“Tokyo Godfathers” di Satoshi Kon e Shôgo Furuya

(Giappone, 2003)

Gin, Myuki e Hana sono tre senzatetto che vivono ai margini di Tokyo. Il primo è un alcolizzato che ha perso la sua famiglia, la seconda è un adolescente che è scappata di casa dopo aver aggredito il proprio padre poliziotto e il terzo è una Drag Queen con un incontenibile desiderio materno.

Sarà proprio lei, la notte di Natale, a trovare una neonata abbandonata fra i rifiuti. L’amore per la piccolina porterà i tre a cercare di rintracciare la madre, ma strani e drammatici eventi si metteranno sulla loro strada, costringendo ognuno di loro a fare i conti con il proprio passato.

Bellissimo e struggente film che ripercorre al meglio la grande tradizione dell’animazione giapponese, con momenti di vera magia, dedicato a tutti quelli che vivono ai margini.

Altre grande pellicola realizzata da Satoshi Kon come “Paprika – Sognando un sogno” e “Millennium Actress“.

“Fuga da Alcatraz” di Don Siegel

(USA, 1979)

Questo film mi è così rimasto impresso che ricordo ancora oggi molto bene il cinema in cui lo vidi nell’allora prima visione.

E’ tratto dal libro di J. Campbell Bruce che ricostruisce la vera fuga del detenuto Frank Lee Morris avvenuta nel 1962, primo evaso nella storia dell’allora fortezza inviolata che era la prigione di Alcatraz, nella baia di San Francisco.

La pellicola non ci dice se effettivamente Morris e i suoi due complici morirono affogati – come era capitato in precedenza – nel braccio di mare gelido che separa l’isola dalla costa, o la raggiunsero e si dileguarono liberi per sempre.

Sta di fatto che l’ingente spiegamento di forze che allora perlustrò la zona non trovò nessun corpo – primo caso nella storia – cosa che scatenò la fantasia e l’immaginario di molti.

A distanza di tanti anni, rivedere la pellicola diretta dal maestro Don Siegel, e interpretata da un glaciale Clint Eastwood, fa ancora effetto, nonostante tutto quello che è stato realizzato dopo sullo stesso argomento.

Per me poi, che sono un fan di Stephen King, i riferimenti e le citazioni a questo film nel suo racconto “Rita Heyworth e la redenzione di Shawshank” e nella successiva pellicola “Le ali della libertà” di Frank Darabont, mi mandano in sollucchero.

C.S. Lewis e la sua Narnia

Il 22 novembre del 1963 moriva per gravi problemi cardiaci Clive Staples Lewis (classe 1898), docente di Lingua e Letteratura Inglese all’Università di Oxford e autore de “Le Cronache di Narnia”.

Grande amico e collega di John Ronald Reuel Tolkien (che il mondo conosce meglio come J.R.R. Tolkien) Lewis, oltre ad essere appassionato di filologia, amava profondamente i miti nordici, sui quali usava conversare molto spesso con il suo collega docente.

Questi confronti contribuiranno in maniera determinante alla nascita della serie di libri sul mondo fantastico di Narnia che, insieme a quella di Tolkien, segnerà – e continua a segnare – la narrativa fantasy internazionale dedicata all’infanzia e non solo: il viaggio che si compie leggendo le Cronache è di quelli che non si dimenticano.

E non è un caso quindi che da quasi settant’anni la sua raccolta è uno dei volumi più venduti al mondo.

Narnia, e lo dice lo stesso autore nella sua prefazione, è dedicata ai bambini che arrivano alla soglia dell’adolescenza, ed è uno splendido viatico all’altro universo fantastico che è la Terra di Mezzo di Tolkien, che invece è adatto a ragazzi un po’ più grandi.

Ma l’opera di Lewis non si limita alle Cronache, fra i numerosi saggi da lui firmati infatti spicca “Il Cristianesimo così com’è” (edito in Italia da Adelphi) che ancora oggi è ambito di confronti teologici.

Alla sua vita personale poi, e in particolar modo all’incontro, al successivo matrimonio con Helen Joy Davidman-Gresham e alla prematura morte di questa, è ispirato il film diretto da Richard Attenborough nel 1993 “Viaggio in Inghilterra” con Anthony Hopkins (nel ruolo di Lewis) e Debra Winger (in quello della Joy).

Il destino volle che la sua dipartita fu di fatto ignorata dai media perché avvenne lo stesso giorno dell’assassinio a Dallas di John Fitzgerald Kennedy.

“Gattaca – La porta dell’universo” di Andrew Niccol

(USA, 1997)

Ma il destino di un essere umano è davvero scritto nel suo DNA?

A questa domanda risponde splendidamente il film diretto da Andrew Niccol già sceneggiatore, fra le altre cose, di “The Truman Show”.

G A C T sono le lettere iniziali delle quattro basi azotate che compongono il DNA: l’Adenina, la Citosina, la Timina e la Guanina: da cui il titolo GATTACA.

Per la seconda parte de titolo – che esiste solo in Italia – “La porta dell’universo”, forse si tratta di uno “astuto” quanto inspiegabile richiamo al film “Stargate”, uscito qualche anno prima (che molti hanno ribattezzato “Starcagate”) e che con questa bellissima pellicola – fortunatamente – non c’entra niente.

Vincent Freeman (Ethan Hawke) – e il nome dice tutto – è uno degli ultimi nati senza l’intervento di un laboratorio specializzato nel creare esseri umani geneticamente perfetti e senza tare.

E’ indiscusso quindi che il suo sogno di diventare navigatore stellare sia impossibile, la concorrenza degli individui perfetti, nuova aristocrazia umana, è imbattibile. Ma la vita, nel corso dei millenni, ha sempre trovato una strada tutta sua…

Nel cast, oltre a Hawke, una bellissima Uma Thurman, un inquietante Jude Law e un grande Gore Vidal. Produce, fra gli altri, anche il grande Danny DeVito.

Da vedere a intervalli regolari.

“Quell’uragano di papà” di Carmen Finestra, David McFadzean e Matt Williams

(USA, dal 1991 al 1999)

Il protagonista di questa divertentissima serie è Tim Allen, da noi non così noto mentre in America volto molto famoso, basta dire che nel 1995 la Pixar si è rivolta a lui per dare la voce al galattico Buzz Lightyear.

Tim, il protagonista della serie che guarda caso ha lo stesso nome dell’attore che lo interpreta, è il conduttore di un programma televisivo dedicato al fai da te casalingo (da qui il titolo originale “Home Improvement”), argomento che ha seguaci in USA quasi quanto lo sport.

Ma se Tim si considera un vero e proprio “Uomo Attrezzo” sul lavoro, non riesce a destreggiarsi così bene nel campo familiare scontrandosi ogni giorno con la moglie Jill (Patricia Richardson) e i tre figli maschi in età adolescenziale.

Insomma, una gran bella lotta fra femminino e mascolino, a volte anche a ruoli invertiti, che nel corso delle serie arriva anche a sfiorare il surreale. La stessa struttura de “La vita secondo Jim” con Jim Belushi, ma più divertente e nata 10 anni prima. Ispirata ai personaggi creati dallo stesso Allen nei suoi spettacoli di stand-up comedy.

Come curiosità posso aggiungere che, nelle prime serie, a vestire i panni della valletta nella trasmissione condotta da Tim è una giovanissima – e ancora poco “plastificata” – Pamela Anderson.

Nonostante gli anni, questa serie è sempre molto divertente e punta il dito, già negli anni Novanta, con uno sguardo lucido ironico ma senza sconti alle disparità di genere.

“Buffalo ’66” di Vincent Gallo

(USA, 1998)

Vincent Gallo è diventato famoso facendo il modello per Calvin Klein.

Ma il suo vero amore è il cinema, amore che lo ha portato a partecipare prima come attore a varie pellicole famose (“La casa degli spiriti” di Billie August del 1993 fra tutte) e poi a debuttare alla regia.

In questa godibilissima e insolita commedia – che ha scritto insieme ad Alison Bagnall, diretto e per la quale ha composto ed interpretato anche le musiche – veste i panni di Billy Brown, un giovane scorbutico che appena uscito di prigione rapisce una ragazza (interpretata da una procace quanto brava Christina Ricci), incontrata in una scuola di tip tap, per portarla a casa dei suoi spacciandola per sua moglie.

L’incontro con i genitori (fantasticamente interpretati da Ben Gazzara e Anjelica Huston) è tanto inquietante quanto esplicativo del suo carattere nevrotico e della sua vita sbandata. Ma la giovane sconosciuta…

Nel cast anche un cameo di Mickey Rourke nei panni dell’allibratore con il quale Billy perde 10.000 dollari, cosa che segnerà la sua esistenza.

Si tratta di una commedia assai originale centrata sulle profonde cicatrici che fin troppo spesso lacerano le persone all’interno della loro stessa famiglia e che, per toni e sfumature, potrebbe aver tranquillamente ispirato “Il lato positivo – Silver Linings Playbook” di David O. Russell del 2012 con Bradley Cooper, Robert De Niro e per il quale Jennifer Lawrence ha vinto l’Oscar come migliore attrice protagonista. 

Da vedere …anche se non si tifa Buffalo.

“Sette spose per sette fratelli” di Stanley Donen

(USA, 1954)

E’ vero, lo so, come molti film di quegli anni dedicati all’amore è un tantino maschilista – rapire le donne come fecero i Romani con le Sabine non è per niente bello – ma dite quello che vi pare: io ne sono innamorato, è una pietra miliare della mia infanzia legata poi alla sua programmazione quasi sempre nel periodo natalizio.

Tratto da un famoso musical di Broadway, il film è diretto da un maestro del cinema come Stanley Donen, che ha firmato pellicole del calibro di: “Cantando sotto la pioggia” (1952), “Indiscreto” (1958), “L’erba del vicino è sempre più verde” (1960), “Sciarada” (1963) o “Due per la strada” (1967).

Le scene di ballo che si consumano nel cantiere edile sono a tutti gli effetti storia del cinema.

Il mio fratello preferito è Gedeone, mentre fra le spose scelgo senza dubbio Dorcas, interpretata da Julie Newmar che qualche anno dopo vestirà i panni di Catwoman nella serie televisiva fumettistica “Batman”.

“VIP, mio fratello superuomo” di Bruno Bozzetto

(Italia, 1968)

Da sempre, a difendere il mondo dai cattivi, ci pensa la famiglia dei supereroi VIP: belli, forti e invincibili.

Anche oggi a vegliare sui buoni c’è Supervip, frutto di una selezione genetica che lo ha reso praticamente perfetto. Cosa che non si può dire di suo fratello minore Minivip, esattamente l’opposto: piccolo, miope e debole come un fuscello.

Ma quando la ricca e perfida Happy Betty – capo dell’immensa catena di supermercati HB – attua un piano diabolico per impadronirsi del mondo (attraverso un piccolo razzo che si innesta nel cervello umano rendendo il suo ospite un ebete senza volontà che ama guardare la tv osservando le pubblicità per poi correre ha comprare i prodotti HB) anche Supervip cade nelle sue mani. Solo Minivip, sottovalutato da tutti, può salvare il mondo…

Geniale cartone animato copiato e citato decine di volte (“I gemelli” di Ivan Reitman con Danny DeVito e Arnold Schwarzenegger del 1988 è solo un esempio) firmato da Bruno Bozzetto papà dell’animazione italiana, che anticipa i tempi e soprattutto l’avvento della televisione, soprattutto quella commerciale.

E che dire sulle tute da supereroi della famiglia de “Gli incredibili“, esattamente rosse come quelle di fratelli VIP?

Da rivedere insieme a “West & soda”, “Allegro non troppo” e alle memorabili avventure de “Il signor Rossi”.

“Una poltrona per due” di John Landis

(USA, 1983)

Louis Winthorpe III (Dan Aykroyd) è l’aristocratica giovane promessa manageriale della potentissima agenzia finanziaria Duke & Duke, in mano ai fratelli Mortimer (Don Ameche) e Randolph (Ralph Bellamy) Duke.

Randolph, oltre ad amare la finanza e – come il fratello – i soldi che questa produce, è un patito di studi sociologici. Per questo sfida il fratello con una scommessa: le contingenze ambientali incidono in maniera determinante sul comportamento umano, qualsiasi uomo onesto, messo in condizioni critiche può diventare un criminale, e viceversa.

Per un dollaro come posta Mortimer accetta, e quando il ladruncolo Billy Ray Valentine (uno strepitoso Eddie Murphy) gli capita fra i piedi…

John Landis firma una memorabile commedia a incastro – che consacra al grande successo internazionale Eddy Murphy e l’esplosiva Jamie Lee Curtis (nel ruolo della prostituta Ophelia) – che si vede e rivede cento volte senza stancarsi mai.

E poi, a riguardandola oggi, si legge ancora meglio quella graffiante critica all’America “edonista” e “reaganiana” protagonista del decennio.

“Rhoda” di James L. Brooks e Allan Burns

(USA, dal 1974 al 1978)

Questa divertente sit-com nasce come spin-off di “Mary Tyler Moore”, altra serie famosissima negli States agli inizi degli anni Settanta, nella quale Rhoda (sempre interpretata da Valerie Harper) aveva il ruolo di amica della protagonista, contraltare delle vicende amorose e lavorative della bella e fin troppo perfetta Mary Richards.

Ma il successo di Rhoda, intelligente e spiritosa ma schiacciata dalla figura materna e per questo spesso sfortunata con gli uomini, convince i produttori a dedicarle una serie tutta sua.

Da Minneapolis Rhoda Morgenstern torna a New York per fare la vetrinista. Lì il suo contraltare sarà la sorella minore Brenda (Julie Kavner). Le vicende di Rhoda sono indubbiamente molto più divertenti e spesso cattive di quelle della serie da cui nasce, e ancora oggi godibilissime.

Non è un caso quindi che uno dei creatori della serie, James L. Brooks, sia anche uno dei produttori e coautori, insieme a Matt Groening, de “I Simpson”, e che Julie Kavner sia l’attrice che da oltre vent’anni dona la voce a Marge Simpson.