“Earwig e la strega” di Goro Miyazaki

(Giappone, 2020)

Hayao Miyazaki torna a ispirarsi alla scrittrice inglese Diana Wynne Jones (1934-2011) dopo l’adattamento cinematografico del suo romanzo “Il castello errante di Howl”, realizzato dallo studio Ghibli nel 2004.

Se l’idea è del maestro Hayao, la regia di questo lungometraggio è di Goro Miyazaki, il figlio. Ci troviamo così nell’orfanotrofio di St. Morwaid, in un piccolo centro della campagna britannica, alla porta del quale un’affascinante donna dalla leonina capigliatura rossa – e dai poteri magici – lascia una piccola bambina che su un biglietto chiama Earwig.

La piccola, diventando ragazzina riesce – col potere magico dei “manipolatori” – a far fare alle persone quello che lei vuole, perfino alla direttrice dell’orfanotrofio. Le cose si complicano quando Earwig viene adottata da una strana coppia: Bella Yaga e Mandragora. Se la prima sembra proprio una perfida e arcigna strega, il secondo invece è ancora più inquietante tanto da sembrare un vero e proprio demone, con la passione per il rock, soprattutto quello degli anni Settanta.

Ma Earwig non si scoraggia e così…

Anche prima di essere vista, questa pellicola è stata critica da molti, soprattutto da numerosi “addetti ai lavori”, che non hanno gradito il passaggio dall’animazione classica a quella completamente digitale in 3D fatto dallo Studio Ghibli per realizzarla.

Se prima di sedermi in sala anch’io – anche non essendo un famigerato “addetto ai lavori”, ma solo un onesto spettatore – ero un pò scettico, vedendo questi circa 82 minuti di incantevole cinema d’animazione mi sono dovuto ricredere. I Miyazaki, infatti, donano magia e incanto anche alla nuova tecnica – per lo Studio Ghibli – della computer grafica.

Anzi, proprio grazie al loro genio e talento, riescono ad aumentare le potenzialità visive e immaginifiche della tecnica. Sia chiaro, sono un amante di tutti i grandi film di Hayao Miyazaki e dello Studio Ghibli in generale, ai quali non cambierei per nulla al mondo neanche un solo fotogramma. Così come dei grandi classici d’animazione che hanno fatto la storia del cinema e la mia. Ma il linguaggio visivo usato in questo film possiede tutta la magia e la dignità di un classico dell’animazione.

D’altronde ricordo molto bene nel 1996 certi “addetti ai lavori”, quando “Toy Story” diretto da John Lasseter approdò nelle nostre sale, dire seri, tronfi e sicuri: “…I cartoni animati realizzati con la computer grafica al cinema non dureranno, questo brutto film è solo una bolla di sapone…”.

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