“La ragazza del quartiere” di Robert Wise

(USA, 1962)

C’è una magia particolare nel cinema di Robert Wise, un equilibrio tra la profondità delle storie che racconta e la maestria con cui le mette in scena. “La ragazza del quartiere” – il cui titolo originale è “Two for the Seesaw”, dove Seesaw identifica l’altalena dei sentimenti di un rapporto irrisolto – con Robert Mitchum e Shirley MacLaine, è un esempio perfetto di questo suo talento.

Tratto dall’omonima opera teatrale di William Gibson (1914-2008) – che andò in scena per la prima volta nel gennaio del 1958 e vide l’esordio sul palcoscenico della giovane Anne Bancroft nei panni di Gittel, ruolo per il quale l’attrice vinse il suo primo Emmy, affiancata da Henry Fonda in quelli di Jerry – il film trasporta sullo schermo la complessità emotiva di una storia d’amore intensa e tormentata, resa indimenticabile dalle interpretazioni dei due protagonisti.

La trama segue l’incontro tra Jerry Ryan (Robert Mitchum), un avvocato divorziato, e Gittel Mosca (Shirley MacLaine), una ballerina di New York che lotta per sbarcare il lunario. Jerry, appena arrivato in città dopo aver lasciato Omaha, il Nebraska e un matrimonio fallito, si trova a navigare le acque turbolente di una nuova vita. Gittel, invece, è una giovane donna vivace ma fragile, il cui passato doloroso non smette di condizionarle il presente. L’incontro tra queste due anime ferite dà vita a una relazione tanto passionale quanto instabile, fatta di alti e bassi, di momenti di dolcezza e scontri dolorosi.

La scelta di Robert Mitchum come protagonista maschile potrebbe sembrare insolita, dato il suo passato cinematografico fatto di ruoli duri e impassibili, come nelle pietre miliari “Il tesoro di Vera Cruz”, “Le catene della colpa”, “La morte corre sul fiume” e “Odio implacabile”. Eppure, in “La ragazza del quartiere”, Mitchum dimostra una sorprendente vulnerabilità. Il suo Jerry è un uomo spezzato, alla ricerca di un senso di appartenenza che sembra sfuggirgli continuamente. Shirley MacLaine, invece, con la sua energia contagiosa e il suo sguardo malinconico, riesce a incarnare perfettamente il personaggio di Gittel, una donna che lotta per non soccombere alla solitudine e all’amarezza.

La splendida fotografia in bianco e nero di Ted McCord è un altro elemento che merita una menzione speciale. Il film sfrutta al meglio le ombre e i contrasti, creando un’atmosfera che amplifica la tensione emotiva tra i due protagonisti. New York, con i suoi appartamenti angusti e le sue strade affollate, diventa quasi un personaggio a sé stante, un luogo che rispecchia le emozioni turbolente di Jerry e Gittel.

Ma è la regia di Wise a fare davvero la differenza. Il regista sa quando lasciar respirare le scene, permettendo ai suoi attori di esplorare a fondo i loro personaggi, e quando invece intensificare il ritmo per sottolineare i momenti di conflitto. Il risultato è un film che, pur mantenendo le sue radici teatrali, riesce a sfruttare appieno le potenzialità del linguaggio cinematografico.

“La ragazza del quartiere” è un film che parla di amore e di perdita, di speranza e di disillusione, ma soprattutto di due persone che cercano disperatamente di trovare un posto nel mondo, anche se solo temporaneo. È un’opera toccante e profondamente umana, resa ancora più potente dalle performance straordinarie di Mitchum e MacLaine, e dalla regia impeccabile di Wise.

Se non l’avete ancora visto, vi consiglio caldamente di farlo. È uno di quei film che, una volta terminati, vi lasciano un segno profondo, facendovi riflettere sulle complessità delle relazioni umane e sulla fragilità dell’esistenza.

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“L’ultima follia di Mel Brooks” di Mel Brooks

(USA, 1976)

La quinta pellicola diretta da Mel Brooks, dal titolo originale “Silent Movie”, non doveva avere neanche una colonna sonora. Solo la parola “No!” detta dal grande mimo francese Marcel Marceau avrebbe dovuto toccare le orecchie degli spettatori in sala durante la proiezione. Questo proprio per omaggiare i film muti dei primi decenni del Novecento dei quali erano maestri indiscussi Buster Keaton, Mack Sennett (il primo produttore e regista del maestro Charlie Chaplin e di molti altri pionieri della macchina da presa dell’epoca) e Hal Roach, scopritore e storico produttore, tanto per fare due nomi, di Stan Laurel e Oliver Hardy. 

Ma alla fine la 20th Century Fox, che già aveva forti perplessità sul realizzare in pieni anni Settanta un film muto per la grande distribuzione, si impose e Brooks dovette accettare la colonna sonora. Nonostante lo scetticismo il film fu un successo al botteghino ricordando – come fece “The Artist” di Hazanavicius quasi quarant’anni dopo – quanto il sonoro sia “solo” una parte del film, e che a volte può anche mancare ma non per questo la pellicola non esprima forti emozioni o faccia ridere a crepapelle nella grande tradizione della farsa che alla fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento dominava i teatri di tutto il mondo per poi approdare sul grande schermo, regalandoci dei veri e propri capolavori immortali che, anche a distanza di oltre un secolo, brillano e possiedono intatto tutto il loro fascino.

Ispirandosi alla reale scalata della Paramount Pictures da parte di una grande industria di estrazione, Brooks ci racconta la “redenzione” del regista Mel Spass (interpretato dallo stesso Brooks) caduto in disgrazia a causa del suo alcolismo che, assieme i suoi fedeli amici Bellocchio (Marty Feldman) e Trippa (Dom DeLuise) propone al capo della Big Picture Studios (Sid Caesar, noto comico e autore televisivo degli anni Cinquanta e Sessanta per il quale lo stesso Brooks, per un periodo anche assieme a Woody Allen, scrisse numerosi sketch televisivi) il suo nuovo progetto per un film muto.

Intanto, la famelica multinazionale “Trangugia & Di Vora” vuole rilevare la Big Pictures Studios e i suoi titolari Trangugia (Harold Gould) e Di Vora (Ron Carey) sono disposti a tutto pur di avere quello che vogliono. Così, quando vengono a sapere del progetto di Spass e del fatto che lui vuole scritturare divi del calibro di Paul Newman, Burt Reynolds, Anne Bancroft, Liza Minnelli e James Caan decidono di usare le maniere forti…

Spassosa pellicola scritta da Brooks assieme ai suoi collaboratori preferiti del periodo quali Ron Clark, Rudy De Luca e Barry Levinson, colma di gag e scene tipiche dei film basati sulla farsa e la comicità tipica del vaudeville. Spass, Trippa e Bellocchio nelle loro dinamiche richiamano, infatti, ai Tre Marmittoni, trio comico creato da Hal Roach e protagonista di numerosi film dell’epoca.  

Gioiellino delizioso dell’epoca d’oro di Brooks da tenere nella propria videoteca accanto a “Frankenstein Junior“, “Mezzogiorno e mezzo di fuoco” e “Alta tensione“.

“Prigioniero della Seconda Strada” di Melvin Frank

(USA, 1975)

Mel Edison (un grande Jack Lemmon) è un uomo di mezza età felicemente sposato con Edna (Anne Bancroft), con le figlie che frequentano un ottimo college, e un lavoro di responsabilità da oltre vent’anni, presso un’importante azienda newyorkese.

In una delle giornate più calde e afose dell’anno, inizia per Mel la sua personale discesa agli inferi: litiga con il vicino di casa che gli getta una secchiata d’acqua addosso nonostante l’acqua e la corrente arrivino a singhiozzo, il condizionatore è bloccato su 2 gradi, il suo appartamento viene svaligiato e, soprattutto, viene licenziato.

Grazie all’amore di sua moglie – e a una minacciosa e inquietante pala da neve… – però Mel riuscirà a riprendersi…

Ottima commedia intimista con due protagonisti davvero molto bravi, tratta da un pièce teatrale scritta dal grande Neil Simon nel 1971, e di cui lo stesso Simon cura la sceneggiatura. Nel cast, oltre a Lemmon e la Bancroft, spicca Gene Saks – nei panni del fratello maggiore di Mel – regista di “A piedi nudi nel parco” e “Fiore di Cactus”, nonché collaboratore stretto dello stesso Simon.

Per la chicca: nella pellicola appaiono in ruoli marginali F. Murray Abraham e un giovane e sconosciuto Sylvester Stallone che viene aggredito e picchiato dallo stesso Mel, proprio pochi mesi prima di iniziare a girare il suo primo “Rocky”.

Il dvd, fortunatamente, offre il doppiaggio originale fatto per l’uscita in Italia del film con le voci indimenticabili di Giuseppe Rinaldi e Anna Miserocchi, fra i più bravi doppiatori italiani di sempre.  

“Fatso – Pastasciutta …amore mio!” di Anne Bancroft

(USA, 1980)

Che Anne Bancroft fosse una donna con un grande senso ironico non è certo un mistero, visto che è stata la compagna di vita di Mel Brooks, ma che fosse in grado di scrivere, dirigere e interpretare una deliziosa commedia come “Fatso – Pastasciutta …amore mio!” era forse meno evidente.

La Bancroft, il cui vero nome era Anna Maria Louise Italiano, non ha mai nascosto le sue origini italiane, e in questo film le rivendica tutte, con pro e contro annessi.

Dominick Di Napoli (un grande Dom DeLuise) gestisce placidamente una cartoleria a Brooklyn insieme alla sorella Antonietta (la Bancroft). La vita di Dominick ruota intorno a tre pilastri: la famiglia (vive infatti col fratello minore Frankie, anche lui scapolo, nell’appartamento sopra a quello dove abita la sorella con marito e figli), il lavoro e – da italoamericano DOC – il cibo.

La vita dei Di Napoli viene però sconvolta dalla morte improvvisa del loro cugino Salvatore, che a soli 39 anni viene stroncato da un malore causato dalla sua grave obesità. Visto che anche Dom ha svariati chili di troppo, Antonietta lo costringe a rivolgersi a un implacabile dietologo.

Per qualche tempo l’uomo riesce a seguire la dieta ferrea ma poi, una notte, cede vanificando tutti i suoi sacrifici. Casualmente una cliente del negozio gli suggerisce i “Chubby Checkers”, una sorta di Anonima Obesi grazie alla quale lei è riuscita a dimagrire alcune decine di chili.

Dom partecipa agli incontri sentendosi subito rincuorato, ma una notte un incontenibile attacco di voracità lo porta a minacciare il fratello con un coltello pur di avere le chiavi del lucchetto che blocca il frigorifero e i pensili della cucina. Frankie, preoccupatissimo, chiama in soccorso Oscar e Sonny, i tutor del fratello, che si precipitano a casa Di Napoli. Ma l’obesità è una brutta bestia – sigh! – e a forza di parlare di cibo Dom, Oscar e Sonny rompono i lucchetti e svuotano la dispensa.

Disperata, la mattina seguente, Antonietta tenta l’ultima carta: l’amore. E così corre a chiamare Lydia (Candice Azzara), la giovane proprietaria di un negozio di antiquariato vicino al loro, della quale Dom è platonicamente innamorato.

La cosa sembra funzionare fino a quando, una terribile sera, Lydia misteriosamente scompare facendo precipitare Dom in un abisso di cibo (cinese)…

Una dichiarazione d’amore verso gli obesi e i diversi in generale, fatta con molto garbo e tanta ironia. E pensare che la Bancroft non ha mai avuto problemi di peso, lei che è stata – e nell’immaginario collettivo lo è ancora – un sex-symbol e una delle dark lady più famose di Hollywood dando viso e corpo – e che corpo! – alla famigerata Mrs. Robinson de “Il laureato”.

In tutta la sua carriera, e in questo film in particolare, Anne Bancroft ci ricorda che non bisogna essere per forza obesi o diversi per essere sensibili. Una grande!

Purtroppo oggi è praticamente impossibile rivedere questo gioiellino di film. Non esiste un’edizione in DVD in italiano e sono anni – se non decenni… – che non viene trasmesso in televisione.

Io possiedo un rarissimo VHS che ormai si sta letteralmente sbriciolando, sob!

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“Cercando la Garbo” di Sidney Lumet

(USA, 1984)

Estelle Rolfe (una grande Anne Bancroft) è una signora volitiva, pronta a combattere ogni tipo di ingiustizia nel mondo.

Questo suo carattere le è costato molte cose nella vita, fra cui il marito che da un decennio si è risposato, ma non l’amore del suo unico figlio Gilbert (Ron Silver), mite contabile in una grande società, e sposato con la viziata ed egocentrica Lisa (un’antipatica quanto brava Carrie Fisher).

L’equilibrio nella vita di Gilbert viene però travolto da una tremenda scoperta: la madre ha un cancro al cervello non operabile, e le rimangono pochi mesi di vita. Arrabbiata, ma non disperata, Estelle ha un solo desiderio prima di morire: conoscere Greta Garbo, il mito della sua vita.

Per accontentarla Gilbert sarà costretto a fare un viaggio, soprattutto dentro se stesso, che lo cambierà per sempre.

Il maestro Sidney Lumet firma questa deliziosa e malinconica pellicola sull’amore materno, sul senso della vita e suoi sogni che ognuno coltiva nell’intimo, ma anche su uno dei più grandi miti del Novecento: la divina Greta Garbo.

Sono passati più di settant’anni dall’uscita dell’ultimo film interpretato dalla diva svedese, ma il suo fascino da dea è ancora intatto.

Provate a rivedere la scena delle risate in “Ninotchka” senza alzare involontariamente il sopracciglio, e ne riparliamo…