“Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street” di Tim Burton

(USA, 2007)

“Chi si vendica dovrebbe scavare due fosse…” dice un antico detto che sintetizza al meglio come la brama rabbiosa di riparare a un torto porti fin troppo spesso alla rovina. Se lo splendido “Il conte di Montecristo” di Alexandre Dumas è di fatto l’opera immortale per eccellenza sul tema della vendetta, le vicissitudini dell’ingenuo Benjamin Barker che torna dopo quindici anni a Londra col nome di Sweeney Todd per punire i fautori dell’ingiustizia subita, può simboleggiare quella cieca e sanguinaria.  

A ridosso della prima pubblicazione dell’opera di Dumas (1844), in Gran Bretagna nel 1846 viene stampato “The String of Pearls” che successivamente prenderà il titolo di “Sweeney Todd, the Demon Barber of Fleet Street” la cui attribuzione ancora oggi non è del tutto certa. Si tratta di un classico “penny dreadful”, una pubblicazione periodica scritta spesso con molta fretta e caratterizzata da temi cruenti e accenti spesso horror. Ma la cieca rabbia del protagonista la rende subito molto gradita al pubblico e per questo nel corso degli anni ne vengono stampate nuove edizioni. Nel 1936 Sweeney Todd approda per la prima volta al cinema nell’adattamento diretto dal britannico George King.

Nel 1973 l’inglese Christopher Godfrey Bond scrive l’omonimo dramma teatrale che riscuote un discreto successo tanto da portare Stephen Sondheim (musiche e testi) e Hugh Wheeler (libretto) a farne un musical il cui successo lo porta da Broadway a Londra e da lì in molti altri Paesi, in diverse edizioni nel corso degli anni e vincitore di numerosi Tony Award. L’adattamento cinematografico è passato fra le mani di Alan Parker e Sam Mendes fino ad arrivare in quelle di Tim Burton che fin dal 1980 aveva visto il musical.

Già nei titoli di testa, realizzati in grafica digitale, a squarciare le forti tonalità di bianco grigio e nero c’è il rosso porpora del sangue che i rasoi implacabili del barbiere faranno scorrere a fiumi. Così, una cupa notte, assistiamo all’approdo di una nave nel porto di Londra dalla quale sbarcano il giovane e innocente Anthony Hope (interpretato da Jamie Campbell Bower) il cui nome la dice lunga, assieme all’oscuro Sweeney Todd (un bravo Johnny Depp). I due si separano e il primo poco dopo intravede una splendida ragazza che triste osserva il mondo da dietro una finestra, ragazza che poi scoprirà chiamarsi Johanna (Jayne Wisener) ed essere la pupilla prediletta e intoccabile del terribile giudice Turpin (Alan Rickman) guardata a vista dal suo fedele Messo Bamford (Timothy Spall).

Sweeney Todd, invece, torna dove una volta, in un’altra vita e quando si chiamava ancora Benjamin Barker, aveva una bottega da barbiere e soprattutto una bella moglie e una piccola figlia. Tutto era cambiato quando il famigerato giudice Turpin aveva messo gli occhi sulla donna e, grazie alla collaborazione del Messo Bamford, lo aveva fatto arrestare con una falsa accusa e deportare oltremare.

Nella bottega Todd vi trova Nellie Lovett (Helena Bonham Carter, dark lady per eccellenza) che subito lo riconosce e lo ospita, aggiornandolo sulla triste fine della moglie suicidatasi dopo essere stata abusata da Turpin. Lo stesso Turpin, poi, ha adottato ufficialmente sua figlia che con incontenibile gelosia tiene reclusa in casa. Per ottenere vendetta Sweeney Todd decide di tornare a fare il barbiere, e per farlo deve sfidare quello che al momento è il più rinomato della città: Adolfo Pirelli (Sacha Baron Cohen). Inizia così l’irrefrenabile discesa agli inferi di Benjamin Barker alias Sweeney Todd…

Film gotico per eccellenza, che non lesina sangue e violenza, ma che regala alcuni momenti di ottimo cinema, grazie al cast di primo livello, a delle belle musiche e alla regia di uno dei cineasti più visionario di sempre.

Per la chicca: e disponibile in commercio un’edizione del 1982 con Angela Lansbury nei panni di Nellie Lovett, naturalmente prima che indossasse i panni della mitica e inesorabile acchiappa criminali Jessica Fletcher…

“Animali fantastici: i crimini di Grindewald” di David Yates

(USA/UK, 2018)

Siamo nel 1927 e il famigerato Gellert Grindewald (un cattivissimo Johnny Depp) deve essere trasferito dalle oscure prigioni del Ministero della Magia Americano in quelle del Ministero della Magia Britannico.

Oltre ad essere uno fra i più potenti maghi viventi (come lui c’è forse solo Albus Silente), Grindelwald è un grande persuasore e affabulatore, tanto che al Ministero Americano gli hanno asportato la lingua. Feroce e terribile punizione, che però non basterà ad impedirgli di fuggire, attraversando la strada, e la vita, di Newt Scalamander (un sempre bravo Eddie Redmaune).

Inizia così il secondo episodio – scritto per il cinema appositamente dalla stessa J.K. Rowling – di “Animali fanstatici”, prequel della seria di Harry Potter.

Siamo a metà del Primo Dopoguerra e il mondo sembra non rendersi conto di avvicinarsi sempre più al baratro di un nuovo conflitto mondiale.

E Gridelwald assomiglia tanto – se non fisicamente, di certo per le cose che dice e che realizza – a quell’Adolph Hitler che per molto tempo – troppo – si è accattivato le simpatie di buona parte del mondo; fiino a quando i suoi piani allucinanti e i suoi feroci e criminali progetti non hanno incendiato il nostro pianeta.

La penna magica – e ditemi che la definizione non calza a pennello – della grande scrittrice scozzese, come sempre, ci racconta magistralmente di mostri, che molto spesso hanno un bellissimo aspetto, e di creature mostruose con un cuore più grande di una città.

Per la chicca: strepitoso Jude Law che veste i panni di un giovane e sornione Silente.

“La sposa cadavere” di Mike Johnson e Tim Burton

(USA/UK, 2005)

Tim Burton è davvero un geniaccio visionario, e ha iniziato la sua carriera come disegnatore e animatore per la Disney. Cresciuto guardando i più classici B movie anni Cinquanta e Sessanta, shakera in maniera sublime queste sue due anime, regalandoci spesso pellicole indimenticabili come questa “La sposa cadavere” girato in stop-motion.

Proprio le sue due anime vengono richiamate simbolicamente all’inizio del film, quando sui titoli di testa appare un gatto del tutto simile a Vincent, il protagonista del suo primo cortometraggio datato 1982. Così come quando Victor e Victoria si incontrano per la prima volta, lui suona un pianoforte marca “Harryhausen”, marca che è un omaggio al genio degli effetti speciali e dei mostri cinematografici più inquietanti dei film anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta Ray Harryhausen.

Per scrivere la sceneggiatura John August, Pamela Pettler e Caroline Thompson si basano sui personaggi creati dallo stesso Burton assieme a Carlo Grangel (disegnatore e animatore di film come “Madagascar”, “Kung Fu Panda”, “Bee Movie” e “Hotel Transylvania”) che a loro volta prendono spunto da un racconto folkloristico della cultura ebraica del Seicento.

I Van Dort possiedono una pescheria grazie alla quale sono diventati la famiglia più ricca del paese. L’unica cosa che gli manca è far dimenticare le umili origini dalle quali la signora e il signor Van Dort provengono. Gli Everglot, invece, sono la famiglia più blasonata del paese, ma che ormai è sul lastrico. Per assecondare le rispettive esigenze le due famiglie organizzano un matrimonio combinato fra i rispettivi figli unici: Victor Van Dort (che nella versione originale è doppiato da Johnny Depp) e Victoria Everglot (Emily Watson).

Ma il carattere timido e impacciato di Victor cozza con la rigida formalità che un evento del genere esige, e così il ragazzo preso dal panico fugge nel bosco. Lì, suo malgrado, risveglierà il cadavere di Emily (Helena Bonham Carter) una giovane donna uccisa il giorno del suo matrimonio…      

Come capita spesso, Burton ci racconta una storia dove i mostri più orrendi non sono i cadaveri che riprendono vita, ma i vivi eleganti e di bell’aspetto…

Da vedere.  

Per la chicca: il personaggio di Bonejangles, lo scheletro che cantando e ballando accoglie Victor nel regno dei morti, è ispirato al grande Sammy Davis Jr.

“Il mistero di Sleepy Hollow” di Tim Burton

(USA, 1999)

Basandosi sul racconto “La leggenda della valle addormenta” di Washington Irving (scrittore statunitense nato a New York nel 1783, morto nel 1859, e sepolto nel cimitero di Sleepy Hollow, davvero!) Tim Burton ripropone in maniera fantasticamente visionaria una delle leggende più tradizionali della cultura americana, quella di Ichabod Crane e del mitico cavaliere senza testa (che Walt Disney invece raccontò con tutti altri toni nel 1949). Proprio dallo scritto di Irving, infatti, Kevin Yagher (maestro degli effetti speciali) e Andrew Kevin Walker scrivono il soggetto e Walker da solo poi la sceneggiatura di questo film, forse il più gotico di Burton.

New York 1799, il giovane detective della Polizia Crane (Johnny Depp) a causa dei suoi metodi empirici e innovativi che aborrano la tortura, viene mandato a Sleepy Hollow, un piccolo paesino di agricoltori, dove un fantomatico cavaliere senza testa ha ucciso e decapitato già tre persone.

Il giovane Ichabod a Sleepy Hollow oltre a risolvere il caso troverà molte cose, come l’amore, ma soprattutto ritroverà una parte di se stesso che credeva perduta…

Con il 99% dei set artificiali, “La leggenda di Sleepy Hollow” è uno dei film più riusciti di Tim Burton, con un Depp d’annata così come un diabolico Christopher Walken che indossa i panni sanguinari del cavaliere senza testa.

Ma Burton, che cura l’aspetto visivo dei suoi film in ogni particolare, è attento anche a quello artistico e così affianca ai due protagonist Depp e Christina Ricci, una serie di attori di teatro britannici molti bravi e famosi come Michael Gambon, Miranda Richardson e Richard Griffiths.

Attori di indiscusso talento tanto da partecipare anche alla saga cinematografica di Harry Potter: il primo nei panni di Albus Silente (dopo la morte di Richard Harris), la seconda in quelli di Rita Skeeter e il terzo in quelli di zio Vernon.

“Rango” di Gore Verbinski

(USA, 2011)

Questa escursione nel mondo dell’animazione del regista americano Gore Verbinski (noto soprattutto per aver diretto i primi tre film della serie “I Pirati dei Caraibi”) è davvero un gioiellino.

Il camaleonte domestico Rango, durante un viaggio in auto del suo padrone, cade col suo rettilario nel deserto arido della California. Prima di morire disidratato, Rango raggiunge la piccola cittadina di Polvere, abitata da piccoli animali come lui. La comunità è flagellata dalla siccità ma Rango…

Vero e proprio Western, con numerosi omaggi al maestro Sergio Leone, “Rango” ci racconta il viaggio che il camaleonte farà per trovare se stesso. Con una splendida definizione grafica e una grande fotografia, Verbinski ci ricorda, con sagacia e ironia, i fasti del genere in cui il nostro cinema fu maestro.

Per la chicca: nella versione originale Rango è doppiato da Johnny Depp.

“La vera storia di Jack lo squartatore” di Albert e Allen Hughes

(USA, 2001)

Io che non sono un patito di horror, ogni volta che passa questo film lo guardo entusiasta.

E’ una delle pellicole più gotiche che amo (paragonabile, per esempio, al grande “Dracula” di Francis Ford Coppola), anche perché rivela quello che i documenti secretati per quasi un secolo, una volta pubblicati, hanno permesso di ricostruire sui terrificanti omicidi che sconvolsero Londra nel 1888, creando di fatto nell’immaginario comune l’idea del primo sanguinoso serial killer.

I fratelli Hughes (che poi firmeranno il post-catastrofico e sfizioso “Codice: Genesi” del 2010) ricreano in studio un’inquietante e fascinosa Londra oscura e cupa, teatro ideale per i delitti più truci.

Per fermare la strage di giovani prostitute viene chiamato l’ispettore Frederick Abberline (un gotico quanto fascinoso Johnny Depp) che in breve tempo intuisce il vero movente “politico” degli omicidi…

Con scene cruenti che lasciano poco all’immaginazione, e una splendida e rossa Heather Graham, “La vera storia di Jack lo squartatore” (ispirato al fumetto firmato da Alan Moore e Eddie Campbell) e il cui titolo originale è il più efficace e sensato “From Hell”, ci regala due ore di puri brividi farciti da una storia d’amore struggente.

Da vedere, anche da dietro le dita della mano che mettiamo per coprire gli occhi…