“C’è ancora domani” di Paola Cortellesi

(Italia, 2023)

“La storia siamo noi” canta in maniera sublime Francesco De Gregori, in un’indimenticabile canzone che sembra rappresentare, in poche parole, l’anima dell’esordio dietro alla macchina da presa di Paola Cortellesi, che ci regala una delle migliori pellicole italiane degli ultimi anni.

Insieme a Furio Andreotti e Giulia Calenda (autori, fra le altre cose, della sceneggiatura del film “Come un gatto in tangenziale” diretto da Riccardo Milani) Cortellesi scrive e dirige un film che ci tocca nel profondo, raccontandoci la storia di una donna italiana che, “come tante”, ha vissuto uno dei momenti fondamentali del nostro Paese: il referendum istituzionale del 2 giugno del 1946 in cui le donne italiane per la prima volta hanno potuto esercitare il loro diritto al voto.

E lo fa attraverso la vita terribile e al tempo stesso “ordinaria” di Delia (la stessa Cortellesi), una donna di mezz’età, semi analfabeta, madre di tre figli, moglie – e quindi di completo possesso, come prevedeva la nostra società di allora… – del dispotico e violento Ivano (un bravissimo Valerio Mastandrea).

L’Italia è appena uscita sconfitta dalla catastrofe sanguinaria della Seconda Guerra Mondiale e dalla dittatura fascista che nei quasi vent’anni precedenti aveva dominato, spesso in maniera ottusa, il nostro Paese. Sul “ventennio” c’è ancora oggi chi sostiene che “…però di cose buone ne sono state fatte” ignorando, più o meno in buona fede, i gravi danni economici, sociali e culturali che la dittatura, instaurata a forza di olio di ricino e manganellate, ha lasciato nel nostro Paese.

Fra questi ci sono quelli – indiscutibili! – legati alla condizione delle donne, che vivevano in totale funzione degli uomini. Non potevano votare né ricoprire ruoli sociali, se non quello della madre devota e remissiva. Madre che quasi sempre aveva il carico totale della gestione della casa e della famiglia, ma che doveva sottostare al marito quando questo, stanco del lavoro quotidiano, tornava a casa esausto.

Delia così si occupa della casa, dei tre figli e dell’arrogante suocero allettato Ottorino (Giorgio Colangeli), nonché di tutti i bisogni e i desideri di Ivano. E quando sbaglia, o il marito decide che lei ha sbagliato …so’ botte, e zitta!.

Mentre i due figli maschi vanno a scuola, Marcella (Romana Maggiora Vergano) la figlia maggiore ormai quasi ventenne, in quanto donna, dopo le elementari è stata mandata dal padre a lavorare per portare i soldi a casa. Se Delia sembra ormai rassegnata alla propria disperata esistenza, quando intravede un orizzonte simile per la figlia decide di opporsi con tutti i – pochi – mezzi che ha a disposizione.

Ma uno di questi è così potente e deflagrante da cambiare per sempre il corso della storia del nostro Paese…

Grazie all’ottima sceneggiatura e al cast superbamente diretto da Cortellesi, “C’è ancora domani” ci ricorda da dove veniamo e come è importante non dimenticare le cose che abbiamo, che sono state tanto dure e difficili da ottenere, ma che rischiamo di perdere molto rapidamente. Basta pensare che c’è chi recentemente, rappresentando ufficialmente le nostre istituzioni, ha dichiarato che le donne in Italia hanno “…purtroppo” il diritto all’aborto.

La piaga sociale del femminicidio, che martoria il nostro Paese quasi con cadenza quotidiana, parte da lontano e si appoggia su costumi e usi che fino a poco tempo fa erano considerati “normali”. E solo nel 1996 – sette anni dopo la caduta del muro di Berlino! – la nostra legislatura ha modificato da “reato contro la morale” a “reato contro la persona” lo stupro.

La battaglia per la completa emancipazione della donna in Italia non è certo conclusa, il subdolo e al tempo stesso feroce patriarcato non intende mollare la presa e fa di tutto per frenarla, ma la strada è segnata e tutto in fondo, come di ricorda Cortellesi, dipende da noi.

Da vedere e far vedere a scuola.

“Questo mondo non mi renderà cattivo” di Zerocalcare

(Italia, 2023)

Su Netflix è approdata la seconda serie animata creata, scritta e diretta da Zerocalcare.

Dopo “Strappare lungo i bordi” del 2021, torniamo nel quartiere di Rebibbia a Roma, dove vive e lavora Zerocalcare. Fra quelle strade e quei grandi palazzi popolari “Calcare” è cresciuto accanto a persone con le quali ha stretto una profonda amicizia, come con Secco o Sara, e con altre, come Cesare, che col passare del tempo ha perso di vista.

Quando Cesare torna nella zona, dopo aver passato alcuni anni in una comunità per il recupero dalla sua tossicodipendenza, l’incontro con Zerocalcare è formale e molto freddo. Perché Cesare ha affrontato i propri mostri da solo, lontano da tutti – Zerocalcare compreso – e quando è tornato a casa ha trovato il deserto emotivo.

Come tutto il Paese, anche Rebibbia sta vivendo la netta frattura della nostra società che si divide in tolleranti e intolleranti, in accoglienti e sovranisti, in sinistrorsi e nazisti che, come ci spiega l’autore, comprendono anche i fascisti che ormai sono stati fin troppo facilmente sdoganati. Ma se per Zerocalcare fino a quel momento la divisione è sempre stata netta, adesso scopre – come molti altri suoi connazionali… – che fra il bianco e il nero ci sono milioni di sfumature. E così “Calcare” deve imparare a convivere con le numerose tonalità di grigio.

Se i nazisti rimangono e rimarranno sempre dei nazisti, Zerocalcare ci racconta – non senza sublimi citazioni e battute esilaranti – come il mancato riconoscimento delle tante sfumature non fa altro che fomentare i nazisti e chi li manipola e li usa a proprio tornaconto.

Come nella serie precedente, anche in questa è Valerio Mastandrea a doppiare l’Armadillo, la coscienza ingombrante di Zerocalcare, mentre Silvio Orlando dona la voce ad un dirigente della Digos.

Zerocalcare è sempre lui.

“Strappare lungo i bordi” di Zerocalcare

(Italia, 2021)

E’ finalmente arrivata su Netflix la serie di animazione ideata, scritta e diretta da Zerocalcare.

“Strappare lungo i bordi”, nelle sue 6 puntante da circa 20 minuti l’una, ci parla di temi al fumettista – anche se ormai chiamarlo solo autore di fumetti è davvero riduttivo – molto cari come il sopravvivere all’amara e cruda adolescenza e, soprattutto, a se stessi.

Purtroppo nella vita non basta “strappare lungo i bordi” la nostra figura dal foglio che il destino ci pone, perché lo strappo fin troppo spesso sconfina con imponderabili conseguenze…

Anche se si tratta di argomenti che abbiamo già affrontato in altre opere di Zerocalcare come “La profezia dell’armadillo” o “Un polpo alla gola”, grazie al suo modo unico e originale di raccontarceli e approfondirli non smettono mai di essere interessanti, divertenti e, naturalmente, anche tristi.

A doppiare l’Armadillo, forma in carne e corazza della coscienza del protagonista, è Valerio Mastandrea che duetta deliziosamente con Zerocalcare, che fino all’ultima parte dell’ultima puntata doppia da solo tutti i personaggi – come nei suoi indimenticabili video che sui social ci hanno aiutato ad affrontare il primo famigerato lockdown – tranne appunto il mammifero corazzato.

Ma, come in ogni fumetto, non è solo la storia centrale ad appassionarci, ma anche i piccoli dettagli sullo sfondo, come le locandine dei film di fantascienza appese sui muri di casa di Zero, fra le quali su tutte: “ROG UAN – NA STORIA DE GUERRA FRA ‘E STELLE” e “L’IMPERO RIATTACCA E MO SO’ CAZZI”.

“La profezia dell’armadillo” di Emanuele Scaringi

(Italia, 2018)

Approda sul grande schermo il primo libro a fumetti firmato da Zerocalcare (al secolo Michele Rech) nel 2012. 

Se può sembrare semplice adattare per il cinema un fumetto – all’estero gli esempi sono a centinaia, anche fatti da campioni d’incassi planetari – le strisce di Zerocalcare, intimiste e apparentemente minimaliste, erano invece una sfida ben più complessa.

Valerio Mastandrea, Oscar Glioti, Johnny Palomba e lo stesso Zerocalcare ci riescono egregiamente, scrivendo una gradevole e divertente sceneggiatura, al tempo stesso molto fedele ai fumetti originali. 

Ci catapultiamo così nella Roma dei quartieri immensi e delle periferie sconfinate. Una città divisa fra Roma Nord, Roma Sud, e il Centro. Tre parti che non simboleggiano tanto una frattura geografica, ma tre modi distinti e ben diversi di essere e di vivere la metropoli (…non chiedetemi quale preferisco, perché so’ de Roma Nord).

In questa città millenaria e drammaticamente dispersiva vive il ventisettenne Zero (Simone Liberati), che sbarca il lunario come disegnatore, fumettista, insegnate di francese e sondaggista.

I punti di riferimento nella sua vita sono pochi ma “boni”: Secco (Pietro Castellitto) il suo storico compagno di classe, sua madre (Laura Morante) e l’Armadillo (Valentino Aprea) che divide con lui l’appartamento, le esperienze più dure (molte) e quelle più piacevoli (poche). Ma, soprattutto, l’Armadillo condivide con Zero il suo cervello, visto che solo lui può vederlo e parlarci.   

Quando una parte sopita ma importante della passata (…quasi tutta) adolescenza torna perentoriamente nella sua vita, Zero deve rimboccarsi le maniche… 

Un piccolo gioiellino contemporaneo – con una regia davvero sfiziosa – che ci parla della nostra società, di come vorremmo essere e di come siamo in realtà.

Al di là delle apparenze, che lo vorrebbero erroneamente adatto solo a un pubblico romano, “La profezia dell’armadillo” – come le strisce di Zerocalcare – potrebbe raccontare tranquillamente la storia di un trentenne italiano che vive genericamente ovunque, o come canta la Carrà: “…Da Trieste in giù!”, con relativo accento.

A proposito di accento, agli autori del film bisogna solo chiedere una cosa: …perché ve sete scordati de mettece er Cinghiale!?

“Basette” di Gabriele Mainetti

(Italia, 2008)

Che le varie serie de “Le avventure di Lupin III col grande Arsenio – Arsenico per gli amici – Lupin III abbiano segnato profondamente l’immaginario collettivo della mia generazione, è un indiscutibile dato di fatto, e soprattutto un motivo d’orgoglio, visto che a dirigere la prime due stagioni (quelle con la mitica giacca verde) del manga firmato da Kazuhiko Katō e’ stato il maestro Hayao Miyazaki.

Se è vero che ci sono molti modi per raccontare una contaminazione, è vero anche che pochi sono quelli che riescono a coglierne al meglio l’anima – e pure l’anime… – in maniera efficace e coinvolgente. E questo bel cortometraggio di Gabriele Mainetti, scritto da Nicola Guaglianone, è un ottimo esempio.

Antonio (un sempre bravo Valerio Mastandrea) è un ladruncolo della periferia romana, figlio d’arte, specializzato in furti in negozi e piccole rapine. La mattina che insieme ai suoi soliti complici Franco (Marco Giallini) e Tony (Daniele Liotti) si prepara a rapinare un ufficio delle Poste, pensa alla madre, specializzata in furti nei supermercati, che venne arrestata la volta che tentò di rubare un costume da Lupin III per lui.

Ma soprattutto Antonio ricorda Prisca (Luisa Ranieri), “socia” della madre, di cui lui è stato sempre innamorato. La rapina va male, e Antonio è steso sull’asfalto davanti all’ufficio postale, colpito alla testa da un proiettile.

Accanto a lui ci sono i corpi esanimi di Franco e Tony. Negli ultimi istanti di vita Antonio sogna. Sogna di essere illeso e venire arrestato, vestito esattamente come Lupin III (ma con la giacca rossa) da un ispettore (Flavio Insinna) che ricorda tanto Zazà Zenigata. E mentre lui è sotto interrogatorio, i suoi amici di sempre Jigen-Franco e Goemon-Tony si preparano a farlo evadere…     

Il conciliare la romanità, soprattutto quella delle periferie – che Pasolini amava tanto – e che oggi è forse l’unica vera rimasta, con i miti dei cartoni giapponesi anni Settanta è già sulla carta un’intuizione geniale.

E Mainetti, grazie anche a un cast di tutto rispetto, riesce a mantenere le promesse anche sulla pellicola. Davvero 17 minuti ben spesi.

Da vedere, anche in attesa del suo “Lo chiamavano Jeeg Robot”.    

“Cose dell’altro mondo” di Francesco Patierno

(Italia, 2011)

I drammi legati all’immigrazione purtroppo fanno parte della cronaca quotidiana del nostro Paese.

Nonostante questo c’è ancora chi si aggrappa alla becera paura del diverso per fare campagna elettorale, o semplicemente per meri interessi personali. E allora, con spirito ironico – lontano ovviamente dalle tragedie recenti – in questo film in una notte scompaiono tutti gli immigrati della regione (che sembra proprio il Veneto).

Finalmente liberi da extracomunitari, gli italiani “veri” potranno tornare a rimpossessarsi del loro fantastico territorio senza essere costretti a dividerlo con altri?

…Ovviamente no, anzi, a partire da quella notte nasceranno nuovi problemi che a me hanno posto la fatidica domanda: ma dobbiamo davvero essere grati a Camillo Benso conte di Cavour?

Una commedia divertente e amara che purtroppo è passata quasi inosservata al cinema, nonostante il bel cast: Valerio Mastandrea, Valentina Lodovini e un cattivissimo Diego Abatantuono xenofobo da tv.

Ma diciamocelo chiaramente: davvero in Italia si può parlare così di un argomento simile e riscuotere tanto successo?

Il clamoroso successo di “Sole a catinelle” di Nunziante con Checco Zalone è la esilarante eccezione che conferma la regola.