“Una giusta causa” di Mimi Leder

(USA, 2018)

Ruth Bader Ginsburg è stata sempre la prima del suo corso alla Facoltà di Legge, sia ad Harward che alla Columbia University. Ma non c’è neanche uno studio legale di New York che intende assumerla come praticante. Il motivo? …Semplice: perché è una donna.

Ruth Bader Ginsburg non è vissuta nell’oscuro Medioevo, o nella Spagna ferocemente bigotta dell’Inquisizione. Ruth Bader Ginsburg è una nostra contemporanea, e terminati gli studi, alla fine degli anni Cinquanta, si è dovuta “accontentare” di una carriera come docente in Legge, nonostante i suoi studi più che eccelsi.

La società americana, e il mondo intero, non sono pronti all’uguagliaza fra i sessi, o meglio: a non essere pronti sono gli uomini americani come quelli del mondo intero.

Numerose leggi (quasi duecento) nonché la stessa Dichiarazione d’Indipendenza redatta nel 1776 (per mano anche del tanto lodato Thomas Jefferson, che fra le varie attività commerciali che conduceva c’era anche quella assai remunerativa di schiavista) lo afferma senza remore.

Agli inizi degli anni Settanta le arriva sul tavolo una strana causa: un uomo del Colorado è accusato da aver frodato il Fisco. Per anni ha assistito sua madre gravemente malata e ha portato in detrazione le spese per l’infermiera. La Legge però è chiara: solo le donne possono assistere un familiare malato, e lui essendo un uomo scapolo non può richiedere alcun rimborso.

Ruth ha quindi fra le mani una palese discriminazione di genere che vede vittima, una volta tanto, un uomo. Ma se la cosa dovesse essere riconosciuta, indirettamente aprirebbe la porta alla messa in discussione delle pesanti discriminazioni secolari ai danni delle donne. Sembra una battaglia impossibile ma…

Bisogna essere sinceri, nonostante la storia – vera – raccontata, le pellicola diretta da Mimi Leder presenta dei limiti.

Limiti che non sono legati certo all’ottima intepretazione di Felicity Jones nei panni della Ginsburg, ma direttamente alla sceneggiatura e alla regia, entrambe non all’altezza.

Non è facile portare sul grande schermo le storie di vere dispute legali, ma ci sono esempi davvero riusciti come “The Social Network” diretto dal bravissimo David Fincher e scritto da Ben Mezrich e Aaron Sorkin (fra i migliori sceneggiatori di Hollywood che non a caso per lo script vince l’Oscar) che se vogliamo narra di una causa molto più banale e legata al momento storico – chi ha partecipato materialmente e intellettulmente alla fondazione di Facebook e ha il diritto di avere il relativo e giusto compenso – che quella davvero epocale della Ginsburg.

Ma, nonostante i limiti, il film della Leder merita di essere visto, perché ci descrive il mondo così come è davvero, e ci ricorda che l’emancipazione delle donne è solo all’inizio.

“Sette minuti dopo la mezzanotte” di Juan Antonio Bayona

(USA/Spagna, 2016)

Tratto dal romanzo per ragazzi dell’angloamericano Patrick Ness (che ha accettato di elaborare e concludere l’idea iniziale della pluripremiata scrittrice anglosassone Siobhan Dowd stroncata a 47 anni da un cancro al seno) “Sette minuti dopo la mezzanotte” ci racconta di una delle tragedie dell’infanzia: il rapporto con la morte.

Conor è un bambino solitario che da tempo deve convivere con la malattia atroce che ogni giorno consuma sua madre (Felicity Jones).

A scuola è quotidianamente vittima delle angherie di un compagno di classe e a casa, oltre alla madre, non ha nessuno con cui davvero confidarsi. Suo padre, infatti, dopo aver divorziato si è trasferito negli Stati Uniti dove ha creato una nuova famiglia. E sua nonna, la signora Clayton, la madre di sua madre (non a caso interpretata da una sempre brava Sigourney Weaver) è una donna molto dura e formale.

Conor è poi vittima di un incubo atroce, che non riesce neanche a ripensare durante il giorno, ma che lentamente lo sta consumando.

Una notte, però, il grande tasso che troneggia sull’antico cimitero che vede in lontananza dalla sua finestra prende vita, e lo afferra annunciando che gli racconterà tre storie, finita l’ultima sarà lo stesso Conor a dover raccontargli la sua.

A nulla serviranno i rifiuti del ragazzino, l’albero mostro sarà implacabile…

Struggente pellicola con un cast davvero di prim’ordine e una regia fantastica. Nella versione originale la voce dell’albero mostro è quella di Liam Neeson, che appare di sfuggita in un ruolo che all’inizio sembra marginale.

Davvero un bel film.

“Hysteria” di Tanya Wexler

(UK/Lussemburgo, 2011)

Qualche simpatico buontempone ancora scherza sulla storia dell’emancipazione delle donne e su come queste vergognosamente venivano – e purtroppo a volte ancora oggi vengono – trattate e considerate.

Se ci fermiamo un attimo a pensare che nel nostro Paese il voto alle donne è stato concesso solo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale c’è poco da fare gli spiritosi. E allora andiamo in Gran Bretagna, alla fine del XIX Secolo.

Il giovane medico Mortimer Granville (Hugh Dancy) viene assunto dal noto Dottor Darlymple (un bravissimo Jonathan Price) proprietario del più famoso studio medico di Londra che cura il male del momento: l’isteria femminile. Ovviamente parliamo solo di quella che affligge le ricche signore dell’alta borghesia e aristocrazia britannica. E la cura che propone il serio Dottor Darlymple non è altro che una masturbazione travestita da terapia medica. Tutte la altre donne si devono arrangiare. E se qualcuna esagera nell’essere troppo ribelle e volitiva, il Codice Penale di Sua Maestà prevede l’isterectomia coatta.

Darlymple ha due figlie femmine: Emiliy (Felicity Jones) e Charlotte (Maggie Gyllenhaal). La prima è la classica e remissiva donna che la società maschile esige, la seconda invece è volitiva, ribelle e indomita, proprio una spina nel fianco nel becero e conservatore padre. Viste le ottime capacità di Granville, Darlymple gli propone un accordo: sposare sua figlia Emily e succedergli un giorno come titolare dello studio. I sogni del giovane medico sembrano finalmente realizzarsi, ma i dolori lancinanti alla mano, che aumentano inesorabilmente dopo ogni seduta, e il suo successivo scarso rendimento li fanno naufragare.

Per fortuna l’amico d’infanzia di Granville, Lord Edmund St. John-Smythe (Rupert Everett), è un patito di nuovi macchinari a corrente elettrica, e sta mettendo a punto una sorta di piumino elettrico. Il nuovo e strano strumento verrà preso da Granville come spunto per realizzare il primo vibratore della storia…

Scritto da Jonah Lisa Dyer, Stephen Dyer e Howard Gensler, “Hysteria” ci racconta con eleganza e pungente ironia la nascita di uno degli strumenti più utili della storia, che ha contribuito a liberare le donne, così come la pillola anticoncezionale, da una schiavitù mentale, fisica e medievale. Strumento che però purtroppo ancora oggi troppi considerano – per ragioni quelle davvero imbarazzanti – un vero e proprio tabù.

“La teoria del tutto” di James Marsh

(UK, 2014)

Il mondo conosce bene il genio scientifico del fisico Stephen Hawking e il suo senso umoristico (i suoi camei nelle serie “I Simpson” o in “The Big Bang Theory” e nell’ultimo spettacolo dei Monty Phyton sono solo gli ultimi esempi), così come conosce la sua atroce malattia neurodegenerativa che lo costringe su una sedia a rotelle da decenni.

Ma solo grazie alla sua biografia, scritta dalla sua ex moglie – ma ancora stretta collaboratrice – Jane Wilde Hawking “Verso l’infinito”, conosciamo il modo in cui ha affrontato e affronta la sua patologia che lentamente e inesorabilmente gli ha tolto l’uso del corpo.

Cambridge, 1963. Il giovane dottorando in Fisica Stephen Hawking (un eccezionale Eddie Redmayne che giustamente vince l’Oscar come miglior attore) sta scegliendo il tema della sua ricerca. Quello che lo affascina di più è la ricerca di un’unica equazione che spieghi la nascita dell’Universo. A una festa Stephen incontra Jane (Felicity Jones), giovane studentessa di Lettere, che rimane affascinata dalla sua mente geniale e dalla sua ironia sconfinata.

Ma poco tempo dopo l’inizio della loro relazione, Stephen scopre di essere affetto dall’Atrofia muscolare progressiva che gli concederà al massimo due anni di vita, vita fatta di continue e inesorabili perdite funzionali. Se lui vuole chiudere il rapporto Jane, invece, non teme la malattia e il suo decorso. I due si sposano e poco dopo mettono al mondo Robert, il loro primo genito. Ma la malattia prosegue il suo corso terrificante e le difficoltà per Jane sono sempre più grandi, visto anche l’arrivo di altri due figli…

James Marsh (premio Oscar per il miglior documentario nel 2009 per “Man on Wire – Un uomo tra le Torri”) dirige un bellissimo film d’amore, raccontandoci con delicatezza e sensibilità l’amore profondo fra i due protagonisti, l’amore di Hawking per le sue ricerche, ma soprattutto l’amore dello scienziato per la vita, nonostante una malattia terribile e umiliante. L’uomo che per oltre trent’anni ha insegnato nella stessa cattedra in cui insegnò Isaac Newton ci dice soprattutto questo: la legge universale più importante di tutte è amare la vita.

Da vedere.

“Rogue One: A Star Wars Story” di Gareth Edwards

(USA, 2016)

Scritto da Chris Weitz e Tony Gilroy – giovani ma ben rodati sceneggiatori – e diretto da Gareth Edwards, è arrivato caldo caldo nelle sale italiane l’ultimo capitolo della saga più famosa della storia del cinema.

Ultimo sì, ma non in senso cronologico della storia – che al momento rimane “Star Wars: Il risveglio della Forza” – questo “Rogue One” (che è il primo della nuova serie “Star Wars Anthology” che racchiuderà una serie di pellicole parallele a quelle vere e proprie della saga) è ambientato poco prima di “Guerre Stellari” – che poi ha preso il titolo “Una nuova speranza” – e ci racconta come un manipolo di ribelli eroi riesca a rubare i preziosissimi piani della famigerata Morte Nera, dettaglio fondamentale dello stesso primo film, fino a oggi mai affrontato.

Nel cast spiccano Felicity Jones, Forest Whitaker, Mads Mikkelsen (il primo cattivissimo di James Bond/Daniel Craig) e Diego Luna (attore e regista messicano, interprete fra gli altri di film come “Elysium”, “Milk” o “Il Libro della Vita”). E ovviamente lui, il cattivo dei cattivi, colui che una volta era Anakin Skywalker: Lord Darth Vader. E con lui è presente anche un tormentato rapporto padre-figlio, o meglio figlia.

Se “Star Wars: Il risveglio della Forza” era rivolto alle nuove generazioni, questo “Rogue One” è stato pensato, scritto e realizzato per chi nel lontano 1977 rimase “folgorato” – eddaje! – al cinema da “Guerra Stellari”.

Torna tutto, tutto si incastra e ci prepara per andare “Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana”. E poi c’è l’incredibile ricostruzione digitale di Peter Cushing, che come in “Star Wars: Una nuova speranza” interpreta il perfido Tarkin, incredibile visto che Cushing è scomparso nel 1994. E quella di…

Il titolo – che letteralmente sarebbe “canaglia 1” – è riferito a… beh, ve lo andate a vedere al cinema!

Per veri amatori: astenersi perditempo.