“Le avventure di Buckaroo Banzai nella quarta dimensione” di W.D. Richter

(USA, 1984)

Nell’ottobre del 1984 esce nelle sale statunitensi un film di fantascienza destinato a diventare un piccolo cult, che nel corso del tempo viene spesso citato o imitato. Basta pensare che Steven Spielberg ne fa un chiaro riferimento nel suo “Ready Player One” del 2018, quando Parzival sta per incontrare Art3mis e sceglie il look più cool ispirandosi proprio al protagonista di questo film.

I motivi perché questa pellicola, soprattutto negli USA, è considerata una delle più rappresentative degli anni Ottanta sono molti, a partire dal cast che annovera attrici e attori che diventeranno icone cinematografiche non solo di quel decennio come Peter Weller, che impersona proprio Buckaroo Banzai. Ci sono poi Ellen Barkin, John Lightgow, Jeff Goldblum, Clancy Brown e Christopher Lloyd che solo pochi mesi dopo impersonerà il professor Emmett Brown nel mitico “Ritorno al futuro“.

A proposito di “Ritorno al futuro”, proprio nelle sequenze iniziali di “Le avventure di Buckaroo Banzai nella quarta dimensione” il protagonista sfida la fisica con la sua autovettura futuristica il cui cuore pulsante è uno strumento molto – ma molto… – simile al flusso catalizzatore della Delorean di Doc Brown…

Tornando al film di W.D. Richter – che poco dopo parteciperà alla stesura dello script di un’altra pietra miliare del cinema degli anni Ottanta, e non solo, come “Grosso guaio a Chinatown” diretto dal maestro John Carpenter nel 1986 – anche la trama, frenetica, affatto lineare e che racchiude svolte narrative tipiche di vari generi apparentemente incompatibili, rappresenta al meglio lo spirito edonistico e glitterato di quegli anni.

Buckaroo Banzai è uno dei migliori neurochirurghi del pianeta, ma ha deciso tralasciare la sua carriera medica per dedicarsi al rock – con la sua band “The Hong Kong Cavaliers” – e alla guida di un veicolo speciale – di sua ideazione – in grado di superare i limiti della fisica conosciuta e portarlo nell’ottava dimensione (…sì, è l’ottava dimensione, forse i distributori italiani credevano che fosse “troppa” e così l’hanno divisa per due).

Per festeggiare la grande impresa Buckaroo si esibisce in un concerto dove incappa in Penny (Ellen Barkin) che sembra essere la sorella gemella della sua ex amata, di cui non ha più notizie.

Intanto, tutto il mondo parla dell’impresa di Buckaroo e la cosa arriva anche alle orecchie del perfido dottor Emilio Lizardo (John Lithgow) scienziato senza scrupoli del regime fascista italiano che dopo il fallimento del suo esperimento – riuscito invece ora a Buckaroo – e la fine della Seconda Guerra Mondiale è stato rinchiuso in un manicomio criminale.

Grazie all’appoggio di alcune creature aliene che possono prendere sembianze umane come John Bigboote (Christopher Lloyd) Lizardo cambia identità e diventa Lord John Whorfin acquistando poteri sovrannaturali. La cosa gli permette di impadronirsi del propulsore grazie al quale Buckaroo è riuscito a visitare l’ottava dimensione. Il suo intento è quello di reclutare le perfide creature che la abitano e conquistare il mondo.

Ma Buckaroo è sulle sue tracce insieme ai sui Hong Kong Cavaliers, di cui fanno parte Rawhide (Clancy Brown) e New Jersey (Jeff Goldblum), e all’aiuto di John Parker (Carl Lumbly) un alieno mutaforma proveniente dal pianeta acerrimo nemico di quello da cui arrivano gli alleati di Lord Whorfin…

Scritta da Earl Mac Rauch, questa pellicola incarna come poche lo stile e l’atmosfera di quegli anni e, nonostante alcuni limiti nella sceneggiatura, è davvero un piccolo cult trash. Facendo una citazione pubblicitaria di successo proprio in quel periodo: questo film è “per molti, ma non per tutti” …i nostalgici dal palato fino degli anni Ottanta.

“C’è ancora domani” di Paola Cortellesi

(Italia, 2023)

“La storia siamo noi” canta in maniera sublime Francesco De Gregori, in un’indimenticabile canzone che sembra rappresentare, in poche parole, l’anima dell’esordio dietro alla macchina da presa di Paola Cortellesi, che ci regala una delle migliori pellicole italiane degli ultimi anni.

Insieme a Furio Andreotti e Giulia Calenda (autori, fra le altre cose, della sceneggiatura del film “Come un gatto in tangenziale” diretto da Riccardo Milani) Cortellesi scrive e dirige un film che ci tocca nel profondo, raccontandoci la storia di una donna italiana che, “come tante”, ha vissuto uno dei momenti fondamentali del nostro Paese: il referendum istituzionale del 2 giugno del 1946 in cui le donne italiane per la prima volta hanno potuto esercitare il loro diritto al voto.

E lo fa attraverso la vita terribile e al tempo stesso “ordinaria” di Delia (la stessa Cortellesi), una donna di mezz’età, semi analfabeta, madre di tre figli, moglie – e quindi di completo possesso, come prevedeva la nostra società di allora… – del dispotico e violento Ivano (un bravissimo Valerio Mastandrea).

L’Italia è appena uscita sconfitta dalla catastrofe sanguinaria della Seconda Guerra Mondiale e dalla dittatura fascista che nei quasi vent’anni precedenti aveva dominato, spesso in maniera ottusa, il nostro Paese. Sul “ventennio” c’è ancora oggi chi sostiene che “…però di cose buone ne sono state fatte” ignorando, più o meno in buona fede, i gravi danni economici, sociali e culturali che la dittatura, instaurata a forza di olio di ricino e manganellate, ha lasciato nel nostro Paese.

Fra questi ci sono quelli – indiscutibili! – legati alla condizione delle donne, che vivevano in totale funzione degli uomini. Non potevano votare né ricoprire ruoli sociali, se non quello della madre devota e remissiva. Madre che quasi sempre aveva il carico totale della gestione della casa e della famiglia, ma che doveva sottostare al marito quando questo, stanco del lavoro quotidiano, tornava a casa esausto.

Delia così si occupa della casa, dei tre figli e dell’arrogante suocero allettato Ottorino (Giorgio Colangeli), nonché di tutti i bisogni e i desideri di Ivano. E quando sbaglia, o il marito decide che lei ha sbagliato …so’ botte, e zitta!.

Mentre i due figli maschi vanno a scuola, Marcella (Romana Maggiora Vergano) la figlia maggiore ormai quasi ventenne, in quanto donna, dopo le elementari è stata mandata dal padre a lavorare per portare i soldi a casa. Se Delia sembra ormai rassegnata alla propria disperata esistenza, quando intravede un orizzonte simile per la figlia decide di opporsi con tutti i – pochi – mezzi che ha a disposizione.

Ma uno di questi è così potente e deflagrante da cambiare per sempre il corso della storia del nostro Paese…

Grazie all’ottima sceneggiatura e al cast superbamente diretto da Cortellesi, “C’è ancora domani” ci ricorda da dove veniamo e come è importante non dimenticare le cose che abbiamo, che sono state tanto dure e difficili da ottenere, ma che rischiamo di perdere molto rapidamente. Basta pensare che c’è chi recentemente, rappresentando ufficialmente le nostre istituzioni, ha dichiarato che le donne in Italia hanno “…purtroppo” il diritto all’aborto.

La piaga sociale del femminicidio, che martoria il nostro Paese quasi con cadenza quotidiana, parte da lontano e si appoggia su costumi e usi che fino a poco tempo fa erano considerati “normali”. E solo nel 1996 – sette anni dopo la caduta del muro di Berlino! – la nostra legislatura ha modificato da “reato contro la morale” a “reato contro la persona” lo stupro.

La battaglia per la completa emancipazione della donna in Italia non è certo conclusa, il subdolo e al tempo stesso feroce patriarcato non intende mollare la presa e fa di tutto per frenarla, ma la strada è segnata e tutto in fondo, come di ricorda Cortellesi, dipende da noi.

Da vedere e far vedere a scuola.

“Mia nonna saluta e chiede scusa” di Fredrick Backman

(Mondadori, 2016)

Checché se ne dica, la vita non è semplice per nessuno. Neanche per una bambina di sette anni che ama l’intera saga di Harry Potter e che tutti considerano una tipa strana, molto matura e forse anche per questo …molto “diversa”.

Così la scuola per Elsa non è un ambiente sereno. Non capita giorno in cui non venga bullizzata da alcune compagne di classe che proprio non sopportano la sua eccentricità e la sua intelligenza. Ma a sua madre Ulrika non può certo raccontare quello che le capita quotidianamente perché non capirebbe, e poi ha bisogno di tutta la serenità possibile visto che sta portando a termine la gravidanza alla fine della quale nascerà il suo fratellastro.

Perché Elsa vive con la madre e con George, il nuovo compagno, dato che il matrimonio con il suo papà è naufragato ormai da qualche tempo. L’unica persona che la capisce completamente è sua nonna materna che, guarda caso, anche lei è stata sempre un tipo molto “originale”. Era un chirurgo e ha girato tutto il mondo, è stata in posti di guerra e di dolore dove ha salvato decine di vite umane. Ma questo l’ha tenuta per molto tempo lontana da casa e così sua figlia Ulrika è cresciuta la maggior parte del tempo senza di lei.

Ora che ha settantasette anni la nonna non vuole commettere lo stesso errore con sua nipote e così la sostiene con tutti i mezzi possibili. Il segreto più grande fra loro due è Miamas, il mondo fantastico che si può visitare mentre ci si addormenta la sera. Ma la nonna, fumatrice incallita, sta perdendo la sua battaglia contro un implacabile tumore, e così lascia ad Elsa una serie di lettere da consegnare agli abitanti del condominio in cui loro due, assieme ad Ulrika, vivono.

Per Elsa sarà un viaggio per conoscere alcuni aspetti della nonna, di sua madre e anche di se stessa impensabili ed incredibili…

Pubblicato per la prima volta nel 2013, questo piacevole romanzo anticipa alcuni dei temi che Backman svilupperà nel suo libro successivo e certamente più famoso “L’uomo che metteva in ordine il mondo“, come la perdita di un affetto centrale nella propria esistenza e l’emarginazione che provoca l’essere emotivamente e caratterialmente “diversi” dalla massa.

Così come gli altri scritti di Backman, anche questo è un inno alla tolleranza e all’inclusione, che ci racconta di un mondo dove nessuno è perfetto, o buono o cattivo al 100%, e dove l’impresa più ardua è quella di riuscire a convivere con se stessi.

D’altronde, come dice un antico proverbio cinese: “L’albero storto vive la sua esistenza nel bosco, quello dritto finisce sul tavolo del falegname”.

“Shining” di Stanley Kubrick

(UK/USA, 1980)

A volte le rovine di errori o insuccessi nascondono le basi di veri trionfi e opere destinate a cambiare il corso dell’arte. Così, dopo il clamoroso flop al botteghino di “Barry Lyndon” uscito nelle sale nel 1975, Stanley Kubrick aveva assoluto bisogno di realizzare una nuova pellicola di successo per rimanere padrone del proprio lavoro. Il regista, americano di nascita e britannico d’adozione, come per quasi tutti i suoi film, cercava un libro da cui trarre la sceneggiatura e scelse il genere horror che in quel momento stava superando tutti gli altri come adepti e successi in libreria.

Iniziò così, assieme al suo staff, uno studio dei volumi disponibili sul mercato, ma nessuno sembrava soddisfare le sue esigenze. Si dice che proprio in questa occasione abbia preso in considerazione anche la trilogia de “Il Signore degli Anelli” di J.R.R. Tolkien, che però ritenne irrealizzabile secondo i suoi standard cinematografici.

Ma già dopo aver letto le prime pagine di “Shining”, il nuovo romanzo del giovane autore americano Stephen King pubblicato nel 1977, Kubrick capì di avere fra le mani il soggetto del suo nuovo film. Una volta opzionati i diritti, il grande cineasta iniziò la produzione di quello che sarebbe diventato uno dei suoi successi commerciali più rilevanti, ma sopratutto una pietra miliare della cinematografia planetaria.

Come per ogni sua altra opera cinematografica, Kubrick usava come “spunto” il libro originale per riscrivere la storia a suo modo. Così accadde anche per “Shining”, in cui il regista compie numerosi cambiamenti rispetto al romanzo originale. Le cronache del tempo ci riportano non poche lamentele e critiche stizzite dello stesso King nei confronti di Kubrick reo, secondo lo scrittore, di non rimanere fedele al suo scritto.

Fra quelle più evidenti ci sono le diaboliche siepi vegetali che nel film sono sostituite dal labirinto, così come altri particolari a partire dal numero della camera (217 e non 237 come nel film) o di come l’anima malvagia dell’Overlook Hotel divori quella di Jack Torrance, processo nel romanzo più lento rispetto a quello del film.

Per questo, probabilmente, Kubrick inserisce nel film una sequenza apparentemente inutile. Mentre Hallorann (Scatman Crothers) preoccupato torna all’Overlook Hotel, percorrendo una strada innevata viene rallentato da un grave incidente. Si tratta di un autoarticolato che si è ribaltato e ha travolto un’automobile. Il regista ci da il tempo di notare che la macchina distrutta, il cui conducente evidentemente non ha avuto scampo, è un maggiolino Volkswagen di colore rosso. Proprio come quello del Jack Torrance del romanzo, che non è del colore chiaro di quello del protagonista del film. Kubrick, quindi, ci ricorda risolutamente che stiamo vedendo una sua opera e non una di King, il cui protagonista originale è bello che morto e sepolto sotto a un TIR, invitandoci a farcene definitivamente una ragione.

Un libro e il film tratto da esso, volenti o nolenti, sono due opere nettamente differenti, così come lo sono per forma, tempi e struttura la letteratura e il cinema. Se il romanzo di King è davvero avvincente e al tempo stesso inquietante raccontando in maniera originale e terribile il più grande incubo di uno scrittore: l’impotenza creativa; la pellicola di Kubrick ci trascina inesorabilmente nell’inferno di una mente malata materializzando quell’incubo con scene mozzafiato e terrificanti.

Ogni sequenza è studiata per creare disagio nello spettatore, grazie anche alla tecnica della pubblicità subliminale che in quegli anni venne definitivamente vietata e che il regista studiò a fondo. Kubrick mette finestre dove fisicamente è impossibile che ci siano, crea continue allusioni sessuali spesso spiacevoli e ambigue, o cambia il senso della moquette a seconda dell’inquadratura.

Anche l’uso del sonoro è “diabolico”, basta pensare alla sequenza del piccolo Danny che gira sul triciclo per l’albergo, prima di incontrare le gemelle, sequenza in cui il rumore delle ruote viene ripetutamente interrotto dai tappeti sistemati ad hoc.

Cinematograficamente parlando, poi, c’è il massiccio uso della steadicam a mano, la macchina da presa che invece del carrello viene mossa direttamente dall’operatore che l’ha sistemata sulle spalle. Con una serie di carrucole e leve, nonostante il movimento, la riprese sono perfette senza oscillazioni né sobbalzi. Cosa che permette di girare scene in movimento, come su una scalinata, senza problemi. A inventarla è stato a metà degli anni Settanta l’americano Garrett Brown – che, per esempio, nel 1976 gira la famosa scena in cui Sylvester Stallone corre sulla scalinata in “Rocky” – che Kubrick sceglie come operatore del film.

Grazie a Brown e alla sua steadicam, Kubrick ci fa seguire gli attori in maniera quasi morbosa e ossessiva, cosa che aumenta l’ansia e il disagio di noi spettatori. Naturalmente va ricordato anche il cast artistico con uno stratosferico Jack Nicholson – apprezzato anche da King -, Shelley Duvall, lo stesso Crothers e il piccolo Danny Lloyd. Nella nostra versione deve essere citato anche il grande Giancarlo Giannini che dona superbamente la voce a Nicholson con quel suo “Wendy …sono a casa!” che ancora ci fa venire i brividi.

Nonostante sia stato sempre considerato un regista dispotico e maniacale, poco amato dagli attori che hanno avuto l’onore di lavorare con lui, Stanley Kubrick rimane indiscutibilmente uno dei più grandi registi di tutti i tempi, e questo film, come molti altri da lui firmati, ce lo ricorda perentoriamente visto che a distanza di oltre quarant’anni ancora ci mette i brividi.

Un capolavoro assoluto.

“Vasco Rossi – Il Supervissuto” di Pepsy Romanoff

(Italia, 2023)

Che Vasco Rossi sia uno dei più grandi artisti italiani, e non solo, degli ultimi quattro decenni è ormai un dato di fatto. E non sono certo il primo né l’unico a sottolineare che geniale musicista ed interprete sia, visto che le sue canzoni attraversano gli anni e le epoche a cavallo di due secoli – …e due millenni – rimanendo sempre fresche, struggenti e attuali.

Ma con questa docuserie scritta da Igor Artibani, Guglielmo Arie e lo stesso Pepsy Romanoff (Giuseppe Domingo Romano) in cinque puntate da circa 50 minuti ciascuna, Vasco ci racconta, forse come non è mai accaduto prima, la sua storia artistica e personale, grazie anche a filmati originali che appartengono al suo archivio privato. Nato a Zocca agli inizi degli anni Cinquanta, un ridente comune dell’Emilia-Romagna in provincia di Modena, già nel 1960 il piccolo Vasco sale su un palco per cantare. Nel minuscolo cine-teatro della cittadina, infatti, fa tappa un concorso musicale per giovani talenti molto simile allo Zecchino d’Oro.

A neanche dieci anni Vasco vince il concorso itinerante e inizia ufficialmente la sua carriera artistica. Sua madre, una giovane casalinga, e suo padre che di mestiere fa il camionista assecondano senza remore le inclinazioni del figlio, e così Vasco può vivere al meglio il suo amore incondizionato per la musica.

Negli anni Sessanta, sulla scia della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, anche in Italia si formano numerosissime band, e Vasco ne crea diverse fino ad approdare, agli inizi degli anni Settanta, nel mass media che segnerà la cultura contemporanea: la radio. Anche se nel nostro Paese solo la RAI poteva trasmettere in modulazione di frequenza, nascono piccole radio private quasi ovunque e Vasco, insieme a un manipolo di storici amici, ne crea una che in breve tempo diventa il “punto” di riferimento delle nuove generazioni della zona.

Visto il successo della piccola emittente, Vasco viene chiamato come DJ nei locali più “in” della regione, ma la sua passione per la musica da scrivere e poi da interpretare aumenta fino a portarlo ad incidere il primo disco, prodotto da uno storico impresario del liscio. Oltre al vinile, per Vasco diventa sempre più importante esibirsi su un palco assieme alla sua band, e così nel 1978 inizia – in piccoli locali e piazze cittadine – la carriera professionistica del più grande e longevo rocker italiano che passa però anche per momenti duri e senza sconti, come la tossicodipendenza o il carcere per possesso di cocaina.

Ma nel corso delle cinque puntate Vasco ci racconta bene come abbia saputo sempre rialzarsi e affrontare la vita a viso aperto, rimanendo sempre fedele a se stesso e al suo pubblico, passando spesso momenti terribili fra lutti, depressioni e malattie.

Bellissimo e sincero ritratto di un fenomenale artista musicale che è anche un grandissimo maestro della parola cantata, che forse non trova paragoni neanche fra gli scrittori “ufficiali” suoi contemporanei per la maniera in cui riesce a raccontare se stesso e la nostra società, le nostre paure, i nostri sogni e i nostri miseri difetti.

Un grande autore che ha fra i suoi amici più cari Valentino Rossi come don Luigi Ciotti, e che come pochi disegna superbamente il nostro Paese e che, sapendolo, ci canta ironico e sornione: “…e menomale che non mi chiamo Mario”.

Da vedere, così come è da ascoltare tutta la sua musica.

“Irresistibile” di Jon Stewart

(USA, 2020)

Sono appena passate le elezioni presidenziale statunitensi del 2016 e salire alla Casa Bianca, smentendo la maggior parte dei sondaggi, è il repubblicano Donald Trump che ha battuto la democratica Hilary Clinton data da tutti la strafavorita.

Il consulente e stratega della campagna del Partito Democratico Gary Zimmer (Steve Carell) è ovviamente devastato e depresso. Ma nel pieno e vincente stile “americano” e soprattutto di Washington, Zimmer decide subito di ripartire e trovare il mondo di riportare un democratico al 1600 di Pennsylvania Avenue. E per farlo deve inesorabilmente ripartire dalla base.

Così, quando un giovane stagista gli mostra un video postato sulla rete in cui un ex marines parla di tolleranza e unità durante l’assemblea nel piccolo municipio di Deerlaken, un’altrettanto piccola località del Wisconsin, Gary Zimmer è certo di aver ritrovato il bandolo della matassa.

L’uomo nel video è Jack Hastings (Chris Cooper), un ex colonnello che ora assieme alla giovane figlia Diana (Mackenzie Davis) gestisce la sua fattoria. Il Wisconsin è uno stato perlopiù agricolo, e Hastings quindi lo incarna in pieno, ma soprattutto il Wisconsin è uno dei famigerati stati “incerti”, quelli che non hanno storicamente una tradizione democratica o repubblicana, e così spesso diventano un imprevedibile ago della bilancia nelle elezioni presidenziali.

Zimmer parte subito per Deerlaken dove intende convincere Hastings a candidarsi come sindaco democratico contro l’attuale primo cittadino repubblicano. L’ex marines è restio, ma alla fine accetta ad una condizione: che sia direttamente Zimmer ad occuparsi della campagna.

La permanenza del responsabile delle campagne elettorali dei Democratici a Deerlaken non può che attirare l’attenzione di Faith Brewster (Rose Byrne) sua omologa del partito Repubblicano che immediatamente corre a Deerlaken anche lei. In poche ore i due vengono raggiunti dal grande circo mediatico televisivo che pone all’attenzione dell’intero Paese l’elezioni municipali della piccola cittadina rurale. Ma…

Il poliedrico Jon Stewart scrive e dirige questa sfiziosa e caustica commedia ambientata nel dispotico e spietato mondo delle campagne elettorali fatto di sondaggi, proiezioni, studi sociali e attente analisi – molto spesso non autorizzate e illegali – sul web, che troppo spesso si scordano che alla fine gli elettori sono esseri umani, con i loro vizi e le loro debolezze.

E ci ricorda in maniera graffiante come la televisione, che può creare miti e fenomeni nel giro di ventiquattro ore, non solo può disintegrarli in un tempo ancora più breve, ma può essere sapientemente manipolata.

Di quanto la televisione influisca direttamente nella politica poi, noi italiani, ne sappiamo qualcosa…

“Yoga” di Emmanuel Carrère

(Adelphi, 2021)

Emmanuel Carrère è per me l’autore di uno dei libri più affascinanti e al tempo stesso terribili e inquietanti degli ultimi decenni come “L’avversario“, pubblicato per la prima vota nel 2000. Amo molto il suo modo di scrivere e raccontare le vicende e le storie degli altri. E così ho iniziato assai curioso la lettura di questo suo recente libro dove la storia narrata è, invece, la sua.

Il libro sostanzialmente è diviso in due parti, la prima è quella in cui ci racconta la nascita e lo sviluppo del suo rapporto decennale con lo yoga e la meditazione in generale. Il suo approcciarsi alla disciplina orientale quasi per caso fino a divenire un assiduo frequentatore di corsi e seminari sparsi in tutto il mondo, soprattutto da quando il pensiero orientale lo ha aiutato a trovare un equilibrio personale.

La seconda inizia proprio durante un seminario fra le montagne, dove era assolutamente proibito avere contatti col mondo esterno così come con gli altri partecipanti, ma nonostante ciò Carrére viene travolto dalla realtà e soprattutto dalla parte più oscura e abissale del proprio essere. Nei giorni in cui lui era immerso nella natura a meditare, due terroristi legati ad Al-Quaeda entrano nella redazione del giornale satirico “Charlie Hebdo” a Parigi e, armati di Kalasnikov, uccidono 12 persone e ne feriscono altre 11.

Carrère viene colpito profondamente dalla tragedia sia perché da ragazzo era un assiduo lettore del giornale satirico, sia perché conosceva e frequentava direttamente più di una delle vittime. Il ritorno brusco a una realtà violenta contribuisce a far vacillare l’equilibrio dello scrittore che lentamente, ma inesorabilmente, inizia a precipitare nel baratro della depressione, con la quale da sempre ha dovuto combattere.

Grazie a sua sorella viene ricoverato in una clinica parigina specializzata, dove però i farmaci non sembrano sortire l’esito sperato e così ai medici non rimane altro che la terapia elettroconvulsivante, una volta chiamata elettroshock. Fortunatamente per lui, e anche per noi lettori, le sedute di questa dura cura alla fine funzionano e riescono a ridare a Carrère una certa stabilità – grazie anche al supporto di nuovi farmaci – che gli permette di terminare il libro dedicato allo yoga, che da tempo aveva in mente.

Un viaggio crudo e doloroso in una patologia, come la depressione – termine naturalmente generico e superficiale per una malattia che ha invece numerose sfaccettature e intensità – la cui causa per lo scrittore rimane “sconosciuta”. Perché la vita di Carrère, sottolinea a se stesso come a noi lettori, è stata fortunata e piena di successi, anche economici, oltre che di affetti.

Non certo come quella di alcuni giovani migranti minorenni a cui lui stesso propone un corso di scrittura creativa mentre sono “ospiti”, in Grecia, in un centro di accoglienza per profughi in attesa di essere “ridistribuiti” in Europa.

E, guardando quei ragazzi che hanno dovuto lasciare tutto e vivere spesso esperienze terrificanti per raggiungere le porte del nostro continente in cerca solo di sopravvivere – come ci ha raccontato superbamente Matteo Garrone nel suo splendido “Io Capitano” – Carrère si chiede se davvero quella che per loro rappresenta la “Terra Promessa” alla fine non li tradirà lasciandoli soli senza speranza e senza dignità – come si è sentito lui, anche se per ragioni completamente diverse, travolto dalla depressione – rendendoli facili prede di fanatici e subdoli terroristi.

Tragicamente attuale.

“La Taverna di mezzanotte – Tokyo stories vol. 7 ” di Yaro Abe

(Bao Publishing, 2023)

Eccoci nuovamente, per la settima volta, nella taverna più originale e affascinante di Tokyo.

Nel quartiere di Shinjuku, nei pressi dell’omonima stazione, il nodo ferroviario più trafficato al mondo, tutti i giorni – o meglio tutte le notti – c’è un piccolo ristorante che apre da mezzanotte alla sette del mattino. Il proprietario, chef e allo stesso tempo cameriere, è un taciturno uomo di mezza età con una vistosa cicatrice sull’occhio destro.

Al muro del piccolo locale è affisso il menu fisso, ma lo chef è disponibile a cucinare qualsiasi cosa i clienti desiderino a patto di avere gli ingredienti o che gli stessi avventori li forniscano. E così, gli invitanti aromi ed effluvi del cibo preparato e servito nella taverna, non solo aprono lo stomaco dei clienti ma anche la loro anima: per ogni ricetta preparata lo chef ci racconta la storia di uno o più dei suoi clienti che, nel bene o nel male, ha uno snodo proprio dentro al suo locale e grazie o a causa ad un piatto lì elaborato.

Come nella vita, però, non tutte le storie finiscono bene e non sempre il lieto fine chiude la vicenda. Tanto che a volte alcuni clienti decidono di non mangiare più, per il resto della loro esistenza, una pietanza alla quale invece prima erano profondamente legati proprio perché ricordava loro una persona o un evento fondamentale nella loro vita. Yaro Abe ci sottolinea, se davvero ce ne fosse bisogno, che lo stomaco forse non sarà importante come il cervello, ma è lui spesso a indirizzarci nei bivi della vita.

Come gli altri tomi della serie dedicata alla Taverna, anche questo – in cui si parla pure di rugby, sport molto amato nella terra del Sol Levante – è da leggere e “assaporare” fino all’ultima pagina, e non è necessario aver letto tutte le passate ricette per goderselo a pieno. Anche se io le consiglio caldamente.

Su Netflix è disponibile la serie giapponese “Midnight Diner: Tokyo Stories” deliziosa e saporita come il manga da cui è tratta. Abe, nel corso degli anni, ha pubblicato anche: “La Taverna di mezzanotte – Tokyo Stories vol.1“, “La Taverna di mezzanotte – Tokyo Stories vol.2“, “La Taverna di mezzanotte – Tokyo Stories vol.3” e “La Taverna di mezzanotte – Tokyo Stories vol.4“, “La Taverna di mezzanotte – Tokyo Stories vol.5“, “La Taverna di mezzanotte – Tokyo Stories vol.6“.

“Racconti fantastici” di Daniele D’Anza e Biagio Proietti

(Italia, 1979)

Sulla scia del grande successo di numerosi sceneggiati televisivi realizzati – fra cui spicca senza dubbio lo storico “Il segno del comando” – Daniele D’Anza (1922-1984), insieme al suo collaboratore Biagio Proietti (1940-2022) propone alla RAI uno vero e proprio omaggio al grande Edgar Allan Poe, anche per farlo conoscere meglio alle nuove generazioni.

Ispirandosi liberamente ai suoi racconti più famosi, D’Anza e Proietti scrivono, attualizzandoli, quattro episodi che ruotano intorno e dentro alla gotica e oscura casa Usher – e allo splendido racconto “La caduta della casa degli Usher” – il cui padrone di casa, Roderick Usher (interpretato la Philippe Leroy) è il filo conduttore e unico personaggio ricorrente in tutti gli episodi.

Nel primo “Notte in casa Usher” – ispirato soprattutto ai racconti “Ritratto ovale” e “Il cuore rivelatore”, con un palese riferimento anche a “Manoscritto trovato in una bottiglia” – un giudice (Gastone Moschin) e un assassino (Vittorio Mezzogiorno) persi nella nebbia arrivano a casa Usher chiedendo ospitalità. Roderick la offre loro, ma la casa, così come il suo padrone, nascondono un terribile segreto che riguarda la compianta signora Usher (Maria Rosaria Omaggio). L’atmosfera e l’opprimente presenza della defunta costringeranno i due ospiti ad affrontare il lato più oscuro di loro stessi…

Nel secondo “Ligeia forever” – tratto dal racconto “Ligeia” con chiari richiami anche al romanzo “Rebecca, la prima moglie” di Daphne du Maurier – Roderick, osservando un vecchio grammofono abbandonato in un’ala della casa chiusa da decenni, con la mente torna indietro ai tempi in cui era suo padre Robert Usher (Umberto Orsini) il padrone della grande casa, nella quale aveva organizzato una festa in onore del debutto nel cinema sonoro della grande Ligeia (Dagmar Lassander) stella di prima grandezza della Hollywood del muto, che lui segretamente aveva sposato. Ma la voce originale della donna proprio non piacque al pubblico che sghignazzò rumorosamente alla prima. Ligeia, saputolo, si avvelenò morendo fra le braccia del marito. Sei anni dopo Robert torna a casa Usher con la sua nuova e giovane moglie Morella (Silvia Dionisio) che però deve scontrarsi con il ricordo ingombrante, opprimente e molto concreto della prima signora Usher…

Il terzo è “Il delirio di William Wilson” – tratto dal quasi omonimo “William Wilson” – in cui il protagonista (impersonato da Nino Castelnuovo) che è un pilota di automobili collaudatore di prototipi, arriva disperato a casa Usher dove confessa a Roderick di essere inseguito da un essere implacabile. Il padrone di casa lo ospita, vista poi la relazione che Wilson ha da anni con sua sorella Eleanor Usher (Janet Agren). A braccare il pilota è …William Wilson (Giorgio Biavati) un suo omonimo, anche lui pilota automobilistico, che da circa un anno lo perseguita mandandogli a monte tutti i progetti…

L’ultimo episodio è “La caduta di casa Usher” che oltre al racconto omonimo – o quasi – si ispira anche al grande “Il pozzo e il pendolo”, “La maschera della morte rossa” e “Il genio della perversione”. Mentre in casa Usher si tiene una festa danzante, Eleanor inizia a mostrare i segni di una grave quanto rapida e fulminea malattia che in poco tempo la conduce alla morte. Roderick chiede ai suoi ospiti di lasciare la casa ma, poco dopo, alcuni di questi tornano sconvolti e terrorizzati: una minacciosa nube nera sta avvolgendo tutto uccidendo chiunque ci finisca dentro. Chiusi fra le mura della grande casa gli ospiti, omaggiando anche il grande Boccaccio, iniziano a raccontare i loro più profondi e indicibili segreti. Berthe (Paola Gassman), per esempio, narra ridendo come sia stata molto vicina dall’uccidere volontariamente il marito mentre questo placidamente dormiva. Ma la secolare maledizione inizia ad abbattersi implacabilmente sulla casa degli Usher…

Naturalmente i tempi narrativi televisivi, rispetto a quelli di oggi, sono infinitamente più dilatati, visto anche che nel 1979 la pubblicità non ha ancora quel peso commerciale nel palinsesto che poi assumerà negli anni successivi. E poi, nonostante la grande maestria di D’Anza dietro la macchina da presa, sono evidenti i non pochi limiti produttivi dello sceneggiato, in cui gli effetti speciali sono fatti “a mano”, spesso sottolineati con frenetici zoom o fumogeni di vari colori.

Ma proprio per questo oggi è lampante ancora di più la bravura non solo delle attrici e degli attori, ma anche quella di tutti i tecnici e i componenti della troupe che con mezzi limitati – e nonostante tutto quello che è passato sul grande e sul piccolo schermo di genere fantasy o horror in questi ultimi quattro decenni – riescono ancora a regalarci momenti autentici di ansia e sorpresa. E proprio per sottolineare l’angoscia che percorre ogni storia raccontata, D’Anza sceglie di affidare le musiche ai Pooh che accompagnano quasi ogni fotogramma con assoli alla tastiera e alla chitarra elettrica efficaci e assai insoliti per gli standard televisivi del tempo.

Nonostante i suoi limiti, questo sceneggiato rimane un originale omaggio al grande Allan Poe fatto dalla nostra televisione in uno dei periodi più prolifici e al tempo stesso di qualità della sua storia.

“Nessuno ti salverà” di Brian Duffield

(USA, 2023)

Brynn (una bravissima Kaitlyn Dever) è una ragazza che vive da sola in una grande casa di campagna, fuori da una delle tante cittadine del midwest americano. Ama cucire e ampliare il piccolo villaggio in miniatura che ha costruito sul tavolo del grande salotto, villaggio che aveva iniziato a creare con sua madre, morta poco tempo prima.

Le sue visite in città sono molto veloci, anche perché nessuno dei suoi concittadini sembra tollerarla troppo. L’unico rapporto che ha con l’esterno è con la sua migliore amica Maude, alla quale scrive delle lettere quotidiane e della quale ha foto sparse in tutta casa. Una notte, però, Brynn viene svegliata da alcuni strani rumori e quando scende in salotto per caprine la causa si accorge che un alieno sta curiosando nel suo salone.

La ragazza prima cerca di fuggire in tutti i modi, ma alla fine è costretta a combattere contro gli alieni, che fra le altre cose hanno anche il potere della telecinesi. Ma oltre agli alieni Brynn deve vedersela contro il suo crudele passato…

Brian Duffield – che ha al suo attivo le sceneggiature di film come “Love and Monster” o “Underwater” – scrive e dirige un vero e proprio gioiellino di sci-fi. Nonostante il genere e l’ambientazione Duffield realizza un film dove non ci sono dialoghi, solo alla fine pochissime parole sussurrate, esercizio di stile davvero molto complicato. Ma non avere dialoghi non vuol dire non aver il sonoro, visto che la comunicazione fra gli alieni è spesso assordante così come lo è sovente la colonna sonora.

Davvero un ottimo esempio di “piccolo” film indipendente destinato a diventare un cult assoluto. Non è un caso, quindi, che il maestro Stephen King, proprio pochi giorno dopo la sua messa in streaming, lo abbia elogiato su Twitter. Nel post il Re lo paragona, giustamente, allo strepitoso episodio “Gli Invasori”, facente parte della seconda stagione della mitica serie televisiva “Ai confini della realtà“, andato in onda negli Stati Uniti il 27 gennaio del 1961.

L’episodio venne scritto da due veri e propri maestri: il grande Rod Serling, creatore della serie, e Richard Matheson, sceneggiatore e scrittore, autore fra le altre cose di uno dei romanzi di fantascienza più famosi e adattati di tutti i tempi: “Io sono leggenda”, pubblicato per la prima volta nel 1954.

Da vedere, e se lo dice il Re…