“Ballando ballando” di Ettore Scola

(Italia/Francia, 1984)

Nel 1982 il maestro Ettore Scola è a Parigi per girare “Il nuovo mondo”. Durante una pausa delle riprese, l’allora Ministro della Cultura dell’esecutivo francese Jack Lang, lo invita a vedere un curioso spettacolo musicale che si tiene in un piccolo teatro nella periferia parigina.

Si tratta di “Le Bal” del Téàtre du Campagnol scritto, diretto e interpretato da Jean-Claude Penchenat. L’azione si svolge in un unico ambiente, una sala da ballo dove con la musica in sottofondo i protagonisti si incontrano in situazioni e dinamiche differenti, sempre senza alcun dialogo.

La rappresentazione affascina Scola soprattutto per due caratteristiche a lui carissime: l’azione che si svolge in un solo ed unico ambiente e lo scorrere del tempo. Decide così di farne un film e chiama i suoi colleghi e amici di sempre Ruggero Maccari e Furio Scarpelli per scrivere la sceneggiatura.

La redazione si rivela molto più complicata del previsto perché, anche se Scola decide rimanere fedele al testo originale senza dialoghi, li mette ugualmente nello script per aiutare gli attori ad interpretare meglio la loro parte che sarà esclusivamente fisica e mimica.

Anche se il cast originale è composto tutto da attori non professionisti, fra cui alcuni docenti e un medico, Scola decide di mantenerli tutti, compreso lo stesso Penchenat, con alcune piccole aggiunte (come Monica Scattini nel ruolo della ragazza miope e Francesco De Rosa in quello del barista) e così inizia a girare a Parigi. Ma dopo circa un mese il regista viene colto da un infarto e la lavorazione sospesa. Riprenderà solo un anno dopo a Roma, negli studi di Cinecittà, dove Scola realizzerà uno dei capolavori del nostro cinema.

Con le musiche di Vladimir Cosma e la consulenza del maestro Armando Trovajoli, viviamo circa cinquant’anni di storia del Novecento attraverso i balli dei solitari frequentatori di una piccola balera di periferia.

Dagli anni Trenta ai primi anni Ottanta osserviamo le povertà e le miserie sentimentali e morali di alcuni appartenenti alla piccola borghesia d’oltralpe (che ovviamente può essere quella di qualsiasi altro paese del mondo) che sperano di terminare e sconfiggere la loro solitudine il sabato pomeriggio ma alla fine, delusi, sono pronti a ritentare la settimana successiva.

Un capolavoro che dimostra come un film nel quale non si pronuncia una sola parola, non è certo un film …”muto”. Da vedere.

Il dvd, negli extra, contiene una preziosa intervista allo stesso Scola sulla realizzazione del film; e nella galleria sono presenti le immagini dei bozzetti realizzati dallo stesso regista prima delle riprese e dai quali è stata presa l’idea per la locandina.

“Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo” di Mauro Bolognini

(Italia, 1956)

Ci sono poche cose che raccontato il nostro Paese, o meglio la nostra società e il nostro stile di vita, come la grande commedia all’italiana.

Siamo entrati nel Terzo Millennio e nel nostro quotidiano le cose non sono poi così cambiate rispetto a quello che ci racconta Mauro Bolognini nel 1956 in questa deliziosa pellicola in bianco e nero.

Le vite di quattro Vigili Urbani romani si incrociano sul palco dell’orchestra del Corpo, per poi scontrarsi con la vita di tutti giorni.

L’integerrima inflessibilità costerà cara alla guardia Randolfi (un grande Alberto Sordi), così come la troppa passione per la musica classica e le bugie sulla propria famiglia penalizzeranno la guardia scelta Manganiello (un altrettanto grande Peppino De Filippo), mentre meglio andrà al brigadiere Spaziani (Aldo Fabrizi sempre in grande forma) che riuscirà a coronare il sogno della figlia, tutti comandati dal maresciallo Mazzetti (un sornione Gino Cervi).

Fra sketch e scene memorabili, ancora oggi ne rimangono irresistibili e inarrivabili due su tutte: la partita a scopone fra De Filippo-Cervi e Fabrizi-Sordi, con quest’ultimo che non teme di schiaffeggiare neanche la mano del suo superiore mentre questo prende la carta sbagliata. E l’esame dello stesso Randolfi/Sordi che cerca vanamente una traduzione e un’improbabile pronuncia francese della parola “zia”…

Da rivedere a intervalli regolari.

“Fantasmi a Roma” di Antonio Pietrangeli

(Italia, 1961)

Questa commedia fantasy racchiude alcuni fra i più importanti pilastri del nostro grande cinema. Il soggetto, infatti, è firmato dal padre del nostro Neorealismo: Sergio Amidei, mentre la sceneggiatura è scritta da mostri sacri come Ennio Flaiano, Ruggero Maccari, Ettore Scola e lo stesso Antonio Pietrangeli, che poi lo dirige.

Per non parlare degli interpreti, fra cui spiccano un fascinosissimo Marcello Mastroianni, un grande Eduardo De Filippo e un coriaceo Vittorio Gassman. Da ricordare anche i bravissimi Tino Buazzelli (purtroppo doppiato), Claudio Gora che incarna sempre superbamente l’antipatico per eccellenza, e Lilla Brignone in quello struggente di Regina.

Il genere fantasy, nel nostro Paese e in quegli anni, aveva un ambito alquanto ristretto e poco seguito (“Omicron” diretto da Ugo Gregoretti nel 1963, è forse l’unico esempio del genere che ebbe un certo riscontro di pubblico e critica). Così questo film, dopo l’uscita nelle sale, venne rapidamente – e ingiustamente – dimenticato. Ma ancora oggi rappresenta uno dei picchi della nostra grande commedia.

Anche nella struttura “Fantasmi a Roma” si distingue dal genere classico. Infatti, il suo protagonista scompare a metà del film, per riapparire solo marginalmente alla fine. Fra i pochissimi altri esempi riusciti con una dinamica simile c’è “Psyco” del maestro Hitchcock, tanto per dire.

Ma tornando alla pellicola di Pietrangeli, ancora oggi seguiamo con trasporto e nostalgia la vita grama che conduce Don Annibale (De Filippo), principe di Roviano, che pur di non vendere l’antico palazzo di famiglia soffre la fame e il freddo. Così come assistiamo al salvataggio dello stesso storico edificio e dei fantasmi che lo abitano dalle scellerate ambizioni dell’ultimo erede Federico (Mastroianni, in uno dei suoi tre ruoli).

Poco è cambiato nella nostra mentalità, che aspira ad ottenere la vil pecunia nel modo più rapido e becero possibile. Peccato che Pietrangeli scomparve prematuramente solo pochi anni dopo, senza avere il tempo di donarci altri grandi film come questo o come “Adua e le compagne” o “Io la conoscevo bene”.

25 anni dalla morte di Aldo Fabrizi

Il 2 aprile del 1990 scompariva Aldo Fabrizi a Roma, nella stessa città dove era nato nel 1905.

La grande vena artistica di Fabrizi esplose in giovanissima età, ma l’indigenza della sua famiglia lo costrinse ad adattarsi a fare tutti i lavori più umili per mantenere madre e sorelle.

Il primo riconoscimento del suo genio arriva nel 1928 con la pubblicazione di “Lucciche ar sole”, una raccolta di poesie in dialetto romano.

Qualche anno dopo arriva anche l’esordio sul palcoscenico come macchiettista, sul quale era salito per la prima volta per recitare le proprie opere. Le sue enormi capacità istrioniche e il grande senso del comico lo portano quasi subito ad avere successo.

Nel 1942 esordisce al cinema con “Avanti c’è posto” di Mario Bonnard con il quale collabora anche alla sceneggiatura, così come accadrà per quasi tutti i film in cui reciterà negli anni successivi.

Come quando nel 1945 interpreta don Pappagallo in “Roma Città Aperta” di Roberto Rossellini, al quale impone il suo giovane e semi sconosciuto battutista Federico Fellini, come coautore alla sceneggiatura.

Nel 1948 arriva un nuovo esordio: dietro la macchina da presa con “Emigrantes”, girato in occasione di una turné teatrale nel sud America.

Da attore simbolo del Neorealismo, col passare degli anni, Aldo Fabrizi comincia a diventare un emblema della grande commedia all’Italiana.

I titoli sono numerosi, ma fra i più amati e rappresentativi non si possono non ricordare “La famiglia Passaguai” (da lui stesso diretto nel 1951), “Guardie e ladri” (1951) di Mario Monicelli, “Hanno rubato un tram” (sempre da lui diretto nel 1954), “Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo (1956) di Mauro Bolognini, e “Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi” (1960) di Mario Mattoli.

Nel 1974 partecipa a quello che, oltre a essere un capolavoro della cinematografia mondiale, è considerato il canto del cigno della grande Commedia all’Italiana: “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola.

Parallelamente alla carriera cinematografica, Fabrizi prosegue quella teatrale nella quale spicca il suo Mastro Titta nel pluripremiato “Rugantino” di Garinei e Giovannini del 1962.

Ma Fabrizi è anche fra i pionieri della sua generazione in televisione, dove partecipa a trasmissioni di sempre maggior successo fino ai suoi mitici sketch nel varietà del sabato sera “Speciale per noi” (1969) di Antonello Falqui.

A un quarto di secolo dalla sua scomparsa, Aldo Fabrizi merita di essere ricordato come uno dei grandi artisti italiani del Novecento, e non solo come straordinario attore comico.

I volumi da lui pubblicati, molti dei quali dedicati alla gastronomia, ci testimoniano la grande versatilità del suo genio. Chi lo ha frequentato personalmente (fu grande e intimo amico dell’immenso Totò) lo ha sempre ricordato come un uomo dal carattere duro ed estremamente esigente, a volte persino arrogante.

Proprio questa sua indole difficile, e soprattutto la sua dichiarata simpatia verso l’allora destra nostalgica italiana (partecipò in prima fila all’esequie di Giorgio Almirante) contribuirono a oscurare la sua arte negli anni successivi alla morte.

Lungi da me entrare nel merito di una discussione politica, visto che poi non l’ho mai pensata come Fabrizi, ma è un dato di fatto che una certa cultura “fighetta” e radical chic degli anni Novanta lo ha indiscutibilmente gettato nel dimenticatoio per le sue idee politiche.

Allora semmai dovremmo aprire un dibattito su come e se le idee politiche e i comportamenti personali di un artista (che come Fabrizi seppe anche farsi gioco degli aspetti più risibili di quel mondo a cui poi era politicamente legato come in “Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi” e “Gerarchi si muore”) debbano essere considerati rispetto alla sua arte: ma entreremmo in un ambito davvero difficile da circoscrivere che io, sinceramente, proprio non ho voglia di affrontare qui.

Quello che so è che ogni volta che c’è un film o uno sketch con Fabrizi (lo sciatore o lo scolaro su tutti), anche se lo conosco a memoria, lo rivedo sempre sghignazzando di gusto.

“Il commissario Pepe” di Ugo Facco De Lagarda

(Neri Pozza/Giano 1965/2009)

Questo breve ma intenso romanzo venne pubblicato per la prima volta nel 1965 in un’Italia pimpante e volitiva, ancora in pieno boom economico post bellico.

Scoprire i vizi e i pruriti sessuali di una ricca provincia del nord – che assomiglia tanto a Vicenza – non era così di moda e facile come lo è oggi.

Far passare poi il tutto sopra la scrivania di un commissario di Pubblica Sicurezza – dite quello che vi pare, ma su alcuni aspetti per me molto simile al Montalbano di Camilleri, quello dei libri e non quello della televisione – votato più alla riflessione che all’azione, è davvero cosa notevole.

Mettiamoci pure che leggere un’opera firmata da un ottimo narratore come Facco De Lagarda – che fu partigiano nella Seconda Guerra Mondiale e direttore di banca nella vita civile – ci illumina ancora meglio sulla nostra società di allora, e su come è diventata quella che è oggi.

La voglia di leggere questo romanzo mi è venuta vedendo l’omonima e grande trasposizione cinematografica che fece Ettore Scola nel 1969 con uno strepitoso Ugo Tognazzi nei panni di Gennaro Pepe.

Cogliendo a pieno lo spirito e le atmosfere dell’opera di Facco De Lagarda, Scola ne ha cambiato alcuni punti cruciali, mantenendo però intatta la sua grande potenza narrativa.

Da leggere.

“Che strano chiamarsi Federico” di Ettore Scola

(Italia, 2013)

Il grande Ettore Scola firma un imperdibile e intimo ritratto di quello che è stato uno dei più grandi autori cinematografici del Novecento, nonché suo amico, Federico Fellini.

I rispettivi nipoti dei due grandi registi impersonano i giovani cineasti che si conobbero nella redazione della rivista “Marc’Aurelio”, a ridosso della Seconda Guerra Mondiale, fucina dei più grandi autori comici e satirici italiani dell’epoca come Ruggero Maccari, Marcello Marchesi, Stefano Vanzina, Vittorio Metz, Age e Furio Scarpelli, tanto per dirne alcuni.

Il film ripercorrere la loro amicizia fatta anche di notti passate in automobile nel ventre di Roma oltre che dietro la macchina da presa.

Il tutto ricostruito nel mitico Teatro 5 di Cinecittà, luogo nel quale Fellini giro’ quasi tutti i suoi film, costruendo set indimenticabili, e dove infine gli venne allestita la camera ardente.

Ma bando alla commozione, Fellini – e questo lo raccontano tutti coloro che ebbero la fortuna di conoscerlo – non era affatto un “bravo ragazzo”: per lui la bugia era arte.

E così Scola lo ricorda come un anziano Pinocchio sempre in fuga dai Carabinieri…

Da vedere.

“Una giornata particolare” di Ettore Scola

(Italia, 1977)

Ettore Scola scrive – insieme a Ruggero Maccari e con la collaborazione di Maurizio Costanzo – e dirige uno dei manifesti più belli contro l’omofobia e la condizione servile della donna durante il ventennio fascista.

Per quanto riguarda l’omosessualità è vero che fortunatamente – come si dice nei migliori circoli culturali – le cose sono cambiate, ma di strada ancora ce n’è da fare: la cronaca purtroppo ci riporta ancora di persone (soprattutto giovani) che vengono perseguitate o peggio ancora si tolgono la vita per la propria, incompresa e troppo spesso derisa e condannata, sessualità.

Per quanto riguarda la condizione delle donne mi piacerebbe dire altro, raccontare come nel nostro Paese, che partecipa al G8, la considerazione al lavoro come in famiglia di una donna sia esattamente come quella di un uomo. Ma non è così.

Il femminicidio e gli abusi sulle donne sono reati che quotidianamente riempiono le cronache delle nostre testate. Per non parlare poi del ruolo della donna – soprattutto se è mamma – al lavoro…

Non siamo ancora alla situazione di quel lontano giorno in cui Hitler venne in visita a Roma – giornata in cui si svolge il film di Scola – ma non ne siamo ancora così lontani però.

Non si sbaglia mai a ricordare che nel nostro Paese le donne hanno potuto votare per la prima volta, senza vincoli, nel 1946; e che proprio in questi giorni gira in radio uno spot della Presidenza del Consiglio dei Ministri che ci dice come siano importanti le donne nel mondo del lavoro e per questo è stata fatta una legge apposita dal Ministero delle Pari Opportunità… insomma: siamo un Paese che ha ancora bisogno di una legge per rendere le donne uguali agli uomini nel mondo del lavoro! …Povera Italia.

Ma tornando al film, merita un plauso Sophia Loren che intelligentemente ha accettato di farsi invecchiare e nascondere – con evidente difficoltà – le proprie curve, che anche allora erano davvero prorompenti, per rendere la sua Antonietta ancora più credibile.

E plausi anche a Marcello Mastroianni per la sua garbata e raffinata rappresentazione di un omosessuale degli anni Trenta, mai sopra le righe ma davvero efficace.

Ed infine ecco la chicca: ad impersonare la figlia adolescente di Antonietta c’è una giovane – alquanto anonima in verità – Alessandra Mussolini. Che la politica c’abbia rubato una grande attrice?

“Made in Italy” di Nanni Loy

(Italia, 1965)

Oggi è un giorno speciale: tornano le Coppe Europee, sta partendo il nuovo Governo, ma soprattutto inizia il Festival di Sanremo.

Tutto molto italiano e per questo mi sembra proprio il caso di parlare della pellicola a episodi diretta da Nanni Loy nel 1965, con un cast stellare, e scritto a tre mani con Ettore Scola e Ruggero Maccari.

Anche se è una delle migliori espressioni della nostra grande commedia, raramente viene citata accanto agli altri famosissimi titoli. Ci sono pellicole di cui ancora non ho parlato molto più note e studiate, ma parlo di questa oggi perché sembra incredibile (e anche triste) l’attualità del ritratto di noi italiani realizzata in questo film.

A distanza di cinquant’anni la fotografia di Loy sui nostri vizi, sulle nostre debolezze e, soprattutto, sulle nostre meschinità è ancora – pure troppo! – attuale.

Quindi in mezzo secolo non siamo cambiati migliorando?

Dopo aver visto il film e dato un’occhiata alle news interne voglio vedere come rispondete…

“Dramma della gelosia – Tutti i particolari in cronaca” di Ettore Scola

(ITA/SPA, 1970)

Qui parliamo di uno dei picchi più alti della commedia all’italiana, e quindi della cinematografia mondiale.

Oreste (interpretato da uno strepitoso Marcello Mastroianni), anche se sposato, si innamora di Adelaide (una fantastica Monica Vitti nel film in cui appare al meglio in tutta la sua immortale bellezza).

Quando però lui le presenta il suo compagno di manifestazioni e mille battaglie Nello (un giovane ma già bravissimo Giancarlo Giannini) scoppia il dramma…

Oltre alla maestria dei tre protagonisti, questo gioiello si avvale di una grande sceneggiatura firmata dai giganti Age, Furio Scarpelli e Scola.

Fra gag e battute indimenticabili cito, perché proprio non ne posso fare a meno:

– Orè, chiedimi tutto… – sussurra languida Adelaide.

– Domenica prossima vota Comunista! – risponde senza remore Oreste.

E soprattutto, durante la scenata che Oreste fa una volta scoperta la tresca, la dichiarazione d’amore di Adelaide:

– Amo, riamata, Serafini Nello e LO APPARTENGO!

Film così bisognerebbe farli studiare a scuola!

“C’eravamo tanti amati” di Ettore Scola

(Italia, 1974)

Ci sono film che riescono a fotografare un’epoca, un periodo o un Paese. “C’eravamo tanto amati” di Scola immortala, come pochi altri, i primi trent’anni di vita della Repubblica Italiana.

E lo fa attraverso la vita, l’amicizia e l’amore di tre uomini e una donna: Gianni Perego (Vittorio Gassman), Nicola Palumbo (Stefano Satta Flores), Antonio (Nino Manfredi) e Luciana Zanon (Stefania Sandrelli).

E, come nei ricordi, la parte più lontana è in bianco e nero e quella più recente a colori (il cambio di dal b/n al colore, sul madonnaro che disegna in terra, rimane una delle scene visivamente più intense del nostro cinema).

C’è una scuola di pensiero che lo considera l’ultimo grande esempio di commedia all’italiana. Ma comunque, oltre ad essere uno splendido film, “C’eravamo tanti amati” è un importante documento della nostra storia contemporanea, sia per quello che racconta sia per come lo racconta.

Da ricordare anche la dedica che Scola fa al grande Vittorio De Sica, scomparso proprio l’anno di uscita del film.

Un capolavoro assoluto e immortale, da rivedere a intervalli regolari.