“Yoga” di Emmanuel Carrère

(Adelphi, 2021)

Emmanuel Carrère è per me l’autore di uno dei libri più affascinanti e al tempo stesso terribili e inquietanti degli ultimi decenni come “L’avversario“, pubblicato per la prima vota nel 2000. Amo molto il suo modo di scrivere e raccontare le vicende e le storie degli altri. E così ho iniziato assai curioso la lettura di questo suo recente libro dove la storia narrata è, invece, la sua.

Il libro sostanzialmente è diviso in due parti, la prima è quella in cui ci racconta la nascita e lo sviluppo del suo rapporto decennale con lo yoga e la meditazione in generale. Il suo approcciarsi alla disciplina orientale quasi per caso fino a divenire un assiduo frequentatore di corsi e seminari sparsi in tutto il mondo, soprattutto da quando il pensiero orientale lo ha aiutato a trovare un equilibrio personale.

La seconda inizia proprio durante un seminario fra le montagne, dove era assolutamente proibito avere contatti col mondo esterno così come con gli altri partecipanti, ma nonostante ciò Carrére viene travolto dalla realtà e soprattutto dalla parte più oscura e abissale del proprio essere. Nei giorni in cui lui era immerso nella natura a meditare, due terroristi legati ad Al-Quaeda entrano nella redazione del giornale satirico “Charlie Hebdo” a Parigi e, armati di Kalasnikov, uccidono 12 persone e ne feriscono altre 11.

Carrère viene colpito profondamente dalla tragedia sia perché da ragazzo era un assiduo lettore del giornale satirico, sia perché conosceva e frequentava direttamente più di una delle vittime. Il ritorno brusco a una realtà violenta contribuisce a far vacillare l’equilibrio dello scrittore che lentamente, ma inesorabilmente, inizia a precipitare nel baratro della depressione, con la quale da sempre ha dovuto combattere.

Grazie a sua sorella viene ricoverato in una clinica parigina specializzata, dove però i farmaci non sembrano sortire l’esito sperato e così ai medici non rimane altro che la terapia elettroconvulsivante, una volta chiamata elettroshock. Fortunatamente per lui, e anche per noi lettori, le sedute di questa dura cura alla fine funzionano e riescono a ridare a Carrère una certa stabilità – grazie anche al supporto di nuovi farmaci – che gli permette di terminare il libro dedicato allo yoga, che da tempo aveva in mente.

Un viaggio crudo e doloroso in una patologia, come la depressione – termine naturalmente generico e superficiale per una malattia che ha invece numerose sfaccettature e intensità – la cui causa per lo scrittore rimane “sconosciuta”. Perché la vita di Carrère, sottolinea a se stesso come a noi lettori, è stata fortunata e piena di successi, anche economici, oltre che di affetti.

Non certo come quella di alcuni giovani migranti minorenni a cui lui stesso propone un corso di scrittura creativa mentre sono “ospiti”, in Grecia, in un centro di accoglienza per profughi in attesa di essere “ridistribuiti” in Europa.

E, guardando quei ragazzi che hanno dovuto lasciare tutto e vivere spesso esperienze terrificanti per raggiungere le porte del nostro continente in cerca solo di sopravvivere – come ci ha raccontato superbamente Matteo Garrone nel suo splendido “Io Capitano” – Carrère si chiede se davvero quella che per loro rappresenta la “Terra Promessa” alla fine non li tradirà lasciandoli soli senza speranza e senza dignità – come si è sentito lui, anche se per ragioni completamente diverse, travolto dalla depressione – rendendoli facili prede di fanatici e subdoli terroristi.

Tragicamente attuale.

“L’avversario” di Emmanuel Carrère

(2000, Einaudi)

Jean-Claude Romand ha una bella moglie, due bambini piccoli, ancora vivi i propri genitori, e soprattutto un bel lavoro da medico.

Romand vive in un paesino francese nei pressi del confine con la Svizzera, che attraversa tutti i giorni per raggiungere il suo posto di lavoro. Ma il 9 gennaio del 1993 il villino dove abitano i Romand va a fuoco.

I soccorritori riescono a salvare solo lui, mentre non possono fare altro che recuperare i cadaveri di moglie e figli. L’evento sconvolge non solo la piccola cittadina, ma tutta la Francia quando gli inquirenti scoprono che la famiglia di Jean-Claude era stata sterminata prima dell’incendio.

Intanto, vengono ritrovati anche i cadaveri dei genitori di Romand: freddati con un fucile da caccia. Durante i primi controlli si scopre che Romand non ha mai lavorato come medico in Svizzera, anzi, non è neanche un medico: non si è mai laureato.

L’ipotesi della classica doppia vita prende subito piede, ma Jean-Claude Romand non aveva una doppia vita. Non ha falciato una famiglia per proteggerne un’altra. Nei diciotto anni di matrimonio Jean-Claude non ha mai lavorato, per inedia e viltà, ha semplicemente fatto passare il tempo stando nella propria macchina, fra i boschi, durante l’orario di lavoro.

Spesso ha finto di andare in trasferta, ma in realtà passava due o tre giorni chiuso nella camera di un hotel dell’aeroporto a guardare la televisione. Per mantenersi ha lentamente rosicchiato il patrimonio dei suoi genitori e quello di suo suocero. Quando alla fine sentiva di stare per essere scoperto ha preferito uccidere chi lo avrebbe giudicato.

La cosa più terribile è che Jean-Claude esiste e – al momento – sconta l’ergastolo in una prigione della Francia. Neanche Stephen King sarebbe riuscito ad immaginare un orrore tanto profondo.