“Palazzina Laf” di Michele Riondino

(Italia/Francia, 2023)

L’immenso stabilimento Ilva di Taranto, uno dei più grandi centri siderurgici d’Europa inaugurato definitivamente nel 1965, da fiore all’occhiello della nostra grande industria dell’epoca d’oro del Boom economico, nel corso degli ultimi decenni si è trasformato in uno dei più grandi problemi sociali, sanitari ed economici del nostro Paese.

La medicina e la scienza hanno dimostrato, purtroppo, come l’acciaieria abbia causato gravissimi e spesso inesorabili danni alla salute non solo alle lavoratrici ed ai lavoratori dello stabilimento stesso, ma anche a quella delle cittadine e dei cittadini della limitrofa Taranto. Intanto, la situazione dei dipendenti dell’Ilva subisce un indiscriminato peggioramento a metà degli anni Novanta, quando il nostro Paese inizia a privatizzare le sue più grandi aziende nazionali.

Nel grande patrimonio di società statali creato dai nostri governi a partire dal secondo dopoguerra – patrimonio che ci permise di diventare negli anni Sessanta la settima potenza industriale del pianeta – che dal 1992 è stato messo in vendita c’è anche l’Ilva, che si ritrova così ad avere dall’oggi al domani una proprietà privata che, come accade fin troppo spesso, per aumentare i ricavi e limitare le spese, per prima cosa inizia a mettere in discussione alcuni fondamentali diritti dei lavoratori.

Taranto, 1997. All’llva lavora come operaio Caterino Lamanna (Michele Riondino), nipote di uno dei dirigenti storici dello stabilimento. Per Caterino il cambio di proprietà non ha voluto dire nulla anzi, poco condivide le proteste che alcuni suoi colleghi minacciano ogni giorno visto il numero sempre più rilevante di incidenti, spesso mortali, che si consumano nello stabilimento.

Così Lamanna viene avvicinato dal dottor Giancarlo Basile (un bravissimo Elio Germano), alto dirigente che ha il compito di riordinare la società per renderla più “snella ed efficiente”. Basile, con la scusa di parlare dello zio di Caterino con il quale lui ha lavorato da giovane, gli chiede di tenerlo informato sugli umori e soprattutto sulle intenzioni dei lavatori in relazione alla nuova riorganizzazione.

Per incoraggiarlo e dimostrargli fiducia, Basile gli assegna anche un’automobile aziendale. Lamanna inizia così a diventare gli occhi e le orecchie di Basile, scoprendo che il delegato sindacale Renato Morra (Fulvio Pepe) si sta rivolgendo ad un avvocato specializzato nel Diritto del Lavoro.

Morra va spesso nella Palazzina Laf – che è l’acronimo di “Laminatoio a freddo” – che molti considerano il “rifugio” dei dipendenti scansafatiche dell’Ilva. Lamanna allora chiede a Basile di essere trasferito proprio lì, in quello che molti considerano il paradiso dei privilegiati. Ma Caterino, nonostante i suoi grandi limiti difficili da superare a causa soprattutto della sua indolenza e dei suoi pregiudizi, alla fine comprenderà che la Palazzina Laf più che il Paradiso è l’Inferno dei lavoratori dell’Ilva, che la nuova dirigenza considera scomodi e che vuole riassegnare in posti lontani o opposti alle loro peculiari competenza proprio per renderli pesi morti, anche agli occhi dei colleghi…

Riondino, al suo esordio dietro la macchina da presa, ci racconta gli eventi che portano la Magistratura italiana ad indagare su quello che ancora oggi è considerato uno dei casi di mobbing più gravi della nostra storia repubblicana. Grazie anche alle ottime interpretazioni di Riondino e Germano, alla sceneggiatura scritta dallo stesso Riondino assieme a Maurizio Braucci, riviviamo uno dei drammi lavorativi più rilevanti della nostra storia recente, e di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze.

La – troppo spesso frenetica – privatizzazione delle nostre grandi aziende, a distanza di circa trent’anni, non ha reso il nostro Paese più agile e più competitivo – come …qualcuno… prometteva allora – ma lo ha fatto diventare soprattutto più povero, arricchendo solo una manciata di “eletti” individui col passaporto italiano, oltre che rimpinguare la casse di varie società straniere.

“The Mysteries” di Bill Watterson e John Kascht

(Andrews McMeel Publishing, 2023)

Il grande Bill Watterson, dopo molti anni, torna a pubblicare un nuovo volume inedito.

Watterson, nato a Washington D.C. nel 1958, pubblica nel 1985 la sua prima vignetta dedicata a “Calvin and Hobbes” che in breve tempo diventa una delle strisce satiriche più famose degli Stati Uniti, pubblicate sui più grandi quotidiani del Paese. Nonostante il clamoroso e duraturo successo, il 31 dicembre del 1995 Watterson decide di smettere di pubblicarle, per dedicarsi ad altro, soprattutto alla pittura.

Nel corso degli anni le sue vignette vengono ripubblicate in varie raccolte che riscuotono sempre un grande successo, non solo negli Stati Uniti. Ma dopo diversi decenni Watterson pubblica una nuova storia inedita, realizzata nelle immagini assieme al caricaturista e illustratore statunitense John Kascht.

Ci troviamo così in un lontano e cupo regno che è afflitto da un grande e oscuro male: i misteriosi, esseri che qualcuno crede sovrannaturali, dalla forza inaudita e capaci di ogni terribile e infame azione. Nel corso del tempo non sono stati pochi gli artisti che hanno ritratto le gesta terrificanti dei misteriosi, cosa che non ha fatto altro che aumentare il terrore in tutta la nazione.

Il Re così raduna i suoi migliori cavalieri per catturare i misteriosi e scoprirne i loro segreti per sconfiggerli. Ma, inesorabilmente, di tutti i cavalieri si perdono le tracce, fino a quando uno, ferito ed esausto, torna al castello con una gabbia che racchiude un misterioso…

Deliziosa e godibilissima favola per adulti densa della grande ironia tipica di Watterson che, unita alle immagini grottesche e surreali realizzate dallo stesso autore insieme a Kascht, ci regalano un piccolo viaggio memorabile e divertente.

“Parasite” di Bong Joon Ho

(Corea del Sud, 2019)

I Kim, una famiglia indigente di Seul, vive alla giornata grazie al modesto sussidio di Kim Ki Taek (Song Kang-ho) il padre ed ex autista, e agli espedienti che riescono a realizzare i due figli poco più che adolescenti Ki Woo (Choi Woo-sik) e la secondogenita Ki Jung (Park So-dam) ai quali collabora sempre anche la madre Chung Sook (Jang Hye-jin).

Gli scarsi mezzi economici hanno impedito ai due ragazzi di portare avanti i loro studi, ma grazie al loro estro e alla loro volontà riescono sempre a rimanere aggiornati sulle novità planetarie attraverso la rete, anche se nel seminterrato dove vivono il segnale è spesso altalenante.

Una sera, un vecchio compagno di studi di Ki Woo, gli propone un’ottima occasione per guadagnare dei soldi. A breve lui dovrà lasciare la Corea per un corso di studi all’estero e da tempo fa delle ripetizioni di inglese alla giovane Da-Hye, la figlia maggiore di una ricca famiglia dell’upperclass della capitale. Per evitare che la giovane s’invaghisca del suo sconosciuto futuro sostituto offre a Ki Woo il posto, certo che lui non lo tradirà, a patto però che si finga uno studente universitario.

A convincere definitivamente Ki Woo è soprattutto la disarmante ingenuità di Yeon Kyo (Cho Yeo-jeong) la madre di Da-Hye. Così Ki Woo inizia il suo nuovo, semplice e assai redditizio lavoro. Tutti i suoi familiari ascoltano incantati i suoi racconti, soprattutto quelli riguardanti la grande opulenza in cui vivono Da-Hye e la sua famiglia.

Ki Jung, assieme al fratello, inizia allora ad elaborare un piano basato su un nuovo castello di bugie per arrivare a lavorare anche lei a casa di Da-Hye; e visto che funziona e che a casa finalmente si vedono soldi come mai era accaduto prima, ne studia un altro subdolo per il padre e poi un altro ancora, senza scrupoli, per la madre ma…

Scritto dallo stesso Bong Joon Ho assieme a Han Jin-won “Parasite” ci racconta in maniera cruda e al tempo stesso visionaria, grazia anche all’ottima regia, una società spaccata in due: poveri e ricchi. Ma le due parti non sono uguali una, quella dei ricchi, è sempre più piccola e opulente, mentre l’altra, quella dei poveri, è sempre più popolosa e senza speranza.

Il ritratto che fa Bong Joon Ho, purtroppo, riguarda tutto l’Occidente, e non solo, dove gli ultimi anni le – famigerate… – contingenze internazionali hanno fomentato una crisi economica che ha abbassato ulteriormente il tenore di vita di quella che una volta era la classe media, la cui consistenza si sta assottigliando sempre di più, naturalmente verso il basso.

Alla stragrande maggioranza del pianeta, quindi, non rimangono altro che le “briciole”, il resto – che certo non è poco – è in mano a sempre meno. I poveri devono accontentarsi e devono essere pronti a tutto e riconoscenti per quello che riescono a rosicchiare e che lasciano, come avanzi, i ricchi nel piatto.

Nei nostri dizionari la parola “parassita” rappresenta, soprattutto, un organismo che vive alle spalle di un altro sfruttandolo al massimo e portandolo, non di rado, alla morte. E dopo aver visto questo film sorge spontanea la domanda: nella società moderna, alla fine, chi sono i veri parassiti?

Da vedere.

“Il violinista sul tetto” di Norman Jewison

(USA, 1971)

Il 22 settembre del 1964 va in scena a Broadway la prima de “Il violinista sul tetto”, musical scritto da Jerry Bock, Sheldon Harnick e Joseph Stein. Gli autori si ispirano ai protagonisti del libro “Tevye il lattivendolo ed altre storie” di Sholem Aleichem (1859-1916) che narra le vicissitudini degli abitanti di uno shetl, una una piccola comunità ebraica, nell’Europa dell’est agli inizi del Novecento.

Il titolo si ispira a un personaggio ricorrente nel quadri di Marc Chagall e simboleggia le grandi difficoltà che nel corso dei secoli le comunità ebraiche hanno dovuto affrontare per poter sopravvivere, come se avessero dovuto suonare il violino rimanendo in piedi su un tetto, col rischio costante di cadere e rompersi l’osso del collo.

Nel cast ci sono attrici e attori veri pilastri del teatro statunitense dell’epoca come Zero Mostel, che interpreta il protagonista Tevye, e Bea Arthur che veste quelli di Yente la sensale. Il successo è clamoroso, tanto da far sbarcare il musical poco dopo anche in altri paesi. Nel 1971 Norman Jewison, con la sceneggiatura scritta dallo stesso Joseph Stein, realizza l’adattamento cinematografico.

1905, nell’Ucraina che è parte della Russia zarista, Tevye (Topol) è il modesto lattaio dello shetl – immaginario – di Anatevka che, non senza fatica e sacrifici, mantiene la sua famiglia composta oltre che dalla moglie Golde (Norma Crane) dalle sue cinque figlie di cui le prime tre, Tzeitel (Rosalind Harris) Hodel (Michele Marsh) e Chava (Neva Small) già in età da marito.

Ciò che dona la forza ogni giorno a Tevye di andare avanti è la sua fede granitica ed il continuo dialogo che ha ogni giorno con l’Onnipotente, al quale pone domande e quesiti sulle ingiustizie e i piccoli e grandi problemi che deve affrontare al sorgere di ogni alba, come le razzie e i pestaggi ciclici che i militari russi impongono a tutto lo shetl.

Vista l’indigenza nella quale vivono, Golde si rivolge a Yente (Molly Picon), la sensale del villaggio, per trovare marito a Tzeitel. Yente offre la ragazza al facoltoso Lazar Woolf, l’anziano macellaio di Anatevka, che subito accetta. Dopo che Tevye e Woolf si stringono la mano sancendo l’accordo per il matrimonio, Tzeitel rivela al padre di amare e voler sposare Motel (Leonard Frey), un giovane e povero sarto.

Il lattaio si trova così davanti ad un bivio del tutto inaspettato: sacrificare la vita e la felicità della figlia o rispettare le millenarie tradizioni della sua cultura, su cui si poggia da sempre la sua stessa esistenza, visto che anche lui ha conosciuto Golde solo il giorno del loro matrimonio, organizzato e voluto dalle rispettive famiglie.

Non senza remore Tevye alla fine asseconda il volere della figlia e manda a monte l’accordo con Woolf. Nel frattempo il lattaio ha ospitato nella sua fattoria Perchik (Paul Michael Glaser, che qualche anno dopo impersonerà il detective Dave Starsky nella mitica serie tv “Starsky & Hutch”) un giovane idealista, convinto sostenitore delle teorie di Karl Marx, che tenta in ogni modo di esortare tutti gli sfruttati a ribellarsi.

Il lattaio non si è accorto però della tenera amicizia nata fra il giovane e la sua secondogenita Hodel così, quando Perchik viene arrestato come rivoluzionario dalle truppe dello Zar e deportato in Siberia e la figlia decide di raggiungerlo per sposarlo, tutte le sue convinzioni tornano a vacillare.

Ma la vita non ha certo finito con Tevye: sua figlia Chava gli confessa di voler sposare Frydka (impersonato dall’italiano Ray Lovelock che diventerà uno dei volti più noti del cinema poliziottesco nostrano di quegli anni) un giovane ucraino avulso dalla comunità ebraica. E il capo del comando delle guardie comunica a tutti gli abitanti di Anatevka che entro tre giorni devono vendere i loro averi e lasciare il villaggio come stabilito dall’editto dello Zar…

Girato nelle campagne nei pressi di Belgrado, “Il violinista sul tetto” è uno dei migliori adattamenti di un musical di Broadway del Novecento e rimane una pietra miliare del genere. La storia di Tevye e della sua famiglia ci racconta di come l’integralismo religioso – che in questo caso è quello legato alla religione ebraica ma che vale anche per le altre, per quella cattolica per esempio ce lo ricorda stupendamente Paola Cortellesi nel suo bellissimo “C’è ancora domani” – altro non è che una forma di duro e ferreo patriarcato castrante e limitante, non solo per chi lo subisce ma anche per chi lo impone.

Tevye, che ama e rispetta incondizionatamente il suo Dio, soffre e si lacera comunque nel dover imporre alle sue tanto amate figlie le stesse cose che le “tradizioni” hanno prima imposto a lui. E naturalmente le prime vittime del patriarcato, indipendentemente dal travestimento che questo assume, sono sempre le donne.

Anche se ci racconta una storia di oltre un secolo fa, “Il violista sul tetto” rimane un film, purtroppo, assai attuale, tanto che il violista sul tetto è una metafora che può andare bene anche per le donne, in paesi come il nostro, dove ogni giorno devono portare avanti al meglio la loro esistenza, troppo spesso con vicino un uomo che le può spingere giù dal tetto.

“Il labirinto del fauno” di Guillermo Del Toro

(Messico/Spagna, 2006)

Con questa pellicola viene consacrato definitivamente il genio cinematografico di Guillermo Del Toro. Il cineasta messicano, infatti, scrive e dirige una delle pellicole più visionarie e struggenti del decennio, raccontando la storia di una bambina la cui infinita fantasia non può, purtroppo, sopravvivere in una realtà crudele e ottusa.

Del Toro decide di ambientare la storia della piccola Ofelia (Ivana Baquero) nel 1944, nella Spagna sotto la dittatura franchista. Scelta molto simile a quella che farà dopo nel suo bellissimo “Pinocchio“, ambientandolo nell’Italia sotto la dittatura fascista.

Ofelia e sua madre Carmen (Ariadna Gil) sono costrette a fare un lungo e faticoso viaggio in una delle zone montuose più selvagge della Spagna per raggiungere il capitano Vidal (un bravissimo e cattivissimo Sergi Lòpez) secondo marito della stessa Carmen. Il primo, il padre di Ofelia, era un sarto morto improvvisamente, evento che ha costretto sua madre ad accettare la corte del dispotico e arrogante militare franchista.

Ora che è all’ultimo mese di gravidanza, Vidal vuole a tutti i costi che suo figlio nasca davanti ai suoi occhi e così ha costretto la moglie e la figliastra a seguirlo dove è in missione per stanare e annientare gli ultimi ribelli repubblicani che combattono contro il regime di Franco. Il viaggio e la sistemazione sono molto faticosi e precari, e così Carmen è costretta a muoversi su una sedia a rotelle e passare il resto del tempo a letto.

Il carattere libero della piccola viene mal tollerato dal suo patrigno, che cerca in ogni modo di isolarla e tenersela lontano, affidandola a Mercedes (Maribel Verdù), la governante del casale sperduto nei boschi.

Ad Ofelia non rimane che la sua fantasia per affrontare il triste e duro momento che sta vivendo, e così grazie ad alcune fate del bosco, di notte, incontra il fauno custode del labirinto costruito da tempo immemore non lontano dal casale. La creatura fantastica sostiene che la stessa Ofelia è la principessa del mitico mondo sotterraneo, fuggita molto tempo prima, che suo padre il Re non ha mai smesso di cercare.

Varcando la soglia del mondo fantastico, però, la principessa ha perso memoria del suo vero passato, motivo per il quale Ofelia non ricorda nulla. Per tornare nel mondo a cui davvero appartiene la piccola sarà costretta a superare tre prove. Intanto, però, la cruda realtà, incarnata soprattutto da Vidal, inesorabilmente incombe…

Nonostante l’atmosfera cupa e dolorosa che la pervade, questa pellicola rimane un indimenticabile omaggio a tutti coloro che vogliono sognare. La storia di Ofelia è la storia di molti che tentano di sopravvivere a momenti difficili, come l’adolescenza, cercando di rimanere sempre e comuque fedeli a se stessi e ai proprio sogni.

Non tutti ce la fanno, purtroppo, ma chi riesce a sopravvivere al duro impatto con la realtà magari diventa poi un ottimo scrittore e un grande regista.

Fra i numerosi premi vinti in tutto il mondo, “Il labirinto del fauno” ottiene anche cinque candidature e tre Oscar.

Da vedere.

“Senza piume” di Woody Allen

(La Nave di Teseo, 2023)

Pubblicato per la prima volta nel 1976 e in italiano col titolo “Citarsi addosso”, “questo libro “Senza piume” – curato in questa edizione da Daniele Luttazzi – contiene brevi pezzi e racconti che Woody Allen ha scritto fino ai primi anni Settanta, periodo in cui ha deciso di dedicarsi quasi completamente al cinema.

Già adolescente Woody Allen era uno dei più noti e ben pagati autori di battute per artisti del cabaret, della radio e della televisione. Rileggere i suoi scritti, sempre e comunque divertenti ed esilaranti, non stanca mai.

Certo, la sua arte col corso dei decenni – e anche a seguito delle sue vicissitudini personali – è cambiata evolvendosi. Ma il genio newyorkese rimane sempre ironico e pungente. Fra i racconti c’è quello che poi, modificato dalla stesso autore, è diventato il soggetto del suo film “Ombre e nebbie”, così come è semplice – e al tempo stesso godibilissimo – scovare in battute o gag accenni o riferimenti a sue successive sue opere cinematografiche.

Nonostante la grande ironia che permea ogni pagina, non si può che condividere quello che lo stesso Allen disse in un’intervista qualche anno fa, sostenendo di essere un autore di tragedie – nel senso classico del termine – e non di commedie, e che il suo pubblico ormai da decenni commette un inspiegabile …errore.

“Le avventure di Buckaroo Banzai nella quarta dimensione” di W.D. Richter

(USA, 1984)

Nell’ottobre del 1984 esce nelle sale statunitensi un film di fantascienza destinato a diventare un piccolo cult, che nel corso del tempo viene spesso citato o imitato. Basta pensare che Steven Spielberg ne fa un chiaro riferimento nel suo “Ready Player One” del 2018, quando Parzival sta per incontrare Art3mis e sceglie il look più cool ispirandosi proprio al protagonista di questo film.

I motivi perché questa pellicola, soprattutto negli USA, è considerata una delle più rappresentative degli anni Ottanta sono molti, a partire dal cast che annovera attrici e attori che diventeranno icone cinematografiche non solo di quel decennio come Peter Weller, che impersona proprio Buckaroo Banzai. Ci sono poi Ellen Barkin, John Lightgow, Jeff Goldblum, Clancy Brown e Christopher Lloyd che solo pochi mesi dopo impersonerà il professor Emmett Brown nel mitico “Ritorno al futuro“.

A proposito di “Ritorno al futuro”, proprio nelle sequenze iniziali di “Le avventure di Buckaroo Banzai nella quarta dimensione” il protagonista sfida la fisica con la sua autovettura futuristica il cui cuore pulsante è uno strumento molto – ma molto… – simile al flusso catalizzatore della Delorean di Doc Brown…

Tornando al film di W.D. Richter – che poco dopo parteciperà alla stesura dello script di un’altra pietra miliare del cinema degli anni Ottanta, e non solo, come “Grosso guaio a Chinatown” diretto dal maestro John Carpenter nel 1986 – anche la trama, frenetica, affatto lineare e che racchiude svolte narrative tipiche di vari generi apparentemente incompatibili, rappresenta al meglio lo spirito edonistico e glitterato di quegli anni.

Buckaroo Banzai è uno dei migliori neurochirurghi del pianeta, ma ha deciso tralasciare la sua carriera medica per dedicarsi al rock – con la sua band “The Hong Kong Cavaliers” – e alla guida di un veicolo speciale – di sua ideazione – in grado di superare i limiti della fisica conosciuta e portarlo nell’ottava dimensione (…sì, è l’ottava dimensione, forse i distributori italiani credevano che fosse “troppa” e così l’hanno divisa per due).

Per festeggiare la grande impresa Buckaroo si esibisce in un concerto dove incappa in Penny (Ellen Barkin) che sembra essere la sorella gemella della sua ex amata, di cui non ha più notizie.

Intanto, tutto il mondo parla dell’impresa di Buckaroo e la cosa arriva anche alle orecchie del perfido dottor Emilio Lizardo (John Lithgow) scienziato senza scrupoli del regime fascista italiano che dopo il fallimento del suo esperimento – riuscito invece ora a Buckaroo – e la fine della Seconda Guerra Mondiale è stato rinchiuso in un manicomio criminale.

Grazie all’appoggio di alcune creature aliene che possono prendere sembianze umane come John Bigboote (Christopher Lloyd) Lizardo cambia identità e diventa Lord John Whorfin acquistando poteri sovrannaturali. La cosa gli permette di impadronirsi del propulsore grazie al quale Buckaroo è riuscito a visitare l’ottava dimensione. Il suo intento è quello di reclutare le perfide creature che la abitano e conquistare il mondo.

Ma Buckaroo è sulle sue tracce insieme ai sui Hong Kong Cavaliers, di cui fanno parte Rawhide (Clancy Brown) e New Jersey (Jeff Goldblum), e all’aiuto di John Parker (Carl Lumbly) un alieno mutaforma proveniente dal pianeta acerrimo nemico di quello da cui arrivano gli alleati di Lord Whorfin…

Scritta da Earl Mac Rauch, questa pellicola incarna come poche lo stile e l’atmosfera di quegli anni e, nonostante alcuni limiti nella sceneggiatura, è davvero un piccolo cult trash. Facendo una citazione pubblicitaria di successo proprio in quel periodo: questo film è “per molti, ma non per tutti” …i nostalgici dal palato fino degli anni Ottanta.

“C’è ancora domani” di Paola Cortellesi

(Italia, 2023)

“La storia siamo noi” canta in maniera sublime Francesco De Gregori, in un’indimenticabile canzone che sembra rappresentare, in poche parole, l’anima dell’esordio dietro alla macchina da presa di Paola Cortellesi, che ci regala una delle migliori pellicole italiane degli ultimi anni.

Insieme a Furio Andreotti e Giulia Calenda (autori, fra le altre cose, della sceneggiatura del film “Come un gatto in tangenziale” diretto da Riccardo Milani) Cortellesi scrive e dirige un film che ci tocca nel profondo, raccontandoci la storia di una donna italiana che, “come tante”, ha vissuto uno dei momenti fondamentali del nostro Paese: il referendum istituzionale del 2 giugno del 1946 in cui le donne italiane per la prima volta hanno potuto esercitare il loro diritto al voto.

E lo fa attraverso la vita terribile e al tempo stesso “ordinaria” di Delia (la stessa Cortellesi), una donna di mezz’età, semi analfabeta, madre di tre figli, moglie – e quindi di completo possesso, come prevedeva la nostra società di allora… – del dispotico e violento Ivano (un bravissimo Valerio Mastandrea).

L’Italia è appena uscita sconfitta dalla catastrofe sanguinaria della Seconda Guerra Mondiale e dalla dittatura fascista che nei quasi vent’anni precedenti aveva dominato, spesso in maniera ottusa, il nostro Paese. Sul “ventennio” c’è ancora oggi chi sostiene che “…però di cose buone ne sono state fatte” ignorando, più o meno in buona fede, i gravi danni economici, sociali e culturali che la dittatura, instaurata a forza di olio di ricino e manganellate, ha lasciato nel nostro Paese.

Fra questi ci sono quelli – indiscutibili! – legati alla condizione delle donne, che vivevano in totale funzione degli uomini. Non potevano votare né ricoprire ruoli sociali, se non quello della madre devota e remissiva. Madre che quasi sempre aveva il carico totale della gestione della casa e della famiglia, ma che doveva sottostare al marito quando questo, stanco del lavoro quotidiano, tornava a casa esausto.

Delia così si occupa della casa, dei tre figli e dell’arrogante suocero allettato Ottorino (Giorgio Colangeli), nonché di tutti i bisogni e i desideri di Ivano. E quando sbaglia, o il marito decide che lei ha sbagliato …so’ botte, e zitta!.

Mentre i due figli maschi vanno a scuola, Marcella (Romana Maggiora Vergano) la figlia maggiore ormai quasi ventenne, in quanto donna, dopo le elementari è stata mandata dal padre a lavorare per portare i soldi a casa. Se Delia sembra ormai rassegnata alla propria disperata esistenza, quando intravede un orizzonte simile per la figlia decide di opporsi con tutti i – pochi – mezzi che ha a disposizione.

Ma uno di questi è così potente e deflagrante da cambiare per sempre il corso della storia del nostro Paese…

Grazie all’ottima sceneggiatura e al cast superbamente diretto da Cortellesi, “C’è ancora domani” ci ricorda da dove veniamo e come è importante non dimenticare le cose che abbiamo, che sono state tanto dure e difficili da ottenere, ma che rischiamo di perdere molto rapidamente. Basta pensare che c’è chi recentemente, rappresentando ufficialmente le nostre istituzioni, ha dichiarato che le donne in Italia hanno “…purtroppo” il diritto all’aborto.

La piaga sociale del femminicidio, che martoria il nostro Paese quasi con cadenza quotidiana, parte da lontano e si appoggia su costumi e usi che fino a poco tempo fa erano considerati “normali”. E solo nel 1996 – sette anni dopo la caduta del muro di Berlino! – la nostra legislatura ha modificato da “reato contro la morale” a “reato contro la persona” lo stupro.

La battaglia per la completa emancipazione della donna in Italia non è certo conclusa, il subdolo e al tempo stesso feroce patriarcato non intende mollare la presa e fa di tutto per frenarla, ma la strada è segnata e tutto in fondo, come di ricorda Cortellesi, dipende da noi.

Da vedere e far vedere a scuola.

“Mia nonna saluta e chiede scusa” di Fredrick Backman

(Mondadori, 2016)

Checché se ne dica, la vita non è semplice per nessuno. Neanche per una bambina di sette anni che ama l’intera saga di Harry Potter e che tutti considerano una tipa strana, molto matura e forse anche per questo …molto “diversa”.

Così la scuola per Elsa non è un ambiente sereno. Non capita giorno in cui non venga bullizzata da alcune compagne di classe che proprio non sopportano la sua eccentricità e la sua intelligenza. Ma a sua madre Ulrika non può certo raccontare quello che le capita quotidianamente perché non capirebbe, e poi ha bisogno di tutta la serenità possibile visto che sta portando a termine la gravidanza alla fine della quale nascerà il suo fratellastro.

Perché Elsa vive con la madre e con George, il nuovo compagno, dato che il matrimonio con il suo papà è naufragato ormai da qualche tempo. L’unica persona che la capisce completamente è sua nonna materna che, guarda caso, anche lei è stata sempre un tipo molto “originale”. Era un chirurgo e ha girato tutto il mondo, è stata in posti di guerra e di dolore dove ha salvato decine di vite umane. Ma questo l’ha tenuta per molto tempo lontana da casa e così sua figlia Ulrika è cresciuta la maggior parte del tempo senza di lei.

Ora che ha settantasette anni la nonna non vuole commettere lo stesso errore con sua nipote e così la sostiene con tutti i mezzi possibili. Il segreto più grande fra loro due è Miamas, il mondo fantastico che si può visitare mentre ci si addormenta la sera. Ma la nonna, fumatrice incallita, sta perdendo la sua battaglia contro un implacabile tumore, e così lascia ad Elsa una serie di lettere da consegnare agli abitanti del condominio in cui loro due, assieme ad Ulrika, vivono.

Per Elsa sarà un viaggio per conoscere alcuni aspetti della nonna, di sua madre e anche di se stessa impensabili ed incredibili…

Pubblicato per la prima volta nel 2013, questo piacevole romanzo anticipa alcuni dei temi che Backman svilupperà nel suo libro successivo e certamente più famoso “L’uomo che metteva in ordine il mondo“, come la perdita di un affetto centrale nella propria esistenza e l’emarginazione che provoca l’essere emotivamente e caratterialmente “diversi” dalla massa.

Così come gli altri scritti di Backman, anche questo è un inno alla tolleranza e all’inclusione, che ci racconta di un mondo dove nessuno è perfetto, o buono o cattivo al 100%, e dove l’impresa più ardua è quella di riuscire a convivere con se stessi.

D’altronde, come dice un antico proverbio cinese: “L’albero storto vive la sua esistenza nel bosco, quello dritto finisce sul tavolo del falegname”.

“Shining” di Stanley Kubrick

(UK/USA, 1980)

A volte le rovine di errori o insuccessi nascondono le basi di veri trionfi e opere destinate a cambiare il corso dell’arte. Così, dopo il clamoroso flop al botteghino di “Barry Lyndon” uscito nelle sale nel 1975, Stanley Kubrick aveva assoluto bisogno di realizzare una nuova pellicola di successo per rimanere padrone del proprio lavoro. Il regista, americano di nascita e britannico d’adozione, come per quasi tutti i suoi film, cercava un libro da cui trarre la sceneggiatura e scelse il genere horror che in quel momento stava superando tutti gli altri come adepti e successi in libreria.

Iniziò così, assieme al suo staff, uno studio dei volumi disponibili sul mercato, ma nessuno sembrava soddisfare le sue esigenze. Si dice che proprio in questa occasione abbia preso in considerazione anche la trilogia de “Il Signore degli Anelli” di J.R.R. Tolkien, che però ritenne irrealizzabile secondo i suoi standard cinematografici.

Ma già dopo aver letto le prime pagine di “Shining”, il nuovo romanzo del giovane autore americano Stephen King pubblicato nel 1977, Kubrick capì di avere fra le mani il soggetto del suo nuovo film. Una volta opzionati i diritti, il grande cineasta iniziò la produzione di quello che sarebbe diventato uno dei suoi successi commerciali più rilevanti, ma sopratutto una pietra miliare della cinematografia planetaria.

Come per ogni sua altra opera cinematografica, Kubrick usava come “spunto” il libro originale per riscrivere la storia a suo modo. Così accadde anche per “Shining”, in cui il regista compie numerosi cambiamenti rispetto al romanzo originale. Le cronache del tempo ci riportano non poche lamentele e critiche stizzite dello stesso King nei confronti di Kubrick reo, secondo lo scrittore, di non rimanere fedele al suo scritto.

Fra quelle più evidenti ci sono le diaboliche siepi vegetali che nel film sono sostituite dal labirinto, così come altri particolari a partire dal numero della camera (217 e non 237 come nel film) o di come l’anima malvagia dell’Overlook Hotel divori quella di Jack Torrance, processo nel romanzo più lento rispetto a quello del film.

Per questo, probabilmente, Kubrick inserisce nel film una sequenza apparentemente inutile. Mentre Hallorann (Scatman Crothers) preoccupato torna all’Overlook Hotel, percorrendo una strada innevata viene rallentato da un grave incidente. Si tratta di un autoarticolato che si è ribaltato e ha travolto un’automobile. Il regista ci da il tempo di notare che la macchina distrutta, il cui conducente evidentemente non ha avuto scampo, è un maggiolino Volkswagen di colore rosso. Proprio come quello del Jack Torrance del romanzo, che non è del colore chiaro di quello del protagonista del film. Kubrick, quindi, ci ricorda risolutamente che stiamo vedendo una sua opera e non una di King, il cui protagonista originale è bello che morto e sepolto sotto a un TIR, invitandoci a farcene definitivamente una ragione.

Un libro e il film tratto da esso, volenti o nolenti, sono due opere nettamente differenti, così come lo sono per forma, tempi e struttura la letteratura e il cinema. Se il romanzo di King è davvero avvincente e al tempo stesso inquietante raccontando in maniera originale e terribile il più grande incubo di uno scrittore: l’impotenza creativa; la pellicola di Kubrick ci trascina inesorabilmente nell’inferno di una mente malata materializzando quell’incubo con scene mozzafiato e terrificanti.

Ogni sequenza è studiata per creare disagio nello spettatore, grazie anche alla tecnica della pubblicità subliminale che in quegli anni venne definitivamente vietata e che il regista studiò a fondo. Kubrick mette finestre dove fisicamente è impossibile che ci siano, crea continue allusioni sessuali spesso spiacevoli e ambigue, o cambia il senso della moquette a seconda dell’inquadratura.

Anche l’uso del sonoro è “diabolico”, basta pensare alla sequenza del piccolo Danny che gira sul triciclo per l’albergo, prima di incontrare le gemelle, sequenza in cui il rumore delle ruote viene ripetutamente interrotto dai tappeti sistemati ad hoc.

Cinematograficamente parlando, poi, c’è il massiccio uso della steadicam a mano, la macchina da presa che invece del carrello viene mossa direttamente dall’operatore che l’ha sistemata sulle spalle. Con una serie di carrucole e leve, nonostante il movimento, la riprese sono perfette senza oscillazioni né sobbalzi. Cosa che permette di girare scene in movimento, come su una scalinata, senza problemi. A inventarla è stato a metà degli anni Settanta l’americano Garrett Brown – che, per esempio, nel 1976 gira la famosa scena in cui Sylvester Stallone corre sulla scalinata in “Rocky” – che Kubrick sceglie come operatore del film.

Grazie a Brown e alla sua steadicam, Kubrick ci fa seguire gli attori in maniera quasi morbosa e ossessiva, cosa che aumenta l’ansia e il disagio di noi spettatori. Naturalmente va ricordato anche il cast artistico con uno stratosferico Jack Nicholson – apprezzato anche da King -, Shelley Duvall, lo stesso Crothers e il piccolo Danny Lloyd. Nella nostra versione deve essere citato anche il grande Giancarlo Giannini che dona superbamente la voce a Nicholson con quel suo “Wendy …sono a casa!” che ancora ci fa venire i brividi.

Nonostante sia stato sempre considerato un regista dispotico e maniacale, poco amato dagli attori che hanno avuto l’onore di lavorare con lui, Stanley Kubrick rimane indiscutibilmente uno dei più grandi registi di tutti i tempi, e questo film, come molti altri da lui firmati, ce lo ricorda perentoriamente visto che a distanza di oltre quarant’anni ancora ci mette i brividi.

Un capolavoro assoluto.