“La fiera delle illusioni – Nightmare Alley” di Guillermo Del Toro

(USA/Messico/Canada, 2021)

Lo scrittore statunitense William Lindsay Gresham (1909-1962) pubblica nel 1946 il romanzo noir “Nightmare Alley” che riscuote subito un certo successo e il cui adattamento per il grande schermo venne girato nel 1947 (e distribuito da noi col titolo “La fiera delle vanità”) da Edmound Goulding con Tyrone Power come protagonista, la stessa coppia che l’anno precedente aveva rispettivamente diretto e interpretato l’ottimo “Il filo del rasoio“, altro adattamento di un’opera letteraria.

Ma Power era già un divo di prima classe e la produzione impose il classico “lieto fine” al film, scostandosi dal romanzo originale. Guillermo del Toro, invece, rimane fedele al testo di Gresham e scrive la sceneggiatura – assieme a Kim Morgan – rispettando il romanzo.

Ci troviamo così nell’immensa provincia americana alla fine degli anni Trenta, quando Stanton Carlise (un bravissimo e fascinoso Bradley Cooper) approda come lavorante in un circo-baraccone girovago. All’inizio viene ingaggiato da Claim Hoatley (Willem Dafoe) come facchino e tutto fare, ma il suo carattere spavaldo e la sua voglia di “sfondare” lo portano nelle grazie di Madame Zeena (Toni Collette) e di suo marito Pete (David Strathairn) un ex illusionista e mentalista ormai da anni perso nell’alcol.

A portare sul baratro della dipendenza Pete forse è stato proprio il suo elaborato quanto efficace sistema per ingannare il pubblico nei suoi spettacoli, pubblico che diventava particolarmente fragile e vulnerabile, lasciando così nello stesso Pete un incolmabile senso di colpa che solo l’alcol poteva rendere sopportabile.

Approfittando del suo stato, Stanton riesce a mettere le mani sul suo prezioso manuale e infatuatosi di Molly (Rooney Mara) protagonista di un piccolo numero di illusionismo nel circo, decide di andare nella grande città per afferrare a due mani la fortuna.

Grazie agli scritti di Pete e alla sua arrogante e spavalda bravura Stanton riesce a diventare il mentalista di un famoso night club. Ma una sera il suo spettacolo viene interrotto dalla dottoressa Lilith Ritter (Cate Blanchett) che sembra aver intuito i trucchi di Stanton, ma…

Gotica e oscura pellicola firmata da uno dei registi contemporanei più bravi e visionari. Grazie a un cast davvero stellare, di cui fanno parte anche Ron Perlman (vero attore feticcio di Del Toro), Richard Jenkins, Mary Steenburgen e Tim Blake Nelson, viviamo una delle storie più cupe raccontate dal regista messicano, che a differenza di tutte le altre, sembra proprio non lasciarci alcuna speranza.

Da ricordare l’interpretazione di Cooper in tutto e per tutto paragonabile a quella di Tyrone Power del 1947, considerando poi che lo stesso Power allora era un vero e proprio sex symbol e soprattutto un eroe positivo per gli spettatori.

Inoltre Del Toro (così come fece Goulding nel 1947) riempie la pellicola di richiami espliciti e diretti a quel capolavoro indiscusso del cinema americano, e non solo, che è “Freaks” girato da Tod Browning nel 1932, e ambientato nel mondo del circo dove i veri “mostri” non sono i “fenomeni da baraccone” o “scherzi della natura” (…come tristemente e vergognosamente si chiamavano allora i disabili) ma è spesso la stessa gente che per vederli e divertirsi è disposta a pagare, così come coloro che di questi, e di tutti i più fragili, vogliono approfittarsi.

Davvero duro, ma bellissimo.

“Regina senza corona” di Thomas Schlamme

(USA, 1989)

La drammaturga Beth Henley (classe 1952) ha vinto il premio Pulitzer nel 1981 per la sua opera teatrale “Crimini del cuore”, scritta nel 1978, e che Bruce Beresford porterà sul grande schermo nel 1986 con protagoniste Sissy Spaeck, Diane Keaton e Jessica Lange. Nel 1979 la Henley scrive “The Miss Firecracker Contest” (che letteralmente sarebbe “Il Concorso Miss Fuochi d’Artificio”) ambientata in una piccola cittadina del Sud degli Stati Uniti.

L’opera riscuote molto successo prima a Los Angeles e poi a Broadway, dove diventa un vero e proprio classico. Come accade spesso, la mecca del cinema si rivolge proprio alla capitale del teatro americano per trovare nuove idee, e così – dopo il successo internazionale del film di Beresford – viene adattata per lo schermo anche questa commedia della Henley.

La goffa e poco piacente Carnelle ha un sogno nella vita: vincere il Concorso “Miss Fuochi d’Artificio” che si tiene nella sua cittadina ogni 4 luglio. La ragazza vive nella vecchia casa della zia, ormai deceduta da anni. Qualche giorno prima del concorso tornano in città i suoi due cugini: Elain e Delomount. La prima da ragazza, grazie alla sua altera bellezza, ha vinto trionfalmente il titolo di Miss Fuochi d’Artificio, mentre il secondo è uno scapestrato che vive alla giornata.

Carnelle riesce ad entrare nella schiera delle cinque finaliste e dedica tutta se stessa a preparare la prova conclusiva con cui esibirsi alla fiera del 4 luglio. Solo la vincitrice potrà sfilare al centro del carro allegorico che attraverserà la strada principale della città, evento memorabile per tutta la contea e soprattutto sognato da Carnelle fin da bambina. Ma il concorso, per la ragazza così come per i suoi due cugini, rappresenterà un momento di svolta nelle propria vita…

Nel film – che in originale si intitola solo “Miss Firecracker” – il ruolo di Carnelle è affidato ad una bravissima (e fascinosa nonostante la voluta goffaggine) Holly Hunter. Mentre quello dei suoi cugini Elain e Delmount sono affidati rispettivamente a Mary Steenburgen e Tim Robbins (tutti e tre vincitori di un Oscar: la Steenburgen per “Una volta ho incontrato un miliardario” del 1980, la Hunter per “Lezioni di piano” del 1993 e Robbins per lo splendido “Mystic River” del 2003).

Crudo, ma alla fine anche un po’ ottimista, “Regina senza corona” è un affresco lucido della provincia americana, ma soprattutto delle dinamiche familiari che non risparmiano dolore e sconforto, interpretato poi da un cast davvero eccezionale.

Per la chicca: ve prego, non mi fate parlare del titolo in italiano…

“L’uomo venuto dall’impossibile” di Nicholas Meyer

(USA, 1979)

Herbert George Wells è stato uno dei più grandi scrittori di fantascienza della storia, uno dei più geniali e innovatori, proprio come Jules Verne. Molte delle invenzioni descritte nei suoi romanzi poi sono state realmente realizzate. Ma, a differenza di Verne, Wells preannunciò anche l’idea di socialismo, tema al centro della sua opera più famosa: “La macchina del tempo” del 1895.

Proprio dal suo romanzo più famoso lo sceneggiatore e regista Nicholas Meyer (autore del romanzo “Sherlock Holmes: soluzione sette per cento” e della sceneggiatura dell’omonimo film nonché di quelle di “Ster Trek II: l’Ira di Kahn” e “Rotta verso la Terra”) si basa per scrivere questo “L’uomo venuto dall’impossibile” di cui poi dirigerà l’adattamento cinematografico.

Nel 1893 le notti di Londra sono insanguinate dal feroce e misterioso Jack Lo Squartatore a cui tutta Scotland Yard dà inutilmente la caccia. Intanto, nel suo studio, lo scrittore e scienziato Herbert George Wells (Malcom McDowell) presenta ai suoi più stretti amici la sua nuova invenzione: la macchina del tempo. E proprio quando giunge – in ritardo – l’ultimo ospite, il medico chirurgo John Stevenson (un cattivissimo David Warner che poi sarà il cattivo anche in “Tron“), Wells annuncia il suo prossimo viaggio inaugurale nel tempo.

Ma la Polizia irrompe: sono sulle tracce di Jack Lo Squartatore che alcuni testimoni affermano di aver visto entrare in casa Wells. Ormai non ci sono dubbi: Stevenson è l’assassino più efferato nella storia dell’Inghilterra vittoriana, ma del medico non ci sono più tracce. Solo Wells intuisce dove è fuggito: nel futuro, usando la sua macchina del tempo. Allo scrittore e scienziato non rimane altro che inseguire il sanguinario assassino dove si è diretto: nel 1979…

Geniale thriller fantasy che anticipa non pochi elementi che saranno portanti del cinema anni Ottanta e Novanta. Il display della mitica Delorean di “Ritorno al Futuro” ricorda tanto quello della macchina del tempo di questo film. La caccia a un serial killer e le difficoltà di chi, suo malgrado, è costretto a cacciarlo, sono elementi che troveranno il loro apice ne “Il silenzio degli innocenti”. Ma, soprattutto, la decadenza e la corruzione dei costumi e della società che Wells, nei suoi scritti ha sempre temuto e contrastato col socialismo ideale, e che invece Meyer lo costringe a vivere per inseguire un mostro che credeva, illudendosi, figlio solo del suo tempo.

Oltre a questo, “L’uomo venuto dall’impossibile” – il cui titolo originale è “Time After Time” che ha un significato ben diverso – è davvero ancora affascinante con colpi di scena degni del grande cinema di fantascienza.