“Topo-Secret” di Robert C. O’Brien

(Salani, 1990)

Vi prego: non considerate minimamente il titolo criptico, totalmente fuori tema e incomprensibile – per non dire di peggio – che alla Salani hanno voluto mettergli in italiano. Quello originale, alla sua uscita nelle librerie statunitensi nel 1971, è “Mrs. Frisby and the Rats of NIMH”: tutta un’altra storia!

Robert C. O’Brien – il cui nome vero era Robert Leslie Conly – scrive uno dei più bei romanzi per ragazzi degli anni Settanta, ambientato fra gli animali di campagna che devono confrontarsi, troppo spesso, con l’uomo: il più arrogante, feroce e ingombrante predatore della Terra.

Mrs. Frisby, una giovane topolina rimasta recentemente vedova, deve trovare un rimedio alla grave influenza del figlio minore Timothy e contemporaneamente al dover affrontare il trasloco imminente, visto che la sua casa si trova nel campo che a breve il contadino verrà ad arare.

La situazione sembra senza speranza, ma gli altri animali della campagna le daranno una mano, soprattutto i ratti che vivono nel roseto accanto alla fattoria, vecchi amici di suo marito e con un inquietante e segreto passato…

Godibile fino all’ultima pagina, questo romanzo di O’Brien ci racconta di un mondo animale che deve difendersi dall’uomo che non ha il minimo rispetto della Natura. Da leggere e da far leggere ai giovani lettori.

Per la chicca: nel 1982 Don Bluth ha realizzato il cartone animato ispirato al romanzo dal titolo in italiano “Mrs. Brisby e il segreto del Nimh”. Avete letto bene “MRS BRISBY”!

L’unica spiegazione che mi viene in mente è che il solito genio del distributore italiano ha cambiato il nome della protagonista per paura che si potesse confondere col fresbee…

Ma torniamo al cartone animato: Bluth stravolge l’essenza della storia di O’Brien inserendoci di sana pianta e immotivatamente il fantasy. Ma le grandi falle nelle sceneggiature sono tipiche dei film di Bluth.

“Il fascino discreto della borghesia” di Luis Buñuel

(Francia, 1972)

Qui parliamo del genio di uno dei più grandi registi del Novecento che ha lasciato un segno profondo nel cinema e nella cultura mondiale. Questa pellicola, premio Oscar per il miglior film straniero, Luis Buñuel la dirige passati già i 70 anni: ma il vero genio non ha età. La freschezza narrativa, lo spirito critico e la lucidità con cui racconta l’arroganza e la crudeltà del potere, ne fanno un capolavoro mondiale assoluto.

Due coppie dell’alta borghesia parigina vorrebbero organizzare una cena che, per un disguido o per un semplice malinteso non riesce ad avere luogo. Ma la cena è solo una scusa per raccontare, fra sogno e realtà, una parte della società corrotta e corruttrice, senza ritegno e senza vergogna.

La camminata volitiva su una strada in mezzo alla campagna che fanno i protagonisti, è da storia del cinema.

Con un cast superbo, fra cui spiccano Fernando Rey e Jean-Pierre Cassel (padre di Vincent), “Il fascino discreto della borghesia” è un film da rivedere a intervalli regolari, per la sua triste attualità, e per apprezzarne ogni volta un nuovo piccolo e geniale particolare.

“L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo” di Jay Roach

(USA, 2015)

Nel corso degli ultimi decenni sono stati girati ottimi film sul periodo oscuro di Hollywood legato a quello che poi fu chiamato il cosidetto “maccartismo” – dal nome del senatore Jospeh McCarthy paladino della caccia ai comunisti – che dalla fine degli anni Quaranta ai primi anni Sessanta, ghettizzò attori, registi, produttori e sceneggiatori che avevano aderito, o avevano espresso simpatie, per il Partito Comunista, privandoli del lavoro e spesso della dignità sociale, tanto da provocare non pochi suicidi.

La storia ci ha rivelato che tutte queste spie sovietiche nell’America del Secondo Dopoguerra non c’erano, e che persone come McCarthy usavano la paura del comunismo soprattutto a scopi politici e personali. “L’ultima parola” racconta la storia di Dalton Trumbo, uno dei più geniali sceneggiatori della sua epoca, fra le prime vittime del maccartismo.

La Seconda Guerra Mondiale è finita da pochi anni e Dalton Trumbo (un ottimo Bryan Cranston) è uno degli sceneggiatori più famosi e pagati di Hollywood. Trumbo è iscritto al Partito Comunista e per questo è fra i primi a cadere sotto la lente d’ingrandimento della Commissione contro le attività antiamericane.

Lo sceneggiatore non si fa intimidire e per questo il martello della repressione con lui sarà durissimo. Soprattutto perché Hollywood viene invasa dalla paura e le grandi case di produzione, invece di difendere i propri artisti, creano una commissione interna che decide la vita o la morte – ufficilamente artistica, ma purtroppo non per tutti sarà così – di chi è anche lontanamente sospettato di avere simpatie comuniste.

A capo di questa commissione viene nominato il reazionario, dichiaratamente fascistoide John Wayne, coadiuvato dall’ex attrice mediocre divenuta la spietata regina del gossip della Mecca del cinema, Hedda Hopper (una bravissima Helen Mirren).

Ma Trumbo non molla, e svendendo il suo genio e usando svariati pseudonimi riesce a lavorare e a vincere addirittura due Oscar per la miglior sceneggiatura. Un tipo tosto quindi, che ha avuto sempre …l’ultima parola.

Con questa pellicola diretta da Jay Roach, scritta da John McNamara e ispirata alla biografia di Dalton Trumbo firmata da Bruce Alexander Cook, riviviamo un’epoca di paure, sospetti e delazioni, non così distante da quella attuale, purtroppo.

Nel cast da ricordare anche Diane Lane nel ruolo di Cleo, la moglie di Trumbo, e Elle Fanning in quello di Niki, sua figlia.

“Whiplash” di Damien Chazelle

(USA, 2014)

Cosa sei disposto a sacrificare per realizzare il tuo sogno? …Per diventare un grande musicista, e in questo caso un grande batterista, sei pronto davvero a rinunciare a tutto?

Andrew (un bravissimo Miles Teller) è un ragazzo introverso che ama la musica, soprattutto il jazz, e la sua missione è suonare la batteria. Per questo frequenta un prestigioso college artistico di New York, dove insegnano i migliori artisti della città e forse degli Stati Uniti.

Fra questi c’è il leggendario Terence Fletcher (uno stratosferico J.K. Simmons), genio della musica e del jazz, dai modi rudi e spesso violenti. Andrew viene notato da Fletcher che lo ammette nella sua classe, dove la competizione però è davvero all’ultimo sangue. Il genio di Andrew è promettente ma Fletcher, per tirarlo fuori, è disposto a oltrepassare i limiti…

Bellissima e dura pellicola indipendente americana che parla del talento e dei suoi lati più pericolosi e oscuri.

Scritto e diretto da Damien Chazelle (classe 1985) “Whiplash” è davvero un piccolo gioiello che fra i numerosi premi vinti in tutto il mondo colleziona tre premi Oscar: miglior montaggio, miglior sonoro – e questo la dice lunga sulla musica nel film – e miglior attore non protagonista al cattivissimo e bravissimo J.K. Simmons che ha vinto anche il Golden Globe.

Da vedere col volume a palla.

“Ferro 3 – La casa vuota” di Kim Ki-duk

(Corea del Sud/Giappone, 2004)

William Shakespeare sostiene che: “siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni” (o almeno qualcuno di noi lo è), e la stessa cosa ce la racconta uno dei registi coreani contemporanei più geniali: Kim Ki-duk.

Tae-suk è un giovane solitario, patito di golf, che ama intrufolarsi nelle case vuote mentre i proprietari sono lontano, e passarci qualche giorno. Tae-suk non ruba nulla, anzi, ama addirittura aggiustare i piccoli elettrodomestici che trova difettosi nelle case, e lavare i panni dei suoi ospiti.

In una di queste visite, il ragazzo incappa in Sun-hwa, giovane donna costantemente maltrattata dal ricco marito. Fra i due nasce una profonda e silenziosa complicità che porterà la ragazza ad abbandonare la casa del marito per seguire il giovane sconosciuto. Passeranno giorni intimi e sereni fino a quando in una casa troveranno il cadavere di un uomo…

Cosa sono i sogni? …E davvero si infrangono all’alba?

Splendida e originalissima pellicola che ci illumina l’anima. Pochi dialoghi e grandi capacità visive.

Da vedere.

“I miei vicini Yamada” di Isao Takahata

(Giappone, 1999)

Questo particolare lungometraggio animato, prodotto dallo Studio Ghibli nel 1999, è ispirato al manga yonkoma (di quattro vignette) “Nono-chandi Hisaichi Ishii.

Il maestro Isao Takahaka (regista degli splendidi “Una tomba per le lucciole“, “Pom-Poko“, “Pioggia di ricordi” e “La storia della principessa splendente“) adatta per il grande schermo una delle più famose strisce umoristiche che più divertono i giapponesi.

I disegni sono quasi accennati, scarni sono i fondali e l’essenziale visivo è legato all’azione del breve episodio raccontato. Attraverso una lunga serie di piccole storie quotidiane, concatenate le une alle altre, assistiamo alla vita di tutti i giorni degli Yamada, tipica famiglia della Tokyo di oggi, e dei suoi cinque membri: nonna Shinge, papà Yakashi, mamma Matsuko, il figlio adolescente Noboru e la piccola Nonoko.

Se volete davvero conoscere la vita comune di una classica famiglia giapponese questo è il film per voi. Non sono molte le pellicole che riescono a mostrare la vera anima dello stile di vita nel Sol Levante, e se ci aggiungiamo poi che è firmato da uno dei maestri dello Studio Ghibli… da vedere.

“Alla ricerca di Dory” di Andrew Stanton

(USA, 2016)

Non era facile creare un sequel al successo planetario di “Alla ricerca di Nemo“, ma alla Pixar sono dei geni, c’è poco da dire, e così si sono presi tutto il tempo necessario (circa tredici anni) per raccontare una nuova bellissima storia con Dory, Marlin e Nemo.

Scritto e diretto da Andrew Stanton (regista di “Alla ricerca di Nemo” e “Wall-E”) insieme a Victoria Strouse “Alla ricerca di Dory”, come tutti i film della Pixar, ci parla d’amore: dell’amore incondizionato di due genitori verso una figlia molto particolare, e di quello della figlia verso di loro e verso i suoi veri amici, nonostante tutte le complicazioni nel soffrire di difetti alla memoria breve.

Con una grafica sempre più increbile, viaggiamo sul fondo del mare e dentro enormi o piccoli acquari e, oltre ai noti protagonisti, conosciamo il cinico e solitario polipo Hank che aiuta Dory suo malgrado, e grazie a lei – come nel film precedente per Marlin – impara ad accettare se stesso e il mondo col quale deve relazionarsi.

Davvero un grande film.

Bisogna, poi, fare i complimenti a Carla Signoris che doppia il pesce blu e giallo in maniera sublime, indiscutibilmente molto brava, forse più della stessa Ellen DeGeneres nella versione originale.

E per finire: titoli di coda geniali come sempre!

“Il ballo” di Irène Némirovsky

(Adelphi, 2005)

Antoniette vive un’adolescenza difficile: ha un rapporto tiepido col padre, impegnato sempre col suo lavoro, e a dir poco difficile con la madre dal carattere forte ed egocentrico.

Più che a seguire la crescita della loro unica figlia, i coniugi Kampf si dedicano a consolidare il loro stato sociale di “nuovi” ricchi. L’acerba Antoniette, schiacciata fra i genitori e il nuovo e, a volte, incomprensibile stile di vita, cova un rancore profondo che alla fine sfogherà in una feroce vendetta.

Questo breve romanzo, tanto sottile quanto attuale – che vide le stampe la prima volta nel 1930 e poi incredibilmente dimenticato fino a pochi anni fa – rappresenta la seconda opera della giovane scrittrice francese Irène Némirovsky, nata in Russia ed emigrata a Parigi assieme ai suoi genitori, e che per tutti gli anni Trenta sarà una figura di spicco della vita culturale della capitale francese.

A neanche quarant’anni la Némirovsky, il 17 agosto 1942, perirà nel campo di sterminio nazista di Auschwitz, dove era stata reclusa perché di religione ebraica.

“The Lobster” di Yorgos Lanthimos

(Irl/Gre/UK/Fra/Ola, 2015)

In un mondo, molto simile al nostro, non c’è posto per gli esseri umani single. Coloro i quali rimangono soli vengono trasferiti in centri di accoglienza dove hanno solo quarantacinque giorni per poter tornare “accoppiati”, altrimenti verranno trasformati in un animale a loro scelta.

Quando David (un bravissimo e goffo Colin Farrell) viene condotto in uno di questi alberghi, nel caso fallisca, sceglie di essere trasformato in una aragosta (lobster, appunto).

La permanenza è terrificante e i giorni passano ma David riesce incredibilmete a fidanzarsi con una delle ospiti più perfide. Quando però la donna si accorge che lui non la ama davvero, David è costretto a fuggire e si dà alla macchia unendosi ai Solitari, una sorta di resistenti comandati da una leader volitiva (Léa Seydoux) che vivono nascosti nelle vegetazione, e fra i quali è drasticamente vietato ogni tipo di contatto fisico e morale. Ma fra i Solitari, David incontra un giorno una donna miope (Rachel Weisz) e se ne innamora…

Paradossale, ironica e cattivissima pellicola diretta dal greco Yorgos Lanthimos, che ne ha scritto la sceneggiatura assieme al connazionale Efthymis Filippou, che fotografa in maniera spietata la nostra società. Da ricordare il ruolo secondario, ma fantastico, di John C. Reilly.

Atmosfere e situazioni molto simili al grottesco “I viaggiatori della sera” di Umberto Simonetta.

Da vedere, pronti a tutto…

“Il libro del té” di Okakura Kakuzo

(Elliot, 2014)

Okakura Kakuzo, nato nel 1862 a Yokohama, dopo essere stato uno studente dell’Università Imperiale di Tokyo diventa direttore della Scuola Nazionale d’Arte di Tokyo, e paladino nonché fervente sostenitore della conservazione della cultura e della tradizione nipponica.

Ma il Giappone della seconda metà dell’Ottocento è proiettato alla massima e rapida occidentalizzazione, e così Kakuzo è costretto – si dice addirittura su invito del’Imperatore – ad abbanodonare il suo ruolo e lasciare il Paese.

Si stabilisce negli Stati Uniti dove fonda un Istituto di Arte Giapponese, oltre a diventare consulente per numerosi musei. E proprio negli Stati Uniti, nel 1906, Kakuzo scrive “Il libro del té” nel quale, raccontando dell’antico rito legato all’ancestrale bevanda, parla della cultura secolare, dell’arte e della storia del suo Paese che in quegli anni, sempre più in maniera scellerata, aderisce all’Occidente.

Kakuzo, anche se non avrà il tempo di vedere la Prima Guerra Mondiale morendo nel 1913, arriva anche a presagire l’epilogo di tale asservimento culturale: la catastrofe che sarà per il suo Paese la Seconda Guerra Mondiale.

Per me, che amo tanto il Giappone del maestro Hayao Miyazaki, è un libro imperdibile.