Tratto dall’omonimo racconto di Alberto Moravia, questo film ci racconta la storia di una donna italiana che, come tante, è ingabbiata nel suo matrimonio patriarcale.
Giorgia (Monica Vitti) è “felicemente” sposata con Amedeo (Orazio Orlando), direttore di banca. Hanno una bella casa e una routine ben stabilita dove lui esce di casa per andare in banca, e lei si occupa della casa, per poi accudirlo quando torna la sera.
Tutta l’esistenza della donna ruota intorno ai bisogni, anche quelli più banali, del marito ma lei, apparentemente, non sembra soffrirne. Un giorno, però, nella testa di Giorgia risuona una voce maschile decisa e al tempo stesso suadente, che le ordina di compiere degli atti impensabili per lei, come prendere l’auto e fermarsi sulla spiaggia per fare l’amore con un ragazzo che sta ridipingendo le cabine di uno stabilimento balneare.
Sconvolta, Giorgia torna a casa e racconta tutto a Amedeo, che però non le crede. La voce torna insistente nella sua testa e la costringe a lasciare la tanto “amata” casa. La donna torna così della madre, una delle sensali più famose della zona, che le ricorda però l’importanza del matrimonio: senza il quale una donna non ha di fatto alcuna rilevanza sociale.
Rassegnata, la donna si allontana e, mentre vaga incerta, incontra Nancy (Claudine Auger) una studiosa di tradizioni vocali che gira la regione registrando canzoni, poesie e filastrocche tradizionali. Le due decidono di convivere e Giorgia diviene la sua assistente. Casualmente le due assistono ad una performance pubblica dell’artista Mario Pasini (Gigi Proietti) di cui subito Giorgia si innamora.
La donna decide così di convivere con l’artista. Se il primo periodo sembra idilliaco, lentamente però lei si ritrova in un meccanismo sentimentale e materiale del tutto simile a quello che aveva con Amedeo, e così quella vocina torna a farsi sentire…
Bisogna riconoscere che, nonostante il grande cast artistico e gli autori della sceneggiatura che sono nientemeno che Tonino Guerra e Ruggero Maccari, questa pellicola ha dei limiti strutturali che la rendono meno graffiante e pungente di quello che avrebbe potuto essere.
Ma è giusto ricordarla perché, oltre cinquant’anni fa, quando il nostro Paese aveva appena introdotto la legge sul Divorzio (1970) la nostra società e, soprattutto la maggior parte delle donne italiane, non erano preparate. Perché dopo secoli di educazione patriarcale, poche sapevano esattamente affermare le proprie esigenze e i propri diritti, pubblici e privati.
Così, rivedendo questo film, apprezziamo sempre di più quel “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi che ci racconta una storia che sembra lontana nel tempo, ma che in realtà non lo è. Nonostante una regia e una trama un pò troppo legate al momento storico in cui venne realizzato, “Gli ordini sono ordini” rimane un originale e prezioso documento storico dell’evoluzione e dei cambiamenti del nostro Paese.
Nel cast anche Corrado Pani, nella parte di un malvivente che accetta di dare un passaggio a Giorgia.
Fra i compiti della vera arte c’è anche quello di anticipare gli eventi e le svolte – anche terribili – della storia e della società. Così Francesco Rosi, con questo suo indimenticabile “Cadaveri eccellenti”, preannuncia di pochissimo uno degli eventi più traumatici e funesti della storia della Repubblica Italiana: il rapimento e l’uccisione del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro.
Siamo a metà degli anni Settanta, uno dei decenni più complicati della nostra storia a partire dal secondo dopoguerra. La parte più reazionaria della società non vuole il cambiamento che quella più giovane chiede, anche scendendo in piazza e manifestando. Ci sono, per questo, poteri che lavorano nell’ombra, pronti a tutto, come la mafia i servizi segreti deviati e la loggia P2.
Temono che dopo trent’anni ininterrotti di governo, la Democrazia Cristiana stia entrando in crisi, soprattutto per la nuova spinta della parte più fresca del Paese che non tollera più l’ipocrisia perbenista e la corruzione di molti politici. Fra quelli che vedono con favore il cambiamento, invece, c’è il presidente della DC Aldo Moro, che già da tempo parla in maniera sempre più positiva del Compromesso Storico, ovvero formare un governo assieme al Partito Comunista Italiano, proposta partita proprio dal suo segretario Enrico Berlinguer.
L’idea di Berlinguer nasce sulla scia del sanguinoso colpo di stato militare avvenuto poco tempo prima in Cile, per mano del generale Pinochet che ha rovesciato e ucciso il presidente democraticamente eletto Salvador Allende, assieme a moltissimi suoi concittadini. La coalizione di governo DC-PCI, che avrebbe concesso ai rappresentanti dello storico partito d’opposizione ruoli chiave, avrebbe messo al sicuro – secondo lo stesso Berlinguer – il nostro Paese dalla cosiddetta strategia della tensione, da derive autoritarie e quindi da ipotetici e tragici golpe.
Il 16 marzo del 1978, proprio mentre il IV Governo Andreotti si apprestava a ottenere il voto di fiducia, grazie anche all’appoggio esterno del PCI, il presidente Moro venne rapito dalle Brigate Rosse, che trucidarono senza pietà tutti gli uomini della sua scorta, e che lo uccisero a sangue freddo, dopo 55 giorni di prigionia, il 9 maggio seguente. Il tragico evento, come era prevedibile, fece naufragare definitivamente il Compromesso Storico.
Ispirato al romanzo “Il contesto. Una parodia” che il maestro Leonardo Sciascia pubblica nel 1971, “Cadaveri eccellenti” ci porta in Sicilia dove, dopo una delle sue solite visite nella secolare catacomba dei Cappuccini di Palermo, il procuratore Varga (Charles Vanel) viene freddato in strada da un colpo d’arma da fuoco. La notizia fa scalpore, e il capo della Polizia (Tino Carraro) su insistenza del Ministro della Sicurezza (Fernando Rey) manda il suo investigatore migliore, l’ispettore Amerigo Rogas (Lino Ventura, che nella nostra versione si doppia da solo).
Poche ore dopo però viene rinvenuto sull’autostrada il corpo senza vita del giudice Sanza, ucciso con le stesse modalità di Varga. Rogas inizia a studiare tutti i casi in cui hanno lavorato i due giudici e scopre che sono stati tre, e tutti hanno portato a sentenze assai dubbie che nel corso del tempo sono state poi smentite dai fatti. Le condanne emesse, però, hanno rovinato definitivamente la vita ai presunti colpevoli.
Così l’ispettore si mette sulle tracce del farmacista Cres, uno dei tre condannati, che da qualche giorno ha fatto perdere le sue tracce. Scopre così che nel processo ai suoi danni hanno partecipato, sia direttamente che indirettamente, anche il giudice Rasto (Alan Cuny) e il Presidente della Corte Suprema (Max von Sydow, superbamente doppiato da Alberto Lionello).
L’ispettore si precipita ad avvertirli, ma entrambi rifiutano seccati il suo aiuto, cosa che costerà loro la vita. Dopo la morte del Presidente della Corte Suprema, Rogas comprende che dietro i delitti non c’è più solo Cres, ma una vera e propria organizzazione clandestina di cui fanno parte alti rappresentanti della nostra Repubblica.
Come ultima spiaggia non gli rimane che incontrare di persona il Segretario del Partito Comunista Italiano, per avvisarlo del complotto, atto a tenere sotto controllo la linea del Governo e del Paese. Grazie al giornalista Cusano (Luigi Pistilli) suo vecchio e personale amico, Rogas riesce ad ottenere un incontro riservato, nel quale però…
Non mi piace di solito rivelare l’epilogo di un film – o di un libro – ma per questo capolavoro della nostra cinematografia è necessario farlo, visto che la pellicola si chiude con l’omicidio di Rogas e, soprattutto, del Segretario del PCI per mano dello stesso killer degli omicidi precedenti. Evento tragico che però gli inquirenti archiviano come omicidio-suicidio commesso dall’ispettore in preda allo stress e alla follia provocati dall’indagine stessa.
Rosi ci preannuncia così che i famigerati poteri forti erano disposti a tutto pur di evitare una rivoluzione ai loro danni, anche ad assassinare il capo di uno dei maggiori partiti italiani. La storia ci ha detto chiaramente, nel corso dei decenni successivi, che sarebbe stato molto più deflagrante per il “vecchio” potere costituito un Presidente Moro vivo piuttosto che assassinato, e che quindi il suo omicidio ha contribuito a mantenere lo status quo allora vigente.
Poco tempo fa è scomparso, dopo aver superato il venerando secolo di età, Henry Kissinger che negli anni in cui venne realizzato questo film rivestiva la carica di Segretario di Stato degli Stati Uniti. Fra le cose che i media hanno ricordato di lui, oltre al premio Nobel per la Pace che gli venne assegnato nel 1973, ci sono le dichiarazioni che fece a favore del golpe di Pinochet apertamente appoggiato dagli USA, e i “consigli” che diede al presidente Aldo Moro nel 1974 proprio sul Compromesso Storico: “Onorevole lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui o lei la smette di fare queste cose o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere” (come ricordato anche nell’articolo di Orson Francescone pubblicato su “Il Sole 24 Ore” del 18 dicembre 2023).
Naturalmente il film, alla sua uscita nelle nostre sale, accese numerose polemiche, sia nella parte più reazionaria della nostra società che in quella più progressista, che Rosi descrive molto statica e poco reattiva. Fu soprattutto la battuta finale, detta da Florestano Vancini nei panni di un dirigente del PCI davanti ai cadaveri di Rogas e del Segretario, che fece indignare molti sostenitori del partito d’opposizione: “La verità non è sempre rivoluzionaria”. Noi che oggi siamo i posteri, possiamo esprimere la nostra ardua sentenza.
Scritto dallo stesso Rosi assieme a Tonino Guerra e Lino Jannuzzi, “Cadaveri eccellenti” è un vero e proprio pezzo di storia del nostro Paese, da custodire gelosamente e da far vedere a scuola. Nel ricco cast da ricordare anche: Renato Salvatori, Paolo Bonacelli, Paolo Graziosi, Corrado Gaipa e Renato Turi.
Alla fine del decennio che ha segnato il definitivo arrivo tragico e implacabile della droga nella nostra società, il maestro Francesco Rosi ci regala una pellicola che fotografa i poteri forti che ci sono dietro agli enormi guadagni che il traffico illegale produce giornalmente.
Ispirandosi all’omonimo romanzo della francese Edmonde Charles-Roux (1920-2016) pubblicato nel 1967, Rosi scrive la sceneggiatura assieme ai suoi amici personali Tonino Guerra e Gore Vidal, attualizzandola e disegnando un profilo della mafia molto più limpido fedele e duro.
Così ci troviamo a New York dove Carmine Bonavia (un bravo James Belushi), figlio di immigranti palermitani, è un consigliere del Municipio di New York che sfida il sindaco uscente. Fra i suoi cavalli di battaglia ci sono i centri per la tossicodipendenza che ha creato in alcuni quartieri.
E proprio durante l’inaugurazione di uno di questi Bonavia incontra Gianna Magnardi (Carolina Rosi) una giornalista siciliana che vive a New York e lavora per la televisione italiana, che gli chiede, una volta eletto, cosa avrà davvero il coraggio di fare per sconfiggere la piaga della droga. Bonavia prende spunto dalle domande della donna e inizia una nuova campagna a favore della legalizzazione della droga – non della liberalizzazione – cosa che di fatto farebbe perdere i clamorosi introiti quotidiani alla criminalità organizzata.
Decide poi di spostare la meta del suo imminente viaggio di nozze con Carrie (Mimi Rogers) da Venezia proprio a Palermo, la terra dei suoi genitori che lui non ha mai visto. L’unico che si oppone alla cosa è suo padre che tenta in ogni modo e inutilmente di fargli cambiare idea.
Così Carmine e Carrie Bonavia arrivano nel grande e lussuoso albergo di Palermo dove vengono accolti da un cortese quanto ambiguo direttore Gianni Mucci (Philippe Noiret). Il primo impatto con il capoluogo siciliano è magico e pieno di arte millenaria, odori e profumi incredibili. Ma anche di originali e strani personaggi come il Principe (Vittorio Gassman) che da oltre quarant’anni vive nell’albergo senza mai uscire dal portone.
Ma la campagna di Bonavia a favore della legalizzazione delle sostanze stupefacenti non può non attirare la calda attenzione della grande e multinazionale criminalità organizzata che conosce bene le origini, il sangue e l’anima di Carmine incapace di …dimenticare Palermo.
Splendida e dura pellicola di Rosi che, come tutte le altre sue opere, ha il merito di fotografare e testimoniare in maniera lucida e schietta la nostra società nel momento in cui viene realizzata, rimanendo al tempo stesso efficace e – …purtroppo – sempre attuale. Dopo oltre trent’anni, infatti, questo film ancora colpisce al cuore lasciandoci confusi e amareggiati sulle note della bellissima colonna sonora firmata dal maestro Ennio Morricone.
“Dimenticare Palermo” nel nostro Paese, pagò un prezzo molto alto visto che chi sedeva allora a Palazzo Chigi riteneva che l’unica arma possibile da usare contro la droga fosse la massima e implacabile repressione, soprattutto sui tossicodipendenti, discostandosi non poco dagli ideali del Bonavia.
Liberamente ispirato al racconto “Il terzo figlio” di Andrej Platonovič Platonov e scritto dallo stesso Rosi assieme a Tonino Guerra, “Tre fratelli” ci racconta in maniera davvero splendida e dolorosa l’Italia nel duro passaggio fra gli anni Settanta e Ottanta.
Nella profonda e meravigliosa campagna pugliese l’anziano Donato Giuranna (Charles Vanel) lascia la sua masseria per raggiungere il paese più vicino dove, dall’ufficio postale, manda tre telegrammi ai suoi tre figli per avvisarli che la loro madre è appena morta.
Il primo arriva a Napoli dove, in un carcere minorile, come maestro lavora Rocco Giuranna (Vittorio Mezzogiorno). Il secondo viene recapitato a Roma, nella quale vive e svolge la sua attività di magistrato Raffaele Giuranna (un bravissimo Philippe Noiret doppiato in maniera sublime da Paolo Bonacelli). Il terzo raggiunge Torino dove Nicola Giuranna (Michele Placido) è un attivista sindacale nonché operaio in una grande fabbrica di automobili.
I tre, ricevuta la notizia, partono subito per la loro casa d’origine lasciando, chi i propri ragazzi come Rocco, chi moglie (Andréa Ferréol) e figlio adolescente come Raffaele, e chi un matrimonio naufragato come Nicola, che ha rotto con la moglie (Maddalena Crippa) e porta con sé la piccola figlia Marta.
Il triste ritorno nella grande masseria, dove sono nati e cresciuti, diventa l’occasione per un nuovo e profondo confronto fra i tre fratelli che hanno preso strade molto diverse. Se Rocco ha dedicato la sua vita agli altri, Raffaele e Nicola rappresentano invece i due lati che si scontrano più violentemente in quegli anni nella nostra società. Se il primo è un giudice che, sapendo di poter essere ammazzato in qualsiasi momento, accetta di presiedere un processo contro alcuni terroristi, il secondo da operaio e attivista, ne appoggia non i mezzi ma certo gli ideali.
Sullo sfondo la piccola Marta osserva sia la vita contadina, che per lei nata e cresciuta in città è un “gioco” da fare nella vecchia casa paterna, sia l’inconsolabile dolore del nonno Donato a cui rimangono solo gli umili ma al tempo stesso splendidi ricordi del suo lungo matrimonio.
L’incontro-scontro fra i tre fratelli rappresenta in maniera efficace e tagliente tutta la nostra società che proprio in quegli anni stava cambiando pelle, anche con drammatiche conseguenze, abbandonando definitivamente la sua anima contadina per quella industriale e cittadina.
Se alla fine Nicola è quello che si preoccupa meno delle nuove generazioni, Raffaele invece, nonostante le armi dei terroristi ancora falcino i suoi colleghi, si preoccupa per l’avvenire proprio delle giovani generazioni, come profetizzando che la fine delle ideologie porterà inesorabilmente a una generazione “televisiva”.
Rocco, che ha rinunciato ad avere una propria famiglia per dedicarsi totalmente ai ragazzi più sbandati, compie un sogno che ancora oggi commuove dove i ragazzi del riformatorio dove lavora ripuliscono la loro città spazzando prima e bruciando poi tutte le armi e le siringhe che la insozzano, il tutto sulle note della splendida “Je’ so pazzo” di Pino Daniele.
Questa bellissima pellicola vince 5 David di Donatello, tra cui miglior regista e la miglior sceneggiatura (ad oggi lo stesso Rosi è il cineasta che ha vinto più David nella categoria miglior regista con ben 5 statuette) e riceve la candidatura come miglior film straniero agli Oscar del 1982.
Per la chicca: nei panni di un giovane terrorista che tormenta in un incubo Raffaele c’è un giovane e allora sconosciuto Sergio Castellitto.
Matteo Garrone non è stato il primo grande cineasta italiano a trarre un film dall’opera immortale di Giambattista Basile “Lu cunto de li cunti”, infatti nel 1967 il grande Francesco Rosi dirige “C’era una volta” ispirandosi ad alcune delle novelle del Basile e scrivendo la sceneggiatura assieme a Tonino Guerra, Giuseppe Patroni Griffi e Raffaele La Capria.
Durante l’occupazione borbonica, la sguattera Isabella (una splendida e sensualissima Sophia Loren, forse all’apice dellla sua straripante bellezza) si invaghisce del principe Rodrigo Fernandez (Omar Sharif), giovane viziato e scapestrato parente del Re.
Alla popolana non rimane altro che rivolgersi alle forze sovrannaturali che allora, fortunatamente, ancora regnavano nei boschi e negli antri più oscuri. Ma la magia potrebbe non bastare…
Oltre all’intramontabile bellezza della Loren, questo bel film – voluto direttamente da Carlo Ponti – deve essere rivisto per la sua grande forza visiva grazie a una fotografia spettacolare e ai luoghi scelti per le riprese: il Tavoliere delle Puglie, la Certosa di Padula e Matera, e ci ricorda soprattutto quanto grande è stato il nostro cinema.
Federico Fellini lo ha sempre detto: la musica nella vita, come nel cinema, ha un ruolo fondamentale.
Il riferimento al suo grande amico e collaboratore Nino Rota è fin troppo palese. Infatti, non si può pensare a questo capolavoro di Fellini senza pensare alla musica scritta da Rota.
I ricordi giovanili di Fellini, scritti assieme a Tonino Guerra – la piccola e grande Rimini del Ventennio, l’arrivo dell’adolescenza e le infinite dinamiche familiari – si mischiano splendidamente con le note di Rota, tanto da diventare tutt’uno nel nostro immaginario.
Con alcune delle scene più belle della storia del cinema, come quella con zio Teo (interpretato da un bravissimo Ciccio Ingrassia) che sale su albero gridando “Voglio una donna!” o il passaggio del mitico transatlantico “Rex”, “Amarcord” è davvero un capolavoro assoluto e fa parte indiscutibilmente del patrimonio dell’umanità.
Non mi stanco mai di rivedere il racconto di un mondo che è scomparso decenni prima che io nascessi, ma che rimane sempre così attuale.