“L’appartamento” di Billy Wilder

(USA, 1960)

C.C. Baxter (uno straordinario Jack Lemmon) è uno degli oltre trentamila dipendenti della compagnia assicurativa che ha la sua sede in uno dei grattacieli più grandi nel centro di Manhattan. Per evitare inutili e prolissi affollamenti, per tutti i numerosissimi impiegati – che superano in numero gli abitanti di Gallarate… – gli orari di entrata e di uscita sono scaglionati.

Nonostante questo, e perché alla propria anonima scrivania si può lavorare e basta in piena solitudine, uno dei maggiori punti d’incontro fra i dipendenti sono gli ascensori stessi, manovrati da un apposito personale. Baxter, quando ci riesce, preferisce sempre prendere quello alla cui pulsantiera c’è Fran Kubelik (Shirley MacLaine) per la quale non nasconde un debole.

Ma oltre Miss Kubelik, Baxter ha altri importanti progetti, come quello di diventare il prima possibile dirigente. Avendo intuito che le sue capacità probabilmente potrebbero non bastare, Baxter ha trovato, quasi per caso, una strada alternativa.

Visto che non è sposato e vive da solo, presta il suo piccolo appartamento in affitto ad alcuni dirigenti che lì possono consumare i propri incontri extraconiugali. I problemi inizieranno quando l’alto dirigente Jeff D. Sheldrake (Fred MacMurray) gli chiederà l’appartamento per i suoi incontri clandestini proprio con Miss Kubelik…

Billy Wilder scrive, assieme a I.A.L. Diamond, e poi dirige una delle commedie sentimentali più divertenti e al tempo stesse graffianti della seconda metà del Novecento. Perché il grande cineasta punta il dito sull’esasperante omologazione che la nuova rivoluzione industriale del secondo dopoguerra provoca negli individui, che diventano dei semplici e scoloriti numeri di matricola, appartenenti a mastodontiche società i cui vertici sono distanti e sconosciuti da tutti.

Questo calzante punto di vista, tema centrale dell’economia occidentale degli anni Cinquanta e Sessanta, accomuna questo film al toccante “I giganti uccidono” diretto da Fielder Cook nel 1956, che già nel decennio precedente lo anticipava.

Sempre come ispirazione, lo stesso Wilder dichiarò più di una volta che, fra le varie pellicole, quella che gli aveva fatto venire l’idea del soggetto era stata soprattutto lo splendido “Breve incontro” diretto da David Lean nel 1945, in cui i protagonisti hanno un incontro fugace in un appartamento “prestato” da un collega di lui. 

In originale in soggetto Wilder lo aveva pensato per una commedia teatrale, ma agli inizi degli anni Sessanta era impossibile ricreare in teatro una scenografia così imponente per degli uffici quasi senza fine. Su questo lo stesso Wilder dichiarò, inoltre, che per rendere sconfinato e impersonale il luogo di lavoro di C.C. Baxter, durante le riprese vennero usati specchi, mobili di dimensioni ridotte e persone affette da nanismo.  

La redenzione di C.C. Baxter ha a sua volta ha ispirato molte pellicole, fra le quali spicca senza dubbio “Harry ti presento Sally” diretta da Rob Reiner nel 1989, la cui scena finale calca di fatto, con canzone di fine anno e corsa verso l’amore della propria vita, quella di questo film.

La pellicola riscuote un grande successo di pubblico e vince premi in tutto il mondo: alla Mostra del Cinema di Venezia Shirley MacLaine vince la Coppa Volpi per la sua interpretazione, così come il Golden Globe assieme a Lemmon. In USA il film colleziona 10 candidature agli Oscar aggiudicandosene 5: miglior film, miglior regista, miglior sceneggiatura originale, miglior montaggio e migliore scenografia in bianco e nero.

Infine, non si possono non ricordare nella nostra versione i grandi artisti che donarono le voci ai protagonisti quando il film approdò nelle nostre sale, a partire da Giuseppe Rinaldi che doppia magistralmente Lemmon/C.C. Baxter il cui soprannome in italiano è “Ciccibello” mentre in originale è “Bud”, Maria Pia Di Meo doppia MacLaine/Bubelik e l’immortale Emilio Cigoli MacMurray/Shaldrake.      

Da vedere a intervalli regolari.  

“Cartoline dall’inferno” di Mike Nichols

(USA, 1990)

Il mondo dello spettacolo, e del cinema nello specifico, è stato raccontato ottimamente da se stesso più di una volta, anche nei lati più oscuri. Non sono pochi, infatti, i film che ci parlano di come il successo e la fama esplosa sul grande schermo possano divorare la vita reale di un attore.

Questo film, diretto dal maestro del cinema intimista americano Mike Nichols, si ispira al best seller della fine degli anni Ottanta “Cartoline dall’inferno”, autobiografia di Carrie Fisher, che per tutti – e anche suo malgrado… – rimarrà per sempre la principessa Leia della saga di “Guerre Stellari”.

Suzanne Vale (una – …c’è bisogno di dirlo? – bravissima Meryl Streep) è una giovane attrice di successo che però sta mandando a rotoli la sua carriera – e la sua vita – a causa della sua tossicodipendenza.

Dopo una notte passata con un avvenente sconosciuto, viene ricoverata d’urgenza per un’overdose. Al suo risveglio dovrà affrontare la realtà: la sua tossicodipendenza e, soprattutto, il suo rapporto conflittuale e irrisolto con la madre Doris Mann (una altrettanto bravissima Shirley MacLaine), famosissima stella del cinema e del teatro di qualche decennio prima.

Suzanne è a un bivio: reagire e tentare di superare o quanto meno di imparare a convivere con le proprie debolezze, o tornare a fuggire nella droga…

Grandissima prova d’attrice di due stelle del cinema americano – e non solo – che ci fanno arrabbiare e poi commuovere proprio come la vita. Grande mano di Nichols che superbamente non cade mai nel patetico. Autrice della sceneggiatura è la stessa Carrie Fisher. Fra i numerosi camei che costellano il film, c’è anche quello di Rob Reiner, che diresse la Fisher in “Harry ti presento Sally“.

Vedere oggi questo bel film ha un sapore particolare rispetto a quando uscì nelle sale. Carrie Fisher è scomparsa il 27 dicembre del 2016, a 60 anni, a causa delle conseguenze di un infarto. Sua madre Debbie Reynolds è deceduta per un ictus il girono dopo, sussurrando il nome della figlia.

“Sweet Charity – Una ragazza che voleva essere amata” di Bob Fosse

(USA, 1969)

Il nostro grande cinema ha fatto scuola in tutto il mondo, e spesso è stato apprezzato prima e molto più all’estero, dove ne è stato coltivato il rispetto in maniera più duratura rispetto a quello del suo Paese natale.

E’ il caso del capolavoro mondiale del maestro Federico Fellini “Le notti di Cabiria” (scritto assieme a Ennio Flaiano e Tullio Pinelli), che nel 1957 vince l’Oscar come miglior film straniero, che un altro genio assoluto del Novecento come Bob Fosse decide di portare sul palcoscenico facendolo diventare un musical.

Fellini aveva anticipato, in anni impensabili, la dignità e il rispetto verso l’anima pura di una donna che per la società di allora proprio non ne poteva avere: una “battona” delle borgate. E Fosse, con la collaborazione al testo di un terzo genio quale Neil Simon, porta sul palcoscenico un musical che sbanca ai botteghini.

Sono gli anni Sessanta e il ruolo della donna comincia ad essere al centro delle lotte sociali. Cosi Cabiria, che è diventata Charity Hope Valentine, diventa il simbolo sul palcoscenico dell’emancipazione della donna, da troppo succube dell’arroganza, del potere e delle debolezze dell’uomo.

Hollywood decide di portare sul grande schermo il musical dove a vestire i panni della protagonista è una bravissima Shriley MacLaine. La regia e le coreografie rimangono nelle mani del mago Fosse che crea una pietra miliare del cinema. Per capire la grandezza assoluta di Bob Fosse come coreografo basta riguardare le scene di ballo più famose, che ancora oggi lasciano di stucco.

Da ricordare anche la partecipazione del grande Sammy Davis Jr. nel ruolo secondario di Big Daddy Brubeck.

Per la chicca: in un ruolo ancora più marginale, ma con il nome nei titoli di testa, c’è una eterea e fascinosa Barbara Bouchet che pochi anni dopo, nel nostro Paese sarebbe divenuta un’icona sexy – e forse non tanto dell’emancipazione femminile … – con film come “Donne sopra, femmine sotto”, “Racconti proibiti… di niente vestiti” o “Una cavalla tutta nuda”.

“Oltre il giardino” di Hal Ashby

(USA, 1979)

La biografia di Peter Sellers racconta di come l’attore abbia dovuto penare per molti anni prima di poter portare sullo schermo il romanzo “Oltre il giardino” scritto nel 1970 da Jerzy Kosinski, visto che si sentiva nel profondo portato a dare vita al suo protagonista Chance, ma nessun produttore era disposto a realizzare un film così tagliente con lui, icona della commedia leggera e per famiglie.

Ma se abbiamo dovuto aspettare tanto, comunque ne è valsa la pena! Hal Ashby, uno dei migliori registi “off Hollywood” di quegli anni, oltre a Sellers, dirige un cast strepitoso fra cui spiccano la bellissima e bravissima Shirley MacLaine e il grande “vecchio” Melvyn Douglas, che vince l’Oscar come miglior attore non protagonista.

Con tutto il rispetto per Douglas, grida ancora vendetta la mancata statuetta a Sellers – che era candidato come miglior attore protagonista – che in questo film sfodera la sua più grande interpretazione regalandoci un personaggio indimenticabile e simbolo dei suoi tempi più di tanti saggi o articoli.

L’attore inglese pagò l’essere sempre visto come un semplice comico/clown (nel pieno rispetto delle due arti) e per questo molti considerarono la sua strepitosa interpretazione come qualcosa di casuale.

Ovviamente non era così: Sellers era un animale da palcoscenico e da macchina da presa come ce ne sono stati pochi altri.

Per comprenderlo meglio consiglio di vedere il film biografico “Tu chiamami Peter” di Stephen Hopkins con un grande Geoffrey Rush nei panni di Perter Sellers.

Tornando al film, ci sarebbe da commentare le mille battute e situazioni irresistibili che formano un fantastico crescendo, ma io rimango ogni volta estasiato anche dai ciak scartati e senza sonoro che Ashby usa come sfondo ai titoli di coda: memorabili.

Alcuni trovarono, all’uscita del film, la scena finale troppo surreale, ma quando un paio d’anni dopo salì alla Casa Bianca Ronald Reagan in molti – dicono le malelingue – …furono costretti a ricredersi.