“Ai confini della realtà” di Rod Serling

(USA, 1959-1964)

Rod Serling (1924-1975) è stata una delle figure più rilevanti del cinema e soprattutto della televisione americana del secondo Novecento. Anche se è stato l’autore di sceneggiature di film come “I giganti uccidono” o “Una faccia piena di pugni” (pellicola che ha segnato il cinema e la cultura degli Stati Uniti, tanto da influenzare lo stesso Sylvester Stallone per la stesura dello script di “Rocky” e Quentin Tarantino per quella di “Pulp Fiction”, solo per citarne due) il suo nome sarà per sempre legato alla serie televisiva antologica “Ai confini della realtà” che creò nel 1959 e che venne trasmessa dalla CBS fino al 1964.

Il 24 novembre del 1958 va in onda, per la serie antologica “Westinghouse Desilu Playhouse” l’episodio “L’elemento tempo” scritto da Rod Serling e diretto da Allen Reisner, in cui il protagonista è Pete Jansen (William Bendix), un uomo che rivela al suo medico il dottor Gillespie (Martin Balsam) che ogni notte rivive lo stesso sogno più che reale: essere a Honolulu le ventiquattro ore che precedono l’attacco di Pearl Harbour il 6 dicembre 1941. Il sogno si tramuta incredibilmente e inspiegabilmente in realtà…

Se gli spettatori di quegli anni sono avvezzi alla fantascienza, anche quella più semplice, nessuno invece ha mai visto niente di simile, un racconto fantastico più che fantascientifico, e al tempo stesso concreto e drammatico. Il successo è notevole tanto che la CBS decide di affidare al suo autore il compito di creare e seguire una vera e propria serie antologica con gli stessi toni e argomenti.

Il titolo Serling lo prende dal gergo aeronautico degli anni Quaranta e Cinquanta in cui “twilight zone” si riferisce all’effetto visivo per il quale, in determinate condizioni, la linea dell’orizzonte scompare alla vista del pilota per alcuni instanti durante l’atterraggio. Una zona di luci e ombre in cui è facile perdere l’orientamento.

Per presentare ogni puntata, che ha sempre attori nuovi e una storia indipendente dalle altre, Serling vorrebbe Orson Welles ma il cachet è troppo alto per il budget fissato dalla produzione, interpella poi Richard Egan che però ha appena firmato un contratto esclusivo per un film. Così, per affrettare i tempi e limitare le spese, viene stabilito che sarà lui stesso il presentatore.

Il 2 ottobre del 1959 va in onda il primo episodio della prima stagione “La barriera della solitudine”, scritto naturalmente dallo stesso Serling. Inizia così un nuovo genere televisivo e un nuovo modo di raccontare i sogni e gli incubi della società americana, oppressa in quegli anni dalla guerra fredda. Ma Serling, in anni in cui gli Stati Uniti erano ancora fortemente razzisti, riesce a parlare di tolleranza, uguaglianza e rispetto con originalità e intelligenza, soprattutto alle nuove generazioni che il venerdì sera rimangono attaccate alla televisione per poco più di venti minuti, il tempo di ciascun episodio, senza avere neanche il coraggio di sbattere le palpebre.

L’impatto è enorme e incredibilmente duraturo, visto che ancora oggi, a distanza di sessant’anni, tutti – o quasi – gli episodi continuano ad avere il loro fascino e la loro potenza narrativa. Per quanto concerne i piccoli di allora, basta ricordare due dei tanti fan che hanno più di una volta dichiarato che senza questa serie la loro vita e la loro arte non sarebbero state le stesse: George Lucas e Steven Spielberg.

Tanto che lo stesso Spielberg produce e dirige uno dei tre episodi del film “Ai confini della realtà“, dedicato e ispirato proprio alla serie di Serling, che realizza assieme a John Landis, George Miller e Joe Dante nel 1983.

Sono moltissimi gli attori, ma anche i registi, che giovani e ancora sconosciuti girano uno o più episodi che andranno in onda dal 1959 al 1964. Nomi come Robert Redford, Sidney Pollack, Ida Lupino (che reciterà nell’episodio della prima stagione “Il sarcofago” e dirigerà l’episodio “Le maschere” della quinta stagione, fra le prime donne in assoluto ad esordire dietro una telecamera), Peter Falk, Charles Bronson, Lee Marvin (interprete dell’episodio “La tomba” della terza stagione, che come alcuni altri, col passare del tempo, è diventato una vera e propria leggenda metropolitana), Robert Duvall, Dennis Hooper, Martin Landau, Art Carney, Cloris Leachman, Ron Howard (nei panni di un bambino nell’episodio “La giostra” della prima stagione), Paul Mazursky, Burt Reynolds, Jack Warden, Burgess Meredith (che poi vestirà i panni del primo allenatore di Rocky Balboa, ma che interpreterà alcuni episodi fra cui lo strepitoso “Tempo di leggere” andato in onda nella prima stagione), Kevin McCarthy (protagonista del bellissimo “Lunga vita a Walter Jameson”, ancora oggi molto citato), William Shatner (interprete di due episodi fra cui il famosissimo “Incubo a 20.000 piedi” diretto da un giovane Richard Donner) James Coburn, Lee Van Cleef o Telly Savalas, solo per citare i più famosi.

Senza parlare delle attrici e degli attori che diventeranno famosi, negli anni successivi, soprattutto nel piccolo schermo come Agnes Moorehead (interprete del delizioso “Gli invasori” della seconda stagione), Bill Bixby, George Takei, Jack Klugman, Elizabeth Montgomery, Roddy McDowall (protagonista del caustico “Gente come noi”) Claude Atkins e Jack Weston (questi ultimi due interpreti del bellissimo “Mostri in Marple Street”, fra i più significati e antirazzisti della serie che si schiera, neanche troppo velatamente, contro la famigerata “caccia alle streghe” maccartista di quegli anni).

A scrivere gli episodi delle prime stagioni, oltre a Serling, ci sono Charles Beaumont e Richard Matheson (autore, nel 1954, del bellissimo romanzo di fantascienza “Io solo leggenda” da cui sono stati tratti vari adattamenti cinematografici tra i quali, da ricordare, “L’ultimo uomo sulla Terra” e “1975: occhi bianchi sul pianeta Terra”, nonché la lunga serie di lungometraggi che parte da “La notte dei morti viventi” diretto da George Romero nel 1968 e passa per “28 giorni dopo” diretto da Danny Boyle nel 2002). Visto il clamoroso successo della serie però, nel corso degli anni, Serling venne citato in numerosissime cause per presunto plagio, cosa che alla fine lo costrinse a cedere i diritti di “Ai confini della realtà” direttamente alla CBS.

Amareggiato, Rod Serling si dedicò a serie con i toni più marcati dell’orrore, fino al 28 giugno del 1975 quando, mentre stata tagliando l’erba del suo giardino, venne stroncato da un infarto a soli 50 anni. Certo, oggi è difficile non associare la sua improvvisa e fulminante morte alle sigarette che aveva sempre in mano, anche quando presentava gli episodi della sua serie più famosa e nella quale divenne anche il testimone di una nota fabbrica di tabacco, o nelle varie foto che lo ritraggono nella vita di tutti i giorni.

Se Serling ha conosciuto il successo e la stima dei suoi contemporanei, non ha potuto apprezzare quelli delle generazioni successive che ancora oggi amano profondamente la sua opera.

Vera pietra miliare della televisione e dell’immaginario collettivo del Novecento, “Ai confini della realtà” è una serie immortale e da vedere e rivedere ad intervalli regolari.

“Luv vuol dire amore?” di Clive Donner

(USA, 1967)

Nel 1964 furoreggia a Broadway “Luv”, commedia brillante scritta da Murray Schisgal (1926-2020) e diretta da Mike Nichols, che già aveva portato con successo sul palcoscenico le prime opere scritte dal grande Neil Simon.

Come spesso accade Hollywood decide di farne un film e sceglie un cast davvero di prim’ordine a partire dal Jack Lemmon nei panni di Harry Berlin, Peter Falk in quelli di Milt Manville ed Elaine May nelle vesti di Ellen Manville. Lemmon e Falk tornano a recitare insieme dopo l’esilarante “La grande corsa” diretto da Blake Edwards nel 1965. Per la May, invece, che diventerà nel corso degli anni una delle attrici, sceneggiatrici e registe più rilevanti degli Stati Uniti, rappresenta il primo vero e proprio ruolo da protagonista davanti alla macchina da presa.

Proprio assieme allo stesso Mike Nichols, la May negli anni Cinquanta formò un duo comico e cabarettistico indimenticabile e di enorme successo non solo a Broadway, tanto che le registrazioni dei loro spettacoli ancora sono ascoltate e studiate. Ma l’arte e il genio della May non si limitano solo al brillante: nel 1976, infatti, dirige lo stesso Peter Falk assieme a John Cassavetes nel duro e cupo “Mickey & Nicky” di cui firma anche la sceneggiatura.

Ma torniamo alla pellicola di Donner che si apre su uno dei lunghissimi ponti che collegano Manhattan al resto della città. Lo sconsolato e depresso Harry Berlin cammina senza una meta fino a quando trova una panchina dalla quale sale sul parapetto del ponte con l’intenzione di gettarsi nel fiume Hudson. Ma proprio mentre Harry sta per lanciarsi arriva su uno scooter un uomo che si ferma per osservare un vecchio paralume che qualcuno ha gettato nel cestino dei rifiuti accanto alla panchina dove è salito Harry.

Fortunatamente l’uomo, che si chiama Milt, riconosce in Harry il suo vecchio compagno di college e lo convince a scendere per andare a bere qualcosa assieme. Nel pub Harry racconta al suo vecchio amico di come non creda più in nulla: la sua vita è vuota visto che non ha mai incontrato l’amore. A Milt viene in mente un’idea che risolverebbe i problemi a entrambe: andare a cena da lui e conoscere sua moglie Ellen.

Il loro matrimonio è ormai in crisi e Milt si è innamorato della bella, giovane e assai prosperosa insegnante di ginnastica Linda (Nina Wayne). Se Harry riesce a far innamorare Ellen, questa gli concederà il divorzio permettendogli così finalmente di sposare Linda. Ma, come dice un vecchio detto: i piani (…soprattutto in amore) li rispetta solo l’ascensore…

Divertente commedia sopra le righe nella quale si respira ancora oggi l’aria frizzante dei Sessanta e dove si parla con serenità, senza ipocrisia o falsi moralismi, di sessualità e di omosessualità. Un piccolo gioiellino, forse un pò troppo legato al mondo di allora, che però rimane godibile fino all’ultimo fotogramma soprattutto per il suo splendido cast.

Per la chicca: nei panni di uno scorbutico automobilista che colpisce dritto sul naso il povero Harry c’è un giovane e allora sconosciuto Harrison Ford, che proprio in quel periodo stava facendo i provini col maestro Stanley Kubrick per il ruolo da protagonista di “2001: odissea nello spazio”. Ruolo che poi venne affidato a Keir Dullea.

“Mikey & Nicky” di Elaine May

(USA, 1976)

La geniale e poliedrica artista Elaine May – a cui quest’anno è stato assegnato l’Oscar alla carriera – scrive e dirige questa originale e claustrofobica pellicola noir centrata sul rapporto decennale, ma al tempo stesso irrisolto, fra due uomini.

Mickey (Peter Falk) e Nicky (John Cassavetes) si conoscono sin dall’infanzia passata soprattutto per la strada. Così, quando il secondo si è chiuso in una stanza d’albergo per paura di essere freddato dal killer del boss a cui ha rubato dei soldi, l’unico che può chiamare in aiuto è Mickey.

I due inizieranno un lungo viaggio in una cupa e opprimente notte newyorkese cercando di sfuggire alla vendetta del boss, per il quale lavorano entrambi. Ma tutti i nodi del loro rapporto e delle rispettive esistenze verranno al pettine…

Con una scena finale dura come un pugno nello stomaco e le straordinarie interpretazioni dei due protagonisti – amici anche nella vita reale – davvero da Oscar e Golden Globe (ma che invece in tali sedi furono vergognosamente ignorati), “Mickey & Nicky” è un gioiello del cinema americano indipendente degli anni Settanta, di cui – non a caso – lo stesso Cassavetes era l’autore di spicco.

La May ci racconta un mondo tutto al maschile dove le donne, che possono aspirare al massimo a essere mogli o amanti, devono inesorabilmente adattarsi a quello che gli uomini voglio o dicono. Da ricordare, per questo, l’interpretazione di Carol Grace (seconda moglie di Walter Matthau – che con la stessa May dirige nel delizioso “E’ ricca, la sposo e l’ammazzo” solo quale anno prima – nonché amica personale di Truman Capote tanto da aver ispirato, raccontano le cronache del tempo, il personaggio di Holly Golightly, protagonista del suo romanzo “Colazione da Tiffany”) nel ruolo di Nellie, l’amante di Nickey. Nel cast anche un arcigno Ned Beatty.     

Davvero una pellicola insolita e originale, da vedere o rivedere perché sempre molto attuale, anche se nel nostro Paese è assai difficile da reperire, anche nel mondo dell’usato.

“Questa volta è la mia storia” di Neil Simon

(Excelsior 1881, 2007)

Questa bellissima autobiografia è stata pubblicata per la prima volta da Neil Simon (1927-2018) nel 1996 ed è approdata nelle nostre librerie, incredibilmente, solo nel 2007. Sul motivo di questo inspiegabile ritardo si scervelleranno i posteri, anche se al momento sembra alquanto difficile che le future generazioni italiche la potranno leggere visto che ormai è fuori catalogo e per reperirla bisogna rivolgersi al mondo dell’usato.

Io sono uno scrittore “self-made”, che si autopubblica, e quindi non so proprio spiegarmi perché questo libro sia stato ignorato dalla nostra editoria tradizionale con la quale, …ahimè, non ho contatti. Magari fra cinquant’anni, con l’eventuale pubblicazione dei segreti più oscuri della nostra Repubblica la mia discendenza lo scoprirà. Ma al momento rimane davvero un mistero insondabile il motivo della scomparsa italiana dell’autobiografia di uno dei più famosi drammaturghi del Novecento, ancora oggi tanto messo in scena quanto imitato citato e copiato.

Il libro si apre nella primavera del 1957 quando il neanche trentenne Neil Simon, già affermato autore televisivo, decide di scrivere la sua prima commedia teatrale. Il motivo, oltre a quello di sentire il sacro fuoco del palcoscenico, è di tornare a vivere e lavorare a New York, la sua città natale, visto che la ricca televisione paga bene sì, ma in quegli anni ha il suo cuore pulsante a Los Angeles.

Con l’appoggio incondizionato di sua moglie Joan Baim, Neil inizia quel percorso – che lo renderà uno degli autori teatrali più famosi del suo tempo – digitando sulla sua macchina da scrivere il titolo: “S E N Z A U N A S C A R P A”.

Seguiamo così l’evolversi della sua prima commedia – che subisce non meno di una settantina di riscritture – e andrà in scena col titolo definitivo “Alle donne ci penso io”. Come le successive, molte di clamoroso e planetario successo, anche la prima è ispirata da persone o eventi che l’autore conosce o vive direttamente. Così “Alle donne ci penso io” nasce dall’approccio con l’altro sesso di suo fratello maggiore Danny, insieme al quale egli stesso farà i primi passi come autore comico dilettante.

Non a caso Danny Simon, oltre che per il fratello Neil, è stato un mentore per molti grandi comici e autori di quella generazione come per esempio Woody Allen che lo ricorda nella sua altrettanto splendida autobiografia “A proposito di niente“.

Così se “A piedi nudi nel parco” nasce dai veri primi tempi del matrimonio fra lui e Joan, “La strana coppia” è ispirata ancora una volta a suo fratello Danny che, dopo essersi separato, per motivi economici era andato a vivere assieme a un amico anche lui divorziato. Per questo, ci racconta Neil, una parte delle royalty che fruttava la commedia andavano anche a Danny.

Ma soprattutto Neil Simon ci racconta come era facile per lui scrivere, ma terribilmente complicato arrivare poi a mettere in scena il suo testo. Per questo, fortunatamente, ha avuto la fortuna di incontrare artisti di primissimo livello come Mike Nichols, che ha diretto le prime edizioni delle sue commedie più famose (come “A piedi nudi nel parco”, “La strana coppia” o “Prigioniero della Seconda Strada”) o Bob Fosse (per il quale Simon scrisse il testo del musical “Sweet Charity”) che alla festa dopo la prima a Broadway di “A piedi nudi nel parco”, visto il clamoroso successo, fece il brindisi sibillino: “…a Neil e all’ultima serata in cui avrà amici sinceri”.

E naturalmente tutti i grandi attori che per primi hanno portato i suoi personaggi, le sue storie e le sue immortali battutte sulle assi di un palcoscenico come Robert Redford, Walther Matthau, Art Carney, George C. Scott, Marsha Mason o Peter Falk.

Un viaggio nei primi venticinque anni della carriera splendente di Simon, che non a caso si conclude con la fine del matrimonio con la Baim. Un’autobiografia irresistibile e al tempo stesso dura e cruda, molto simile nella forma e nella sostanza a quel “A proposito di niente” già citato. Come il libro di Allen, reputo anche questa autobiografia di Simon un “manuale” indispensabile per chi ama scrivere, oltre che leggere, magari da sistemare accanto a “On Writing – Autobiografia di un mestiere” del maestro Stephen King.

“Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders

(Germania Est/Francia, 1987)

Come quasi tutti i film realizzati dai fondatori del Nuovo cinema tedesco, anche questa bellissima pellicola di Wim Wenders è colma del senso di colpa e di disperazione figli dell’immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale, dove la Germania di Hitler ebbe un ruolo – insieme al Regno d’Italia di Mussolini, ovviamente – cruciale e drammaticamente attivo.

Così la Berlino che ci racconta Wenders è prima di tutto la città tagliata in due dal muro, muro che è presente in quasi ogni scena (e che viene ricostruito dove non è possibile girare per motivi di sicurezza). Dopo otto anni passati negli Stati Uniti, Wenders torna a Berlino il cui cielo è pieno di angeli, che hanno il compito soprattutto di ricordare. Uno di questi, Damiel (Bruno Ganz), innamoratosi di Marion (una felliniana artista circense interpretata da Solveig Dommartin) decide di abbandonare i suoi celestiali abiti e diventare umano per amarla. A convincerlo è l’attore Peter Falk (che veste i panni di se stesso) a Berlino per girare un film ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, e che gli rivela di essere stato, trent’anni prima, anche lui un angelo…

Una indimenticabile e struggente metafora della vita e soprattutto della voglia di vivere.        

Fra i personaggi memorabili che anche l’anziano Homer, interpretato dall’attore tedesco Curt Bois, anziano poeta non vendete che vaga per la città in cerca di Potsdamer Platz, una delle piazze più belle della città prima del conflitto, ed ora divenuta solo un grande spazio vuoto attraversato da alcune superstrade.  

Bois è stato uno dei più longevi artisti tedeschi che recitò per la prima volta davanti ad una macchina da presa a soli sette anni, arrivando a essere diretto anche dal maestro Ernst Lubitsch nel suo indimenticabile “La principessa delle ostriche”. Nel 1934, a causa delle leggi razziali imposte da Hitler, Bois di religione ebraica lasciò la Germania per gli Stati Uniti dove continuò la sua carriera e nel 1942 recitò in “Casablanca” di Michael Curtiz, interpretando un elegante borseggiatore che nella nostra versione venne doppiato da un giovane Alberto Sordi.

Per scrivere il film Wenders si è consultato durante le riprese con Peter Handke, suo vecchio amico, nonché (contestato) Premio Nobel per la Letteratura nel 2019. Come per “Paris, Texas” anche per questo film Wenders prima di iniziare le riprese non aveva una vera e propria sceneggiatura, ma solo un’idea.

Per la chicca: nel 1998 venne prodotto a Hollywood il remake “City of Angels – La città degli angeli” diretto da Brad Silberling e interpretato da Nicholas Cage e Meg Ryan che ha davvero molto poco a che fare con l’opera di Wenders, e di cui i posteri ricorderanno soprattutto la canzone “Iris” interpretata dai Goo Goo Dolls, tratta dalla colonna sonora.

La confezione contiene due dvd, uno col film e la versione in italiano con il grande Riccardo Cucciolla che dona la voce a Damiel, e l’altro con una ricca sezione di contenuti extra contenente un divertente spot con lo stesso Wenders che insieme a Curt Bois presenta una retrospettiva a lui dedicata; le scene tagliate e commentate dal regista; un’intervista a Wenders e alla Dommartin (scomparsa prematuramente nel 2007) fatta sull’Intercity Roma-Bologna da Mario Canale nel dicembre del 1987; un’intervista a Peter Falk fatta durante il Festival di Cannes del 1987 in cui parla del suo rapporto col cineasta tedesco; il trailer originale e quello in italiano; e il breve ma imperdibile documentario con le riprese a colori effettuate dalle truppe Alleate nel luglio del 1945 che ci raccontano di una Berlino quasi rasa al suolo, ancora senza muro, e le cui riprese aeree ricordano molto quelle del film.    

“La grande corsa” di Blake Edwards

(USA, 1965)

Il maestro della commedia americana Blake Edwards dirige la coppia dell’immortale “A qualcuno piace caldo” in un’altra pellicola in costume.

Stati Uniti 1908: uno dei più grandi intrattenitori nazionali è il Grande Leslie (Tony Curtis) che con le sue acrobazie incanta centinaia di persone sfidando la morte, sempre in un impeccabile abito bianco. Suo acerrimo nemico è il Professor Fato (un esilarante Jack Lemmon), vestito immancabilmente di nero che, con il suo assistente Carmelo (un altrettanto spassoso Peter Falk, che in originale si chiama Maximilian) tenta vanamente di boicottare le sue imprese.

Il Grande Leslie, che ama la velocità e le automobili, propone ai più grandi costruttori di macchine americani di indire una corsa intercontinentale che partirà da New York per raggiungere Parigi. E per tale gara costruirgli un’automobile fatta a posta per lui. L’evento ha subito un’eco straordinaria e alla competizione si iscrive, ovviamente, anche il professor Fato. Fra i concorrenti c’è anche la giornalista suffragetta Maggie Dubois (Natalie Wood) personaggio ispirato alla vera Nellie Bly. Ma…

Esilarante commedia road movie con le classiche scene e gag di massa che si incastrano alla perfezione, scene di cui il regista era un maestro assoluto. Scritta dallo stesso Edwards assieme ad Arthur A. Ross, “La grande corsa” si ispira ad una vera gara partita da New York e finita a Parigi, svoltasi nel 1908, ma per il resto è tutto frutto della fantasia dei suoi autori che omaggiano in ogni scena il grande cinema comico muto, fatto di geniali trovate fisiche e visive. Non è un caso, quindi, la dedica che Edwards scrive prima dei titoli di testa “ai Signori Stan Laurel & Oliver Hardy”.

A parte, il divertente richiamo al film “Il prigioniero di Zenda” del 1952 (tratto dal romanzo di Anthony Hope) grazie al quale Lemmon interpreta straordinariamente il doppio personaggio del Professor Fato e dell’eccentrico Principe Frederick Hoepnick.

Per la chicca: visto il successo al botteghino, nel 1968 la Hanna-Barbera produsse una serie animata per la tv ispirata – non ufficialmente – al film. Si tratta di “Le Corse Pazze”, che in originale è “Wacky Race”, con il memorabile e perfido Dick Dastardly e il suo assistente Muttley che molto devono al Professor Fato e Carmelo.

Nella nostra versione originale c’è lo straordinario doppiaggio fatto da Giuseppe Rinaldi che dona la voce a Lemmon, Pino Locchi a Curtis e Valeria Valeri alla Wood.

Peter Falk

Il 16 settembre del 1927 nasce a New York Peter Michael Falk in una famiglia ebraica di origini polacche, russe, ungheresi e ceche. A tre anni, a causa di una grave patologia oculare, il piccolo Peter subisce l’asportazione dell’occhio destro. L’evento cambia per sempre i suoi connotati e sembra stridere con la futura carriera d’attore. Ma proprio quello strano e particolare sguardo diventerà il suo tratto distintivo.

Gli inizi però non sono semplici. Durante un casting, per esempio, il fondatore della Columbia Pictures Harry Cohn lo boccia dicendo una frase che lo stesso Falk ricorderà spesso: “Con gli stessi soldi posso avere un attore con due occhi”.

Ad accorgersi delle possibilità recitative di Falk non è il cinema ma la televisione. L’attore newyorkese, infatti, approda alla fine degli anni Cinquanta in alcune delle serie tv che di fatto faranno la storia della fiction americana come “Alfred Hitchcock presenta” e “Ai confini della realtà”.

Grazie all’esperienza acquisita e alla sua bravura nel 1961 Frank Capra lo sceglie per il suo “Angeli con la pistola”, nel ruolo secondario di Carmelo. Così, nonostante le origini mitteleuropee, Peter Falk diventa famoso al grande pubblico come il classico immigrato italiano di “Broccolino”.

Seguono numerosi ruoli secondari nei panni di personaggi sulla linea di Carmelo in film come “Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo” di Stanley Kramer (1963) o “La grande corsa” di Blake Edwards (1965).  

Ma è nuovamente il piccolo schermo a dare a Falk l’occasione giusta, quella per diventare finalmente protagonista assoluto. Nel 1968 gira il pilota della serie poliziesca “Columbo” (che da noi diventa “Colombo”) in cui interpreta un tenente italoamericano (…sob!) della squadra omicidi del LAPD, dall’incredibile intelligenza deduttiva nonostante l’aspetto trasandato e distratto.

Nel 1971, dopo un secondo pilota, viene prodotta definitivamente la prima serie, e a dirigere il primo episodio viene chiamato un giovanissimo e sconosciuto Steven Spielberg. Il successo è clamoroso, tanto da portare la produzione a realizzare sette stagioni consecutive, quattro film direttamente per il grande schermo e uno spin-off dal titolo “Mrs. Columbo” dedicato alle (improbabili…) imprese investigative della “fantomatica” moglie del tenente.

Sul set della serie Falk ha modo di conoscere John Cassavetes (omicida nella puntata “Concerto con delitto”) maestro del cinema indipendente americano che per produrre i suoi film recita (è il protagonista, per esempio, del mitico “Contratto per uccidere” del maestro Don Siegel). Falk così partecipa a ottime pellicole come “Mariti”, “Una moglie” e “La sera della prima” tutte dirette dall’amico Cassavetes.

Il successo televisivo permette a Falk di scegliere i ruoli per il grande schermo e lui, da grande attore, passa con bravura da quelli più drammatici dei film di Cassavetes a quelli tipici della commedia come in “Invito a cena con delitto” (1976) di Robert Moore, “Mikey e Nicky” (1976) della grande Elaine May , “Una strana coppia di suoceri” (1979) di Arthur Hiller o quello del vecchio manager nel bellissimo “California Dolls” (1981) di Robert Aldrich. Ma Falk si cimenta anche nel poliziesco con l’avvincente “Pollice da scasso” (1978) di William Friedkin.

Nel 1987 Wim Wenders lo vuole nel suo sublime “Il cielo sopra Berlino” e nel sequel “Così lontano, così vicino” del 1993. Sempre nel 1987 Falk partecipa a un fantasy che all’uscita nelle sale non ottiene un particolare riscontro ma che oggi è diventato un vero e proprio cult: “La storia fantastica” diretto da Rob Reiner.

Nel 1996 è accanto a Woody Allen nel film per la tv “I ragazzi irresistibili”, nuovo adattamento della famosa commedia di Neil Simon, diretto da John Erman.

Nel frattempo, dal 1989, Falk è tornato a vestire i panni del tenente Colombo nelle nuove stagioni che riscuotono sempre un buon successo di pubblico. Nel 2003 le avventure di Colombo si chiudono definitivamente e l’attore dirada i suoi impegni lavorativi a causa di ricorrenti amnesie.

Nel 2008 gli viene diagnosticato definitivamente il morbo di Alzheimer, e l’attore si ritira nella sua villa di Beverly Hills. Purtroppo le sue ultime immagini pubbliche vengono catturate da alcuni fotografi mentre è in strada smarrito, prigioniero e sfigurato dalla malattia degenerativa. Peter Falk muore poco dopo, il 23 giungo del 2011.

Chiamarlo caratterista è davvero troppo riduttivo, visto che è stato uno dei volti più noti del cinema e della televisione del Novecento. Se è vero che Falk deve molto al piccolo schermo, è vero anche che la sua bravura e la sua classe hanno contribuito a nobilitare la fiction televisiva.

Infine, è giusto ricordare Giampiero Albertini, indimenticabile voce italiana di Falk e del tenente Colombo fino al 1991.  

“Una strana coppia di suoceri” di Arthur Hiller

(USA, 1979)

Ci sono commedie leggere che rimangono indimenticabili, anche senza sviscerare temi o situazioni da prima pagina. E questa scritta da Andrew Bergman (autore del soggetto e coautore della sceneggiatura di “Mezzogiorno e mezzo di fuoco” di Mel Brooks) e diretta da Arthur Hiller (regista artigiano di film come “Love Story”, “Un provinciale a New York” e “Non guardarmi: non ti sento”) alla fine degli anni Settanta è un esilarante esempio.

Il razionalissimo, e forse un po’ nevrotico, dentista Sheldon Kornpett (una fantastico Alan Arkin) ha tutto sotto controllo nella vita. Il suo lavoro, il suo studio e soprattutto la sua vita privata fatta dalla moglie Carol e dalla sua unica figlia Barbara, che frequenta i college più esclusivi.

I problemi arrivano quando la sua “bambina” decide di sposarsi con Tommy Ricardo, un compagno di studi. Infatti, l’incontro tra futuri consuoceri lascia tremendamente perplesso Sheldon, visto che il padre di Tommy, Vince (un altrettanto fantastico Peter Falk) è un tipo molto strano, che racconta cose molto strane.

Il giorno dopo Vince piomba nello studio del dentista e gli chiede di seguirlo solo per un paio di minuti, ha bisogno del suo aiuto per risolvere un piccolo problema logistico.

Il povero Sheldon, a causa di Vince, finirà inseguito dai Federali, e nel bel mezzo di un complotto internazionale…

Fra mille gag e battute divertenti, quello che è ancora oggi irresistibile è lo scontro fra i due protagonisti, il calmo ma mai domo Vince, e il nevrotico e incredulo Sheldon.

Questo soprattutto grazie ai veri talenti dei due protagonisti, attori di gran classe. Se Alan Arkin ha vinto l’Oscar nel 2007, come miglior attore non protagonista nei panni del nonno tossicodipendente in “Little Miss Sunshine”, giusto riconoscimento a una lunga carriera fatta soprattutto di pellicole di qualità; è inspiegabile invece perché Peter Falk non ne abbia mai vinto uno.

Per la chicca: nel 2003 Andrew Fleming gira il remake dal titolo in italiano “Matrimonio impossibile” (quello originale rimane lo stesso) con Michael Douglas nei panni del personaggio interpretato da Falk, e Albert Brooks in quelli di Arkin.