“Nessuno ti salverà” di Brian Duffield

(USA, 2023)

Brynn (una bravissima Kaitlyn Dever) è una ragazza che vive da sola in una grande casa di campagna, fuori da una delle tante cittadine del midwest americano. Ama cucire e ampliare il piccolo villaggio in miniatura che ha costruito sul tavolo del grande salotto, villaggio che aveva iniziato a creare con sua madre, morta poco tempo prima.

Le sue visite in città sono molto veloci, anche perché nessuno dei suoi concittadini sembra tollerarla troppo. L’unico rapporto che ha con l’esterno è con la sua migliore amica Maude, alla quale scrive delle lettere quotidiane e della quale ha foto sparse in tutta casa. Una notte, però, Brynn viene svegliata da alcuni strani rumori e quando scende in salotto per caprine la causa si accorge che un alieno sta curiosando nel suo salone.

La ragazza prima cerca di fuggire in tutti i modi, ma alla fine è costretta a combattere contro gli alieni, che fra le altre cose hanno anche il potere della telecinesi. Ma oltre agli alieni Brynn deve vedersela contro il suo crudele passato…

Brian Duffield – che ha al suo attivo le sceneggiature di film come “Love and Monster” o “Underwater” – scrive e dirige un vero e proprio gioiellino di sci-fi. Nonostante il genere e l’ambientazione Duffield realizza un film dove non ci sono dialoghi, solo alla fine pochissime parole sussurrate, esercizio di stile davvero molto complicato. Ma non avere dialoghi non vuol dire non aver il sonoro, visto che la comunicazione fra gli alieni è spesso assordante così come lo è sovente la colonna sonora.

Davvero un ottimo esempio di “piccolo” film indipendente destinato a diventare un cult assoluto. Non è un caso, quindi, che il maestro Stephen King, proprio pochi giorno dopo la sua messa in streaming, lo abbia elogiato su Twitter. Nel post il Re lo paragona, giustamente, allo strepitoso episodio “Gli Invasori”, facente parte della seconda stagione della mitica serie televisiva “Ai confini della realtà“, andato in onda negli Stati Uniti il 27 gennaio del 1961.

L’episodio venne scritto da due veri e propri maestri: il grande Rod Serling, creatore della serie, e Richard Matheson, sceneggiatore e scrittore, autore fra le altre cose di uno dei romanzi di fantascienza più famosi e adattati di tutti i tempi: “Io sono leggenda”, pubblicato per la prima volta nel 1954.

Da vedere, e se lo dice il Re…

“Ai confini della realtà” di Rod Serling

(USA, 1959-1964)

Rod Serling (1924-1975) è stata una delle figure più rilevanti del cinema e soprattutto della televisione americana del secondo Novecento. Anche se è stato l’autore di sceneggiature di film come “I giganti uccidono” o “Una faccia piena di pugni” (pellicola che ha segnato il cinema e la cultura degli Stati Uniti, tanto da influenzare lo stesso Sylvester Stallone per la stesura dello script di “Rocky” e Quentin Tarantino per quella di “Pulp Fiction”, solo per citarne due) il suo nome sarà per sempre legato alla serie televisiva antologica “Ai confini della realtà” che creò nel 1959 e che venne trasmessa dalla CBS fino al 1964.

Il 24 novembre del 1958 va in onda, per la serie antologica “Westinghouse Desilu Playhouse” l’episodio “L’elemento tempo” scritto da Rod Serling e diretto da Allen Reisner, in cui il protagonista è Pete Jansen (William Bendix), un uomo che rivela al suo medico il dottor Gillespie (Martin Balsam) che ogni notte rivive lo stesso sogno più che reale: essere a Honolulu le ventiquattro ore che precedono l’attacco di Pearl Harbour il 6 dicembre 1941. Il sogno si tramuta incredibilmente e inspiegabilmente in realtà…

Se gli spettatori di quegli anni sono avvezzi alla fantascienza, anche quella più semplice, nessuno invece ha mai visto niente di simile, un racconto fantastico più che fantascientifico, e al tempo stesso concreto e drammatico. Il successo è notevole tanto che la CBS decide di affidare al suo autore il compito di creare e seguire una vera e propria serie antologica con gli stessi toni e argomenti.

Il titolo Serling lo prende dal gergo aeronautico degli anni Quaranta e Cinquanta in cui “twilight zone” si riferisce all’effetto visivo per il quale, in determinate condizioni, la linea dell’orizzonte scompare alla vista del pilota per alcuni instanti durante l’atterraggio. Una zona di luci e ombre in cui è facile perdere l’orientamento.

Per presentare ogni puntata, che ha sempre attori nuovi e una storia indipendente dalle altre, Serling vorrebbe Orson Welles ma il cachet è troppo alto per il budget fissato dalla produzione, interpella poi Richard Egan che però ha appena firmato un contratto esclusivo per un film. Così, per affrettare i tempi e limitare le spese, viene stabilito che sarà lui stesso il presentatore.

Il 2 ottobre del 1959 va in onda il primo episodio della prima stagione “La barriera della solitudine”, scritto naturalmente dallo stesso Serling. Inizia così un nuovo genere televisivo e un nuovo modo di raccontare i sogni e gli incubi della società americana, oppressa in quegli anni dalla guerra fredda. Ma Serling, in anni in cui gli Stati Uniti erano ancora fortemente razzisti, riesce a parlare di tolleranza, uguaglianza e rispetto con originalità e intelligenza, soprattutto alle nuove generazioni che il venerdì sera rimangono attaccate alla televisione per poco più di venti minuti, il tempo di ciascun episodio, senza avere neanche il coraggio di sbattere le palpebre.

L’impatto è enorme e incredibilmente duraturo, visto che ancora oggi, a distanza di sessant’anni, tutti – o quasi – gli episodi continuano ad avere il loro fascino e la loro potenza narrativa. Per quanto concerne i piccoli di allora, basta ricordare due dei tanti fan che hanno più di una volta dichiarato che senza questa serie la loro vita e la loro arte non sarebbero state le stesse: George Lucas e Steven Spielberg.

Tanto che lo stesso Spielberg produce e dirige uno dei tre episodi del film “Ai confini della realtà“, dedicato e ispirato proprio alla serie di Serling, che realizza assieme a John Landis, George Miller e Joe Dante nel 1983.

Sono moltissimi gli attori, ma anche i registi, che giovani e ancora sconosciuti girano uno o più episodi che andranno in onda dal 1959 al 1964. Nomi come Robert Redford, Sidney Pollack, Ida Lupino (che reciterà nell’episodio della prima stagione “Il sarcofago” e dirigerà l’episodio “Le maschere” della quinta stagione, fra le prime donne in assoluto ad esordire dietro una telecamera), Peter Falk, Charles Bronson, Lee Marvin (interprete dell’episodio “La tomba” della terza stagione, che come alcuni altri, col passare del tempo, è diventato una vera e propria leggenda metropolitana), Robert Duvall, Dennis Hooper, Martin Landau, Art Carney, Cloris Leachman, Ron Howard (nei panni di un bambino nell’episodio “La giostra” della prima stagione), Paul Mazursky, Burt Reynolds, Jack Warden, Burgess Meredith (che poi vestirà i panni del primo allenatore di Rocky Balboa, ma che interpreterà alcuni episodi fra cui lo strepitoso “Tempo di leggere” andato in onda nella prima stagione), Kevin McCarthy (protagonista del bellissimo “Lunga vita a Walter Jameson”, ancora oggi molto citato), William Shatner (interprete di due episodi fra cui il famosissimo “Incubo a 20.000 piedi” diretto da un giovane Richard Donner) James Coburn, Lee Van Cleef o Telly Savalas, solo per citare i più famosi.

Senza parlare delle attrici e degli attori che diventeranno famosi, negli anni successivi, soprattutto nel piccolo schermo come Agnes Moorehead (interprete del delizioso “Gli invasori” della seconda stagione), Bill Bixby, George Takei, Jack Klugman, Elizabeth Montgomery, Roddy McDowall (protagonista del caustico “Gente come noi”) Claude Atkins e Jack Weston (questi ultimi due interpreti del bellissimo “Mostri in Marple Street”, fra i più significati e antirazzisti della serie che si schiera, neanche troppo velatamente, contro la famigerata “caccia alle streghe” maccartista di quegli anni).

A scrivere gli episodi delle prime stagioni, oltre a Serling, ci sono Charles Beaumont e Richard Matheson (autore, nel 1954, del bellissimo romanzo di fantascienza “Io solo leggenda” da cui sono stati tratti vari adattamenti cinematografici tra i quali, da ricordare, “L’ultimo uomo sulla Terra” e “1975: occhi bianchi sul pianeta Terra”, nonché la lunga serie di lungometraggi che parte da “La notte dei morti viventi” diretto da George Romero nel 1968 e passa per “28 giorni dopo” diretto da Danny Boyle nel 2002). Visto il clamoroso successo della serie però, nel corso degli anni, Serling venne citato in numerosissime cause per presunto plagio, cosa che alla fine lo costrinse a cedere i diritti di “Ai confini della realtà” direttamente alla CBS.

Amareggiato, Rod Serling si dedicò a serie con i toni più marcati dell’orrore, fino al 28 giugno del 1975 quando, mentre stata tagliando l’erba del suo giardino, venne stroncato da un infarto a soli 50 anni. Certo, oggi è difficile non associare la sua improvvisa e fulminante morte alle sigarette che aveva sempre in mano, anche quando presentava gli episodi della sua serie più famosa e nella quale divenne anche il testimone di una nota fabbrica di tabacco, o nelle varie foto che lo ritraggono nella vita di tutti i giorni.

Se Serling ha conosciuto il successo e la stima dei suoi contemporanei, non ha potuto apprezzare quelli delle generazioni successive che ancora oggi amano profondamente la sua opera.

Vera pietra miliare della televisione e dell’immaginario collettivo del Novecento, “Ai confini della realtà” è una serie immortale e da vedere e rivedere ad intervalli regolari.

“The Truman Show” di Peter Wier

(USA, 1998)

Siamo alla fine degli anni Novanta, il nuovo millennio è ormai alle porte ma la società a molti non sembra pronta ad affrontare le sfide che il nuovo corso storico sembra presentare all’orizzonte.

A dominare la scena planetaria è senza dubbio la televisione che sta immettendo un nuovo – …ma poi era davvero così? – format: il reality, destinato a rivoluzionare il modo di fare e soprattutto di vedere la televisione.

E così lo sceneggiatore neozelandese Andrew Niccol – classe 1964, che poi scriverà e dirigerà il bellissimo “Gattaca – La porta dell’universo” – ispirandosi ad alcune memorabili puntate delle prime stagioni della straordinaria serie televisiva “Ai confini della realtà” creata da Rod Serling nel 1959, e al racconto di Philip K. Dick “Tempo fuor di sesto” pubblicato per la prima volta sempre nel 1959, firma uno script il cui protagonista ignora di essere il personaggio principale del reality show più famoso del globo.

Programma tv noto in ogni angolo del pianeta e conosciuto da tutti, tranne che dallo stesso Truman Burbank (un bravissimo Jim Carrey, forse alla sua migliore interpretazione e inspiegabilmente ignorato agli Academy Awards), adottato legalmente trent’anni prima dal network che ha costruito il set più grande del mondo dove lo ha fatto crescere e vivere, riprendendo ogni istante a sua totale insaputa.

Truman vive assieme ad attori e comparse, che lui crede essere invece veri parenti e amici, a partire dalla sua fidanzata Meryl (una sempre brava Laura Linney) o dal suo storico amico Marlon (Noah Emmerich, che vestirà i panni dello spietato colonnello Nelec in “Super 8” di J.J. Abrams).

Nonostante la sua esistenza apparentemente perfetta ed edulcorata, Truman cova dentro un crescente e incontenibile senso di oppressione e insoddisfazione, e così confessa ai suoi affetti più cari – e davanti a milioni di telespettatori… – che intende lasciare la sua piccola città natale per esplorare il mondo e trovare se stesso.

La cosa, naturalmente, non può che far preoccupare Christof (Ed Harris), il carismatico e dispotico creatore del “Truman Show”…

Con una battuta finale memorabile, questa pellicola supera il quarto di secolo di età conservando integra la sua potenza narrativa e caustica. A distanza di venticinque anni la nostra società è molto cambiata, ma i reality hanno ancora un seguito rilevante. Il centro nevralgico della vita quotidiana, però, non è più il nostro televisore ma è il nostro cellulare, dal quale osserviamo e cerchiamo di afferrare cosa accade nel mondo passando dentro e attraverso i social.

E allora, rivedendo questa sempre affascinante pellicola, la domanda – …come diceva Antonio Lubrano – sorge spontanea: ma non è che adesso siamo diventati tutti dei Truman Burbank che consumano la propria esistenza al centro di uno show planetario che è proprio il nostro social preferito?

….E che a differenza del vero Truman Burbank noi ne siamo totalmente, e colpevolmente, a conoscenza?

Chi non sbircia i social ogni tanto lanci la prima pietra, e ai posteri l’ardua sentenza…

“Ai confini della realtà” di John Landis, Steven Spielberg, George Miller e Joe Dante

(USA, 1983)

Un’intera generazione di cineasti americani – e non solo, parliamo anche di scrittori, come il Re Stephen King, tanto per citarne uno – è stata influenzata in maniera determinante da quella che molti, me per primo, considerano una delle serie televisive migliori di sempre: “Ai confini della realtà” creata dal grande Rod Serling nel 1959 e andata in onda per quattro indimenticabili stagioni fino al 1964.

Così, agli inizi degli anni Ottanta, la nuova Hollywood decide di rendergli omaggio riportando e riadattando al cinema tre degli episodi più famosi. A prendere in mano l’idea è John Landis, reduce di gradi successi al botteghino come “Animal House“, “Un lupo mannaro americano a Londra”, “The Blues Brothers” o “Una poltrona per due“.

Nel progetto, sia come regista che come produttore, viene coinvolto anche l’amico Steven Spielberg – che proprio in “The Blue Brothers” aveva fatto un piccolo cameo – che sceglie di dirigere il segmento “Calcia il barattolo”, il cui episodio originale andò in onda nel 1962. Gli altri registi sono Joe Dante che dirige “Un piccolo mostro” – episodio originale della terza stagione e andato in onda nel 1961- e l’australiano George Miller, reduce dal successo dei film della serie “Interceptor” con Mel Gibson, che firma “Incubo a 20.000 piedi” il cui episodio originale passò per la prima volta in televisione nel 1963 e venne diretto da un giovane Richard Donner che poi passerà al cinema dirigendo film come “Superman”, “Arma letale” e, non a caso, il mitico “I Goonies“.

Tutto il film è pregno di citazioni e riferimenti diretti alla serie originale tanto che la voce narrante – che nella serie storica apparteneva allo stesso Serling – è quella di Burgess Meredith (che molti ricorderanno per sempre come l’allenatore sordo in “Rocky”) che fu il protagonista del famosissimo episodio “Tempo di leggere”, andato in onda nel 1959.

Landis dirige il prologo e l’epilogo del film interpretati dall’amico Dan Aykroyd con un cameo di Albert Books, e scrive un nuovo e originale episodio dal titolo “Time Out”. Bill Connor (Vic Morrow) è un uomo di mezz’età deluso e incattivito dalla vita. Così una sera, in un locale seduto assieme a due suoi amici, inizia a sfogarsi col mondo diventando ferocemente razzista e prendendosela con il collega ebreo che secondo lui ha avuto la promozione al suo posto, e poi con tutte le persone di religione ebraica, con quelle di colore e con gli asiatici visto che da giovane ha servito il suo Paese in Corea contro i “musi gialli”.

Ma appena Bill esce dal locale per fumarsi una sigaretta si ritrova nella Parigi occupata dalle truppe naziste nei panni di un ebreo braccato. Quando i tedeschi lo colpiscono a morte Bill si risveglia fra le mani di feroci membri del Ku Klux Klan che lo vogliono impiccare solo perché è di colore. L’uomo riesce a fuggire ma si ritrova in una foresta del Vietnam nei panni di un vietcong, inseguito dalle truppe americane. Colpito a morte si ritrova in loop nella Parigi occupata. Il suo ultimo contatto col mondo al quale apparteneva sarà da un treno piombato, diretto ai campi di sterminio nazisti, dal quale vedrà i suoi amici cercarlo fuori dal locale.

In “Calcia il barattolo” Mr. Bloom (Scatman Crothers) propone agli altri ospiti della casa di riposo in cui vive di giocare con un barattolo nel cuore della notte. Ma solo quelli che avranno il coraggio di mettersi in gioco accettando al tempo stesso la loro età potranno davvero divertirsi…

“Un piccolo mostro” ci racconta la storia dell’insegnante Helen Foley (Kathleen Quinlan) che durante il viaggio verso la città in cui comincerà una nuova esistenza incappa nel piccolo Anthony, che la porterà a casa sua dove scoprirà un terribile segreto. Nel cast, nei panni di zio Walt, appare Kevin McCarthy, protagonista di un altro episodio storico della serie originale: “Lunga vita a Walter Jameson”, andato in onda nel marzo del 1960.

“Incubo a 20.000 piedi” ha come protagonista l’esperto programmatore di computer John Valentine (John Lithgow) che ha il terrore di volare ma che per lavoro è costretto a farlo. Cercando in ogni modo di calmarsi si mette a guardare fuori dal finestrino e scorge un essere mostruoso intento a sabotare i motori dell’aereo su cui sta volando.

Tutti e quattro gli episodi e le loro atmosfere mantengono fede allo spirito dell’opera originale di Serling e a rivederli oggi, anche a distanza di quasi quarant’anni, si prova sempre un certo gusto e piacere. Ma, purtroppo, durante la lavorazione del film si consumò un terribile e mortale incidente che influì sulla sua riuscita globale. Durante le riprese della scena finale dell’episodio “Time Out” l’elicottero che inseguiva Bill Connor nei panni di un vietcong con in braccio due piccoli vietnamiti rovinò al suolo investendo e uccidendo sul colpo Vic Morrow – padre dell’attrice Jennifer Jason Leigh – e i due attori bambini che erano con lui.

Sull’elicottero viaggiava Landis che dirigeva la scena, dando indicazioni al pilota. L’incidente, stabilirono gli inquirenti, venne causato dai numerosi fuochi d’artificio usati per riprodurre un bombardamento nella giungla, fuochi che abbagliarono il pilota facendogli perdere il controllo del mezzo.

Il processo durò circa dieci anni e ridimensionò inesorabilmente la carriera e il prestigio di Landis che molti considerarono colposamente e soprattutto moralmente responsabile in gran parte dell’accaduto. Spielberg troncò l’amicizia con lui e poi produsse da solo una serie televisiva chiaramente ispirata a quella di Serling – di cui però non possedeva i diritti – dal titolo “Storie incredibili” che andò in onda quasi in contemporanea alla nuova serie “Ai confini della realtà” prodotta dalla CBS e andata in onda dal 1985 al 1989.

Dal giorno dell’incidente e dopo l’esito dell’inchiesta, Hollywood cambiò drasticamente le normative per girare scene anche lontanamente pericolose per artisti e tecnici.

“Dietro la maschera” di Peter Bogdanovich

(USA, 1985)

Roy Lee Dennis, detto Rocky per la passione di sua madre per il rock, è stato un ragazzo che all’eta di due anni ha dovuto iniziare a combattere contro la displasia craniodiafisaria, una terribile malattia degenerativa che aumenta in maniera incontrollabile i depositi di calcio sul cranio. Oltre a terrificanti emicranie, gravi problemi con la vista e l’udito, la patologia deforma il cranio e quindi il viso. Ma Rocky scriveva poesie e cercava di vivere la sua vita nella maniera più serena possibile, e cioè fino a dove la malattia e – soprattutto – lo sguardo, l’ignoranza e l’arroganza degli altri glielo permettevano.

Anna Hamilton Phelan, autrice di script per film come “Gorilla nella nebbia” o “Ragazze interrotte”, scrive la sceneggiatura ispirandosi alla vera vita di Rocky. Dietro la MDP c’è Peter Bogdanovich, uno dei grandi artigiani indipendenti americani, che ha iniziato la sua carriera artistica agli inizi degli anni Sessanta come attore nella mitica serie “Ai confini della realtà” di Rod Serling.

Rocky Dennis (un bravissimo Eric Stoltz) deve cambiare scuola e la cosa lo mette a disagio come sempre. Ma come sempre affronta con grande serenità ogni prova che la vita gli riserva, come la malattia degenerativa che ha colpito il suo cranio rendendoglielo “surreale”, come dice lui stesso.

Sua madre Rusty (una bravissima Cher) se ne occupa e lo difende dalla cattiveria del mondo con le unghie e con i denti, ma il prezzo che deve pagare diventa ogni giorno sempre più alto. Rusty, infatti, è una tossicodipendente che ama cambiare gli uomini come i propri vestiti. La vera famiglia di Rocky, visto che il padre lo ha abbandonato, sono anche i motociclisti con cui sua madre lo ha sempre portato in giro, fin da piccolo. E sono sempre loro che ogni mattina lo portano a scuola, dove Rocky è sempre fra i primi della classe.

Con l’arrivo dell’adolescenza – che nessun medico aveva neanche lontanamente sperato – per Rocky arriva anche quello che sua madre ha temuto per anni: il confronto “desolante” con le ragazze. Rusty tenta in ogni modo di salvaguardare il figlio, anche goffamente, ma alla fine Rocky conosce Diana (Laura Dern), una giovane non vedente con la quale allaccia uno stretto rapporto sentimentale. Ma…

Dolorosa e bellissima pellicola che ci parla di sofferenza, amore e tolleranza, soprattutto quella di Rocky che con il cuore grande come il mare, sopporta serenamente la gretta paura e il becero disdegno di chi si ferma sempre e solo sul suo aspetto fisico, vedendolo bigottamente come una colpa.

Oltre alla grande interpretazione di Cher, che venne inspiegabilmente “dimenticata” agli Oscar – anche se le cronache del tempo imputarono tale dimenticanza alla parte più puritana della giuria per il ruolo controverso di Rusty, madre amorosa ma al tempo stesso tossicodipendente e disinvolta mangia uomini – devono essere ricordate anche quelle di Stoltz e della Dern, che giovanissimi riescono davvero a lasciare il segno.

La colonna sonora del film doveva essere centrata sulle canzoni di Bruce Springsteen, cantante molto amato da Rocky, ma la casa di produzione le cambiò. Dopo una lunga causa in tribunale Bogdanovich, nell’edizione Directors’s Cut, ha reinserito quelle di Springsteen.

Per la chicca: nel ruolo della signora che regala un cucciolo di cane a Rocky c’è Anna Hamilton Phelan, l’autrice della sceneggiatura. Mentre in quello di T.J., uno dei motociclisti amici di Rusty, c’è il regista e attore Nick Cassavetes.

Cher vince il premio come migliore interprete femminile al Festival di Cannes dove Bogdanovich è nominato per la Palma d’Oro. Il film si aggiudica l’Oscar come miglior make up.

Sempre bello.

“Una faccia piena di pugni” di Ralph Nelson

(USA, 1962)

Rod Serling (1924-1975) è stato uno dei primi grandi autori televisivi americani. E’ stato lui, insieme a pochi altri, a dare al nuovo mezzo di comunicazione di massa quella identità che andava oltre la semplice “ripresa in diretta”.

Fra le sue numerose creazioni, spicca senza dubbio la serie “Ai confini della realtà” andata in onda dal 1959 al 1964 che, oltre a segnare un’epoca, ha inciso l’immaginario di molti adolescenti che poi, nei decenni successivi, sarebbero diventati fra i più importanti cineasti americani, come George Lucas o Steven Spielberg.

Per questo i sui script per il cinema sono assai pochi rispetto all’enorme produzione per il piccolo schermo. Ma quasi tutte le sue sceneggiature sono diventate ottimi film, come per esempio “I giganti uccidono” o questo “Una faccia piena di pugni” che il suo autore aveva scritto in origine per la televisione.

A 37 anni suonati Louis “Macigno” Rivera (uno stratosferico Anthony Quinn) sale sul ring contro il grande Cassius Clay (quello vero). Rivera resiste ben sette round, ma poi crolla sotto i colpi implacabili del suo grande e molto più giovane avversario. Riportato a braccio negli spogliatoi, il medico lo visita ed emette la sentenza: Macigno si riprenderà, ma non potrà mai più boxare, visto che la funzionalità del suo occhio sinistro è quasi compromessa.

Al suo capezzale ci sono Maish il suo manager (un grande Jackie Gleason, in uno dei suoi rari ruoli oscuri) e Army (un altrettanto bravo Mickey Rooney) il suo secondo, ex peso piuma anche lui costretto a smettere anni prima per lo stesso motivo.

Da diciassette anni, infatti, Maish e Army sono l’unica famiglia di Macigno che sul ring ha sempre dato tutto per il suo manager. Ma adesso le cose dovranno cambiare per forza, visto che Louis non potrà mai più combattere. Ripresosi, il boxer – o meglio l’ex boxer – si reca all’ufficio di collocamento per trovarsi un nuovo lavoro ed incappa in Miss Miller (Julie Harris) che rimane colpita dalla sua ingenuità. Così gli propone un lavoro come preparatore atletico in un campo estivo per ragazzi.

Macigno, entusiasta, racconta ad Army e Maish la bella novità. Mentre il primo è felice, il secondo no. Non sono molte le cose redditizie che un ex pugile può fare: non tutti hanno la possibilità di aprire un locale di lusso come il grande Jack Dempsey. E così Maish ha preso accordi con un impresario della lotta (che ormai noi da decenni chiamano wrestling, e che allora era considerato al pari quasi del circo).

Macigno, all’apice della sua carriera è arrivato al 5° posto nel ranking dei pesi massimi e così il suo nome sarebbe alquanto accattivante per la lotta. Gli fornirebbero anche un simpatico costume da indiano, con tanto di piume e ascia finta. Però, tutto quello che è rimasto a Macigno è il suo nome e la sua dignità conquistata a suon di pugni, presi e dati, sul ring, e così…

Struggente e crepuscolare pellicola sulla boxe, ma soprattutto sul mondo misero e disperato in cui precipitano i “perdenti” che non hanno la forza di distaccarsene. Diretto da un grande artigiano di Hollywood (che l’anno seguente firmerà un altro gioiello cinematografico come “I gigli del campo”) come Ralph Nelson, ed interpretato da un cast davvero superbo “Una faccia piena di pugni” è davvero un film immortale.

Per capire l’impatto duraturo che nel tempo il film ha avuto sull’immaginario americano, basta ricordare che il suo titolo originale è “Requiem for a Heavyweight” (che letteralmente sarebbe “Requiem per un peso massimo”), titolo al quale si è ispirato lo scrittore Hubert Selby per scrivere nel 1978 il suo romanzo “Requiem for a dream”, e dal quale nel 2000 Darren Aronofky ha tratto il suo omonimo adattamento cinematografico “Requiem for a dream”, con Jared Leto, Jennifer Connelly ed Ellen Burstyn.

“I giganti uccidono” di Fielder Cook

(USA, 1956)

Ho scovato e visto questa vecchia pellicola perché la sceneggiatura è firmata dal grande Rod Serling e, come tutte le sue opere, merita di essere ricordata.

Già il titolo originale la dice lunga (“Patterns” che letteralmente sarebbe “Modelli” e/o “Motivi”), siamo a metà degli anni Cinquanta e le grandi società americane – che di lì a breve diventeranno le grandi multinazionali che conosciamo – sono in mano alla seconda generazione di “padroni”.

Sono i figli di coloro che le hanno fondate dal nulla. I nuovi padroni hanno studiato e viaggiato e gestiscono le aziende, il mercato e la sua finanza con un approccio nuovo che non è più quello dei padri che conoscevano il nome di battesimo di tutti i propri dipendenti, adesso i sottoposti sono solo dei numeri che servono al bilancio in sede di vendita o di fallimento.

Il giovane ingegnere Fred Staples (Van Heflin) responsabile di una piccola fabbrica di provincia viene chiamato nella sede centrale della Ramsey Ltd come nuovo dirigente.

A volerlo è stato direttamente il presidente della grande società Ramsey Jr in persona, dopo averlo visto al lavoro in una sua visita.

Ma Staples scoprirà presto che il presidente lo vuole sì per le sue capacità, ma anche per spingere l’anziano vice presidente William Briggs (un sempre bravo Ed Begley) alle dimissioni.

Briggs, infatti, è nella società fin dalla sua fondazione dove era il braccio destro del vecchio Ramsey, e adesso non si trova più in sintonia col figlio che giudica troppo spregiudicato e senza scrupoli, non mancando di farglielo presente in ogni consiglio d’amministrazione…

Da godere fino all’ultima scena, in cui si consuma lo scontro fra Staples e Ramsey jr, che ce la dice lunga sui principi dell’economia e dell’industria americana, e che si conclude alla Serling: in maniera del tutto imprevedibile.

“Ai confini della realtà” di Rod Serling

(2006, Fanucci Editore)

Amo questa raccolta anche se i 19 racconti contenuti sono un po’ anomali. Sono, infatti, la riduzione letteraria delle sceneggiature di altrettanti episodi di una delle serie televisive più affascinanti di tutti i tempi: “Ai confini della realtà” creata dal grande Rod Serling e andata in onda dal 1958 al 1962.

Purtroppo mancano alcuni fra gli episodi più belli, probabilmente per motivi legati a liti sui diritti d’autore, liti per le quali lo stesso Serling dovette cedere i diritti della sua serie pochi anni prima di morire.

Ma molti di quelli pubblicati rappresentano al meglio la grande innovazione che ha portato la serie ideata nel mondo della fantascienza, e non solo visto che l’opera di Serling è da sempre una delle più citate e imitate.

Da leggere assolutamente “Mostri in Maple Street”, inno contro ogni tipo di razzismo e pregiudizio.