“Blow Out” di Brian De Palma

(USA, 1981)

Mentre stava finendo di montare il capolavoro “Vestito per uccidere”, Brian De Palma si accorse che i rumori da inserire nella colonna sonora erano già stati fin troppo utilizzati, e così incaricò il fonico di andare a reperirne di nuovi.

Questa circostanza, in realtà assai comune nell’allora mondo degli addetti all’audio cinematografico, fece venire in mente l’idea di un nuovo film che lo stesso De Palma scrisse e poi diresse.

Jack Terry (un bravo e scanzonato John Travolta) è un fonico cinematografico che lavora soprattutto per film di serie B, spesso horror e scollacciati. Il problema audio della pellicola su cui sta lavorando, che racconta la storia di un feroce serial killer di prosperose studentesse universitarie, è l’urlo che l’ennesima vittima deve fare mentre viene accoltellata. Quello originale dell’attrice è, infatti, imbarazzante e così il regista-produttore gli chiede di reperirne uno che non rovini il pathos della scena.

Jack così, con tutti i suoi strumenti, la sera stessa si apposta sul ciglio di un fiume, fuori città, per ottenere nuovi suoni e forse, con un po’ di fortuna, reperire anche l’urlo. Ma, mentre sta registrando, sente sopraggiungere un’automobile ad alta velocità che, giunta all’altezza del fiume, per l’esplosione di uno pneumatico, precipita nell’acqua.

Jack, d’istinto, abbandona la sua strumentazione e si getta nelle acque per aiutare il malcapitato, mentre alle sue spalle uno sconosciuto (un oscuro, implacabile e cattivissimo John Lithgow) si allontana con qualcosa fra le mani che sembra proprio un fucile.

Dentro l’automobile Jack trova il cadavere dell’uomo che era al volante, ma al suo fianco c’è una ragazza che tenta in ogni modo di uscire dall’abitacolo. Grazie al fonico, la giovane riesce a salvarsi mentre il veicolo viene definitivamente inghiottito dalle acque.

In ospedale Jack viene informato che l’uomo era George McRyan, il candidato alla Casa Bianca che ormai da mesi dominava i sondaggi, e che la ragazza a cui ha salvato la vita si chiama Sally (Nancy Allen). Prima dell’arrivo dei giornalisti il fonico viene avvicinato da Lawrence Henry (John McMartin), consigliere personale di McRyan, che lo prega di non rivelare a nessuno la presenza di Sally nell’auto, cosa che provocherebbe senza dubbio un grande ma inutile scandalo, e un ulteriore superfluo dolore alla famiglia del politico deceduto. Il fonico accetta e assieme a Sally lascia in maniera riservata l’ospedale.

Il giorno dopo tutti i giornali riportano lo scoop del fotografo Manny Karp (Dennis Franz) che, casualmente, si trovava sul luogo dell’incidente e ha ripreso tutto con la sua apparecchiatura. Riascoltando l’audio registrato e unendoci le immagini di Karp ritagliate da un giornale, Jack comprende che il politico è stato vittima di un attentato. La cosa cambia tutto e lui, in qualità di testimone oculare, capisce di essere in grave pericolo. Raggiunge Sally, mentre questa sta cercando di abbandonare la città e, non senza fatica, alla fine la convince a rimanere e ad aiutarlo per scoprire la verità.

In maniera fortuita, però, Jack scopre che Sally era d’accordo con Krap per fare delle foto scandalistiche a McRyan per poi ricattarlo. Intanto Burke, il glaciale assassino del politico, è sulle loro tracce…     

Brian De Palma firma una delle più riuscite pellicole che rappresentano al meglio il cinema al cinema, proprio nella sua migliore tradizione. Ma, nonostante ciò, “Blow Out” naufragò miseramente al botteghino, segnando un duro stop nelle carriere sia del regista che del suo attore principale.

Proprio su Travolta si riversarono le critiche più taglienti che davano a lui la colpa del flop economico del film. In realtà “Blow Out” è ancora oggi un gran bel film, scritto e girato a regola d’arte. Forse quello che allora il pubblico non gradì fu l’aspetto cinico e amaro della storia e del suo personaggio principale, soprattutto nella – splendida – scena finale che chiarisce definitivamente il titolo originale del film, omaggio palese al capolavoro “Blow Up” del maestro Michelangelo Antonioni.

La presunzione mista alla poca concretezza di Jack Terry – che alla fine riesce …solo a trovare l’urlo adatto al film a cui stava lavorando – poco si addicevano, forse, al viso solare e da bravo ragazzo di John Travolta, reduce da alcuni successi cinematografici musicali planetari.

Ma non tutto il pubblico che lo vide allora al cinema rimase deluso, come il sottoscritto che ne fu letteralmente folgorato. Anche il giovane e allora sconosciuto Quentin Tarantino ne rimase affascinato tanto da inserirlo nei suoi primi tre film preferiti in assoluto.

Fu lo stesso Travolta a confermarlo in una intervista concessa sull’onda del clamoroso successo del film “Pulp Fiction” diretto, appunto, da Tarantino nel 1994. John Travolta, infatti, rivelò che non aveva la minima intenzione di partecipare alla pellicola, che poi sarebbe diventata un cult assoluto facendo ripartire inaspettatamente la sua carriera. Non aveva compreso a pieno la sceneggiatura e non conosceva il regista, ma alla fine accettò solo per l’insistenza dello stesso Tarantino che per ore lodò la sua interpretazione proprio in “Blow Out”.

Da ricordare anche la struggente colonna sonora musicale firmata dal maestro Pino Donaggio.     

“The Tomorrow Man” di Noble Jones

(USA, 2019)

Ed Hemsler (un bravissimo John Lithgow) è uno pensionato “che è nella parte sbagliata dei sessant’anni” – come dice lui – e vive in una piccola cittadina della provincia americana. Suo figlio abita a circa un’ora di auto da lui, con moglie e figlia adolescente, ed è a lui che fa l’unica telefonata quotidiana.

Il resto della giornata Ed lo passa a guardare il telegiornale, con le sue catastrofiche notizie dal mondo, e a finire di preparare il suo rifugio, segreto e personale, per quando arriverà la fine. Perché Ed ne è ormai certo: l’apocalisse, in qualsiasi forma si presenterà, è vicina.

Per questa sua ossessione, è molto oculato e previdente nella spesa che fa settimanalmente nel grande supermercato della zona. E un giorno, proprio girando fra gli scaffali, nota una donna che come lui acquista prodotti particolari e specifici, che sembrano essere adatti ad affrontare una calamità imminente.

Ed si fa coraggio, le dolorose ferite dell’abbandono della sua ex moglie ancora non sono tutte definitivamente rimarginate, e l’avvicina. La donna si chiama Ronnie (Blythe Danner) …e non si sente affatto nella parte “sbagliata” dei sessant’anni.

Nonostante le differenze di carattere i due iniziano a frequentarsi e Ed rimarrà sempre più affascinato dalla donna che scoprirà non essere ossessionata come lui della prossima fine del mondo, ma una “semplice” conservatrice seriale da quando sua figlia e poi suo marito sono mancati.

Ed e Ronnie decideranno così da affrontare le proprie più oscure e profonde paure, ma…

Originale commedia sentimentale scritta e diretta da Noble Jones, dedicata all’amore senza età e senza pregiudizi, ambientata ai giorni nostri, prima però che qualcuno avesse potuto solo immaginare cosa sarebbe accaduto con lo scoppio della pandemia… o forse no?

“Le avventure di Buckaroo Banzai nella quarta dimensione” di W.D. Richter

(USA, 1984)

Nell’ottobre del 1984 esce nelle sale statunitensi un film di fantascienza destinato a diventare un piccolo cult, che nel corso del tempo viene spesso citato o imitato. Basta pensare che Steven Spielberg ne fa un chiaro riferimento nel suo “Ready Player One” del 2018, quando Parzival sta per incontrare Art3mis e sceglie il look più cool ispirandosi proprio al protagonista di questo film.

I motivi perché questa pellicola, soprattutto negli USA, è considerata una delle più rappresentative degli anni Ottanta sono molti, a partire dal cast che annovera attrici e attori che diventeranno icone cinematografiche non solo di quel decennio come Peter Weller, che impersona proprio Buckaroo Banzai. Ci sono poi Ellen Barkin, John Lightgow, Jeff Goldblum, Clancy Brown e Christopher Lloyd che solo pochi mesi dopo impersonerà il professor Emmett Brown nel mitico “Ritorno al futuro“.

A proposito di “Ritorno al futuro”, proprio nelle sequenze iniziali di “Le avventure di Buckaroo Banzai nella quarta dimensione” il protagonista sfida la fisica con la sua autovettura futuristica il cui cuore pulsante è uno strumento molto – ma molto… – simile al flusso catalizzatore della Delorean di Doc Brown…

Tornando al film di W.D. Richter – che poco dopo parteciperà alla stesura dello script di un’altra pietra miliare del cinema degli anni Ottanta, e non solo, come “Grosso guaio a Chinatown” diretto dal maestro John Carpenter nel 1986 – anche la trama, frenetica, affatto lineare e che racchiude svolte narrative tipiche di vari generi apparentemente incompatibili, rappresenta al meglio lo spirito edonistico e glitterato di quegli anni.

Buckaroo Banzai è uno dei migliori neurochirurghi del pianeta, ma ha deciso tralasciare la sua carriera medica per dedicarsi al rock – con la sua band “The Hong Kong Cavaliers” – e alla guida di un veicolo speciale – di sua ideazione – in grado di superare i limiti della fisica conosciuta e portarlo nell’ottava dimensione (…sì, è l’ottava dimensione, forse i distributori italiani credevano che fosse “troppa” e così l’hanno divisa per due).

Per festeggiare la grande impresa Buckaroo si esibisce in un concerto dove incappa in Penny (Ellen Barkin) che sembra essere la sorella gemella della sua ex amata, di cui non ha più notizie.

Intanto, tutto il mondo parla dell’impresa di Buckaroo e la cosa arriva anche alle orecchie del perfido dottor Emilio Lizardo (John Lithgow) scienziato senza scrupoli del regime fascista italiano che dopo il fallimento del suo esperimento – riuscito invece ora a Buckaroo – e la fine della Seconda Guerra Mondiale è stato rinchiuso in un manicomio criminale.

Grazie all’appoggio di alcune creature aliene che possono prendere sembianze umane come John Bigboote (Christopher Lloyd) Lizardo cambia identità e diventa Lord John Whorfin acquistando poteri sovrannaturali. La cosa gli permette di impadronirsi del propulsore grazie al quale Buckaroo è riuscito a visitare l’ottava dimensione. Il suo intento è quello di reclutare le perfide creature che la abitano e conquistare il mondo.

Ma Buckaroo è sulle sue tracce insieme ai sui Hong Kong Cavaliers, di cui fanno parte Rawhide (Clancy Brown) e New Jersey (Jeff Goldblum), e all’aiuto di John Parker (Carl Lumbly) un alieno mutaforma proveniente dal pianeta acerrimo nemico di quello da cui arrivano gli alleati di Lord Whorfin…

Scritta da Earl Mac Rauch, questa pellicola incarna come poche lo stile e l’atmosfera di quegli anni e, nonostante alcuni limiti nella sceneggiatura, è davvero un piccolo cult trash. Facendo una citazione pubblicitaria di successo proprio in quel periodo: questo film è “per molti, ma non per tutti” …i nostalgici dal palato fino degli anni Ottanta.

“Ai confini della realtà” di John Landis, Steven Spielberg, George Miller e Joe Dante

(USA, 1983)

Un’intera generazione di cineasti americani – e non solo, parliamo anche di scrittori, come il Re Stephen King, tanto per citarne uno – è stata influenzata in maniera determinante da quella che molti, me per primo, considerano una delle serie televisive migliori di sempre: “Ai confini della realtà” creata dal grande Rod Serling nel 1959 e andata in onda per quattro indimenticabili stagioni fino al 1964.

Così, agli inizi degli anni Ottanta, la nuova Hollywood decide di rendergli omaggio riportando e riadattando al cinema tre degli episodi più famosi. A prendere in mano l’idea è John Landis, reduce di gradi successi al botteghino come “Animal House“, “Un lupo mannaro americano a Londra”, “The Blues Brothers” o “Una poltrona per due“.

Nel progetto, sia come regista che come produttore, viene coinvolto anche l’amico Steven Spielberg – che proprio in “The Blue Brothers” aveva fatto un piccolo cameo – che sceglie di dirigere il segmento “Calcia il barattolo”, il cui episodio originale andò in onda nel 1962. Gli altri registi sono Joe Dante che dirige “Un piccolo mostro” – episodio originale della terza stagione e andato in onda nel 1961- e l’australiano George Miller, reduce dal successo dei film della serie “Interceptor” con Mel Gibson, che firma “Incubo a 20.000 piedi” il cui episodio originale passò per la prima volta in televisione nel 1963 e venne diretto da un giovane Richard Donner che poi passerà al cinema dirigendo film come “Superman”, “Arma letale” e, non a caso, il mitico “I Goonies“.

Tutto il film è pregno di citazioni e riferimenti diretti alla serie originale tanto che la voce narrante – che nella serie storica apparteneva allo stesso Serling – è quella di Burgess Meredith (che molti ricorderanno per sempre come l’allenatore sordo in “Rocky”) che fu il protagonista del famosissimo episodio “Tempo di leggere”, andato in onda nel 1959.

Landis dirige il prologo e l’epilogo del film interpretati dall’amico Dan Aykroyd con un cameo di Albert Books, e scrive un nuovo e originale episodio dal titolo “Time Out”. Bill Connor (Vic Morrow) è un uomo di mezz’età deluso e incattivito dalla vita. Così una sera, in un locale seduto assieme a due suoi amici, inizia a sfogarsi col mondo diventando ferocemente razzista e prendendosela con il collega ebreo che secondo lui ha avuto la promozione al suo posto, e poi con tutte le persone di religione ebraica, con quelle di colore e con gli asiatici visto che da giovane ha servito il suo Paese in Corea contro i “musi gialli”.

Ma appena Bill esce dal locale per fumarsi una sigaretta si ritrova nella Parigi occupata dalle truppe naziste nei panni di un ebreo braccato. Quando i tedeschi lo colpiscono a morte Bill si risveglia fra le mani di feroci membri del Ku Klux Klan che lo vogliono impiccare solo perché è di colore. L’uomo riesce a fuggire ma si ritrova in una foresta del Vietnam nei panni di un vietcong, inseguito dalle truppe americane. Colpito a morte si ritrova in loop nella Parigi occupata. Il suo ultimo contatto col mondo al quale apparteneva sarà da un treno piombato, diretto ai campi di sterminio nazisti, dal quale vedrà i suoi amici cercarlo fuori dal locale.

In “Calcia il barattolo” Mr. Bloom (Scatman Crothers) propone agli altri ospiti della casa di riposo in cui vive di giocare con un barattolo nel cuore della notte. Ma solo quelli che avranno il coraggio di mettersi in gioco accettando al tempo stesso la loro età potranno davvero divertirsi…

“Un piccolo mostro” ci racconta la storia dell’insegnante Helen Foley (Kathleen Quinlan) che durante il viaggio verso la città in cui comincerà una nuova esistenza incappa nel piccolo Anthony, che la porterà a casa sua dove scoprirà un terribile segreto. Nel cast, nei panni di zio Walt, appare Kevin McCarthy, protagonista di un altro episodio storico della serie originale: “Lunga vita a Walter Jameson”, andato in onda nel marzo del 1960.

“Incubo a 20.000 piedi” ha come protagonista l’esperto programmatore di computer John Valentine (John Lithgow) che ha il terrore di volare ma che per lavoro è costretto a farlo. Cercando in ogni modo di calmarsi si mette a guardare fuori dal finestrino e scorge un essere mostruoso intento a sabotare i motori dell’aereo su cui sta volando.

Tutti e quattro gli episodi e le loro atmosfere mantengono fede allo spirito dell’opera originale di Serling e a rivederli oggi, anche a distanza di quasi quarant’anni, si prova sempre un certo gusto e piacere. Ma, purtroppo, durante la lavorazione del film si consumò un terribile e mortale incidente che influì sulla sua riuscita globale. Durante le riprese della scena finale dell’episodio “Time Out” l’elicottero che inseguiva Bill Connor nei panni di un vietcong con in braccio due piccoli vietnamiti rovinò al suolo investendo e uccidendo sul colpo Vic Morrow – padre dell’attrice Jennifer Jason Leigh – e i due attori bambini che erano con lui.

Sull’elicottero viaggiava Landis che dirigeva la scena, dando indicazioni al pilota. L’incidente, stabilirono gli inquirenti, venne causato dai numerosi fuochi d’artificio usati per riprodurre un bombardamento nella giungla, fuochi che abbagliarono il pilota facendogli perdere il controllo del mezzo.

Il processo durò circa dieci anni e ridimensionò inesorabilmente la carriera e il prestigio di Landis che molti considerarono colposamente e soprattutto moralmente responsabile in gran parte dell’accaduto. Spielberg troncò l’amicizia con lui e poi produsse da solo una serie televisiva chiaramente ispirata a quella di Serling – di cui però non possedeva i diritti – dal titolo “Storie incredibili” che andò in onda quasi in contemporanea alla nuova serie “Ai confini della realtà” prodotta dalla CBS e andata in onda dal 1985 al 1989.

Dal giorno dell’incidente e dopo l’esito dell’inchiesta, Hollywood cambiò drasticamente le normative per girare scene anche lontanamente pericolose per artisti e tecnici.

“Bombshell – La voce dello scandalo” di Jay Roach

(USA, 2019)

Il regista Jay Roach – dopo l’ottimo “L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo” – torna a raccontare una storia realmente accaduta.

Siamo nel 2015, durante la campagna per le elezioni presidenziali degli Stati Uniti che vedranno trionfare l’anno successivo il candidato repubblicano Donald Trump.

Entriamo nel cuore del network più conservatore del panorama americano Fox News, creato e presieduto da Roger Alies (un bravissimo John Lithgow, superbamente truccato) voluto direttamente dal proprietario Rupert Murdock (Malcom McDowell). Alies, con un passato di consulente d’immagine per Richard Nixon, Ronald Reagan e George Bush Sr., in pochi anni ha creato uno dei canali d’informazione più seguiti – e redditizi – d’America.

Fra le conduttrici più rilevanti spicca Megyn Kelly (una davvero brava Charlize Theron con tanto di lenti a contatto scure, mento e zigomi finti che ne cambiano straordinariamente i connotati) che è una dei tre giornalisti che porrà ai candidati repubblicani una domanda, durante una Convention in diretta televisiva.

La Kelly, basandosi sugli atti relativi al divorzio da Ivana e sulle numerose frasi che Donald Trump ha pubblicamente affermato, gli pone una domanda sul sessismo. Il futuro Presidente degli Stai Uniti s’infuria e, terminato il dibattito, inizia sui social una violenta campagna contro la Kelly, che definsce “ochetta” e vittima della sindrome premestruale. La giornalista si rivolge a Alies per aver sostegno dal network, sostegno che però non viene dato visto che Trump piace agli americani “…più di quanto se ne rendano conto”, afferma il presidente di Fox News.

A Gretchen Carlson (Nicole Kidman, anche lei incredibilmente truccata) conduttrice di prima grandezza di Fox News vengono affidati programmi in orari sempre meno rilevanti, perché – ufficiosamente – molti la considerano ormai “vecchia” (49 anni) e troppo “polemica”, visto che non tollera, per esempio, le battute sessiste. I tempi in cui vinse il titolo di Miss America (1989) sono ormai “lontani”.

Come stagista arriva a Fox News la giovane e avvenente Kayla Pospisil (Margot Robbie che a differenza della Theron e della Kidman interpreta un personaggio non reale, ma simbolico) che in breve tempo riesce ad entrare nelle grazie di Alies. Ma questo significa anche sottostare alle sempre più frequenti molestie sessuali di Alies, che vede nel sesso – soprattutto quello orale da parte di una sua subalterna – la manifestazione del suo potere.

Scopriamo così che per l’ultraconservatore Alies uno dei pilastri fondanti di un network è il corpo delle donne. Tutte quelle che vanno in onda devono indossare (regola ferrea ma non scritta) austere ma molto corte gonne grazie alle quali i telespettatori possano ammirare le loro gambe, anche durante i dibattiti politici.

La Carlson, dopo essere andata in onda volutamente senza trucco per far tornare l’attenzione dei suoi spettatori sulla sostanza delle notizie e non solo sulla loro forma, viene licenziata. Decide così di fare causa ad Alies per molestie sessuali affermando di essere stata licenziata perché non le ha assecondate. La Carlson, spera in cuor suo, che altre colleghe di Fox News la seguiranno…

Anche se questo film, scritto da Charles Randolph (premio Oscar nel 2016 per lo script de “La grande scommessa”), ha alcuni limiti proprio nella sceneggiatura, è comunque un ottimo documento sullo scandalo che ha investito Fox News nel 2016 portando alle dimissioni di Alies. La vicenda verrà seguita poco dopo dallo scandalo legato alle accuse contro Harvey Weinstein per molestie sessuali e stupro, accuse che sposteranno l’attenzione dalla televisione al cinema.

Negli Stati Uniti sono stati realizzati altri film (anche no fiction) sulla vicenda, ma questo di Roach tenta di sottolineare (forse riuscendoci solo in parte) come una donna venga segnata nel profondo da una molestia sul lavoro (e non) perché ormai da secoli siamo tutti abituati a pensare (donne e uomini) che la colpa sia soprattutto la sua, e che l’abusante abbia “solo” preso una “cosa” che era lì a disposizione, e probabilmente lecita vista la sua posizione dominante.

Il film, giustamente, ha vinto il Premio Oscar per il miglior trucco.

“Obsession – Complesso di colpa” di Brian De Palma

(USA, 1975)

Da molti Brian De Palma è considerato – a ragione – il vero erede cinematografico del maestro del brivido Alfred Hitchcock.

E guardando questa affascinante quanto angosciante pellicola non si può che condividere tale tesi, magari in silenzio e semplicemente annuendo, mentre si osserva sublimati l’ultima indimenticabile scena (che poi è un classico di De Palma – vedi pure Hitchcock – la sorpresa all’ultima scena).

Scritto dallo stesso regista insieme a Paul Schrader – uno dei migliori sceneggiatori americani di tutti i tempi (ha firmato, tanto per la fredda cronaca, script tipo “Taxi Driver”, “Toro scatenato” e “American gigolò”) – questo film sembra essere girato per ricordare a tutti che grande innovatore e che immortale regista era Hitchcock.

In più, come in ogni pellicola di De Palma, c’è sempre un po’ di Italia: qui il regista ci mette Firenze, ma soprattutto la bellissima e incantevole facciata di San Miniato al Monte.

Merita un plauso anche il cast con il bello hollywoodiano – in un più che dignitoso declino – Cliff Robertson, la giovane e davvero brava Geneviève Bujold, e il cattivo “infame” preferito da De Palma: John Lithgow, che poi ha mostrato le sue grandi doti comiche nella travolgente sit-com “Una famiglia del terzo tipo”, nonché donando la voce originale al perfido Lord Farquaad nel primo “Sherk”. Deve essere ricordata anche l’ottima fotografia curata da Vilmos Zsigmond.

Insomma, da rivedere anche se – e forse diventa anche meglio… – si conosce l’esito della scena finale.