ancora con la madre, e che ha solo una certezza nella vita: essere un comico, ed ottenere una possibilità per dimostrarlo. Grazie ad uno stratagemma Rupert riesce a parlare con Jerry dal quale estorcere la promessa di ascoltare un nastro con le sue migliori battute.

Quando il solerte, sempre sorridente e cortese Rupert il giorno dopo si reca negli uffici della produzione del programma, viene accolto con cortesia e congedato con la promessa di essere ricontattato. Passano i giorni, ma Rupert non riceve alcuna chiamata e così decide di reagire…

Anche se è un film di quasi quarant’anni fa non desidero rivelare il finale, che comunque illumina senza pietà su come diventerà la nostra società, e sul potere del piccolo schermo capace di creare imperi e successi smodati, così come potere politico e morale.

Non è un caso quindi che Todd Philips si sia dichiaratamente ispirato a questo capolavoro per realizzare il suo “Joker” con Joaquin Phoenix. Basta pensare al titolo originale del film “King of Comedy” (“Re per una notte” è il titolo dell’autobiografia scritta dallo stesso Rupert che riempirà tutte le biblioteca americane) che è l’appellativo con cui si auto fregia alla fine Arthur Fleck/Joker.

Rupert, come Arthur, vive solo con la madre e praticamente non ha una vera vita sociale. Il cambiamento della loro esistenza e della percezione che di loro ha il mondo avviene per entrambi in uno studio televisivo.

E poi, ovviamente, c’è l’infinito Robert De Niro come collegamento viscerale fra le due pellicole. In questa ospite dello show, in “Joker” storico conduttore del talk show che guarda come un oracolo Arthur tutti i giorni.

Nella nostra versione di “Re per una notte”, presente nel dvd, c’è l’indimenticabile Ferruccio Amendola che doppia De Niro. Senza nulla togliere al bravissimo Stefano De Sando che doppia l’attore in “Joker”, il connubio Amendola/De Niro fa ancora oggi venire la pelle d’oca…