“I viaggiatori della sera” di Umberto Simonetta

(Mondadori, 1976)

Di questo romanzo surreale io non ne avevo mai sentito parlare se non in funzione del film “I viaggiatori della sera” che ne ha fatto Ugo Tognazzi nel 1979. Eppure Umberto Simonetta è stato un grande umorista e autore del nostro secondo Novecento. Ha scritto numerosi spettacoli teatrali, collaborando con altri grandi autori quali Enrico Vaime o Guglielmo Zucconi. Ma torniamo al romanzo.

“I viaggiatori della sera” esce in un momento storico in cui la nostra società deve fare seriamente i conti con la terza età. Ormai in quasi tutte le famiglie ci sono nonni o nonne “di troppo” e si cercano soluzioni più o meno eleganti per sbarazzarsene.

Se lo straordinario episodio “Come una regina” del film “I nuovi mostri” ci racconta in maniera terrificante e reale l’internamento – perché solo così si può chiamare – di una nonnina non gradita alla nuora, il romanzo di Simonetta va oltre, e usando l’ironia entra nel campo del surreale.

Per un incontenibile sovrappopolamento, la Legge prevede che a 49 anni ogni cittadino è costretto ad abbandonare il proprio lavoro e la propria casa per recarsi in uno dei numerosi Villaggi per vacanze “definitive”.

Si tratta di veri e propri resort che ospitano gli “attempati” clienti esattamente come quelli normali. L’unica grande e apparente differenza è che una volta al mese viene effettuata una tombola, e chi la vince è costretto a partire immediatamente per una crociera dalla quale non tornerà mai più. Questo ovviamente altera i comportamenti e la morale degli ospiti…

Strepitosa e feroce critica della nostra società che in quarant’anni forse non è cambiata poi di tanto… basta guardare le simpatiche pubblicità di amene cliniche private per anziani per rendersene conto.

Ma tranquilli “I viaggiatori della sera” è fuori catalogo, se proprio lo volete leggere tocca che vi buttate sull’usato, e pure vecchiotto.

Nel 2015 il regista greco Yorgos Lanthimos dirige il grottesco “The Lobster” con atmosfere e situazioni molto simili a questo romanzo di Simonetta.

“Basette” di Gabriele Mainetti

(Italia, 2008)

Che le varie serie de “Le avventure di Lupin III col grande Arsenio – Arsenico per gli amici – Lupin III abbiano segnato profondamente l’immaginario collettivo della mia generazione, è un indiscutibile dato di fatto, e soprattutto un motivo d’orgoglio, visto che a dirigere la prime due stagioni (quelle con la mitica giacca verde) del manga firmato da Kazuhiko Katō e’ stato il maestro Hayao Miyazaki.

Se è vero che ci sono molti modi per raccontare una contaminazione, è vero anche che pochi sono quelli che riescono a coglierne al meglio l’anima – e pure l’anime… – in maniera efficace e coinvolgente. E questo bel cortometraggio di Gabriele Mainetti, scritto da Nicola Guaglianone, è un ottimo esempio.

Antonio (un sempre bravo Valerio Mastandrea) è un ladruncolo della periferia romana, figlio d’arte, specializzato in furti in negozi e piccole rapine. La mattina che insieme ai suoi soliti complici Franco (Marco Giallini) e Tony (Daniele Liotti) si prepara a rapinare un ufficio delle Poste, pensa alla madre, specializzata in furti nei supermercati, che venne arrestata la volta che tentò di rubare un costume da Lupin III per lui.

Ma soprattutto Antonio ricorda Prisca (Luisa Ranieri), “socia” della madre, di cui lui è stato sempre innamorato. La rapina va male, e Antonio è steso sull’asfalto davanti all’ufficio postale, colpito alla testa da un proiettile.

Accanto a lui ci sono i corpi esanimi di Franco e Tony. Negli ultimi istanti di vita Antonio sogna. Sogna di essere illeso e venire arrestato, vestito esattamente come Lupin III (ma con la giacca rossa) da un ispettore (Flavio Insinna) che ricorda tanto Zazà Zenigata. E mentre lui è sotto interrogatorio, i suoi amici di sempre Jigen-Franco e Goemon-Tony si preparano a farlo evadere…     

Il conciliare la romanità, soprattutto quella delle periferie – che Pasolini amava tanto – e che oggi è forse l’unica vera rimasta, con i miti dei cartoni giapponesi anni Settanta è già sulla carta un’intuizione geniale.

E Mainetti, grazie anche a un cast di tutto rispetto, riesce a mantenere le promesse anche sulla pellicola. Davvero 17 minuti ben spesi.

Da vedere, anche in attesa del suo “Lo chiamavano Jeeg Robot”.    

“Fatso – Pastasciutta …amore mio!” di Anne Bancroft

(USA, 1980)

Che Anne Bancroft fosse una donna con un grande senso ironico non è certo un mistero, visto che è stata la compagna di vita di Mel Brooks, ma che fosse in grado di scrivere, dirigere e interpretare una deliziosa commedia come “Fatso – Pastasciutta …amore mio!” era forse meno evidente.

La Bancroft, il cui vero nome era Anna Maria Louise Italiano, non ha mai nascosto le sue origini italiane, e in questo film le rivendica tutte, con pro e contro annessi.

Dominick Di Napoli (un grande Dom DeLuise) gestisce placidamente una cartoleria a Brooklyn insieme alla sorella Antonietta (la Bancroft). La vita di Dominick ruota intorno a tre pilastri: la famiglia (vive infatti col fratello minore Frankie, anche lui scapolo, nell’appartamento sopra a quello dove abita la sorella con marito e figli), il lavoro e – da italoamericano DOC – il cibo.

La vita dei Di Napoli viene però sconvolta dalla morte improvvisa del loro cugino Salvatore, che a soli 39 anni viene stroncato da un malore causato dalla sua grave obesità. Visto che anche Dom ha svariati chili di troppo, Antonietta lo costringe a rivolgersi a un implacabile dietologo.

Per qualche tempo l’uomo riesce a seguire la dieta ferrea ma poi, una notte, cede vanificando tutti i suoi sacrifici. Casualmente una cliente del negozio gli suggerisce i “Chubby Checkers”, una sorta di Anonima Obesi grazie alla quale lei è riuscita a dimagrire alcune decine di chili.

Dom partecipa agli incontri sentendosi subito rincuorato, ma una notte un incontenibile attacco di voracità lo porta a minacciare il fratello con un coltello pur di avere le chiavi del lucchetto che blocca il frigorifero e i pensili della cucina. Frankie, preoccupatissimo, chiama in soccorso Oscar e Sonny, i tutor del fratello, che si precipitano a casa Di Napoli. Ma l’obesità è una brutta bestia – sigh! – e a forza di parlare di cibo Dom, Oscar e Sonny rompono i lucchetti e svuotano la dispensa.

Disperata, la mattina seguente, Antonietta tenta l’ultima carta: l’amore. E così corre a chiamare Lydia (Candice Azzara), la giovane proprietaria di un negozio di antiquariato vicino al loro, della quale Dom è platonicamente innamorato.

La cosa sembra funzionare fino a quando, una terribile sera, Lydia misteriosamente scompare facendo precipitare Dom in un abisso di cibo (cinese)…

Una dichiarazione d’amore verso gli obesi e i diversi in generale, fatta con molto garbo e tanta ironia. E pensare che la Bancroft non ha mai avuto problemi di peso, lei che è stata – e nell’immaginario collettivo lo è ancora – un sex-symbol e una delle dark lady più famose di Hollywood dando viso e corpo – e che corpo! – alla famigerata Mrs. Robinson de “Il laureato”.

In tutta la sua carriera, e in questo film in particolare, Anne Bancroft ci ricorda che non bisogna essere per forza obesi o diversi per essere sensibili. Una grande!

Purtroppo oggi è praticamente impossibile rivedere questo gioiellino di film. Non esiste un’edizione in DVD in italiano e sono anni – se non decenni… – che non viene trasmesso in televisione.

Io possiedo un rarissimo VHS che ormai si sta letteralmente sbriciolando, sob!        

 

Addio a Umberto Eco

Ieri sera si è spento Umberto Eco, e quindi noi oggi siamo un Paese molto più povero.

Al momento ci sono centinai di siti e blog, molto più blasonati e titolati del mio, che sviscerano la carriera, i saggi e gli scritti di Eco.

Io, perciò, voglio solo parlare della perdita di un grande intellettuale, di come oggi mi senta proprio come se avessi appena ricevuto la notizia della scomparsa dell’unico professore che sui banchi di scuola era riuscito ha trasmettermi la voglia di imparare e mi aveva aperto il cervello.

Io che non ho mai avuto il piacere e l’onore di conoscerlo personalmente, mi sento in lutto lo stesso, perché Eco era un 84enne con la voglia di imparare e provare di un adolescente.

Il recente strappo con la Bompiani-Mondadori è solo l’ultimo esempio. Un ragazzo di 84 anni che non aveva paura di ricominciare tutto da capo.

Grande tristezza.

Adolfo Celi

Il 19 febbraio del 1986 se ne andava Adolfo Celi.

Nato a Messina il 27 luglio del 1922 Celi, figlio di un prefetto, cresce girando l’Italia e nel 1942 approda all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica – che poi prenderà il nome del suo fondatore Silvio D’Amico – assieme a quelli che diventeranno alcuni dei più grandi attori teatrali italiani del secondo Novecento come per esempio Vittorio Gassman, con il quale allaccerà una profonda amicizia per tutta la vita.

Con il suo sguardo tagliente e l’espressione arcigna Celi approda anche al cinema, dove però gli vengono affidati solo ruoli secondari e da classico antipatico. La svolta, sia nella vita che nella carriera, arriva nel 1949 quando Aldo Fabrizi, approfittando di una propria tournée in America Latina gira “Emigrantes” – dedicato ai nostri connazionali che in quegli anni tentano la fortuna nel “nuovo Mondo” – e lo vuole nel cast.

Dopo le riprese Celi decide di stabilirsi in Brasile dove reciterà in teatro diventando direttore di vari teatri pubblici, ed esordendo alla regia anche nel cinema. Agli inizi degli anni Sessanta arriva una nuova svolta: il francese Philippe de Broca, dopo averlo notato proprio in Brasile, lo vuole come antagonista di Jean-Paul Belmondo nel suo “L’uomo di Rio”, film che ottiene un buon successo internazionale e porta Celi a tornare in Italia dopo quindici anni di assenza.

Grazie al film di de Broca, Celi viene chiamato a recitare in numerose pellicole tra cui “Il tormento e l’estasi” di Carol Reed dedicato al genio di Michelangelo Buonarroti, e “E venne un uomo” di Ermanno Olmi sulla vita di Papa Giovanni XXIII.

Ma è nel 1965 che Adolfo Celi impersona il cattivo che lo renderà famoso in tutto il mondo: è suo, infatti, il volto del perfido Emilio Largo, numero 2 della Spectre, antagonista di James Bond-Connery in “Agente 007 – Operazione Tuono (Thunderball)” di Terence Young.

Il successo è planetario, e i ruoli per Celi si moltiplicano, molti dei quali sempre secondari o in film di poco valore, ma alcuni invece che gli permettono di lavorare con grandi registi come Mario Monicelli in “Brancaleone alle crociate”, Luis Buñuel ne “Il fantasma della libertà”, Franco Zeffirelli in “Fratello sole, sorella luna”, Damiano Damiani ne “Il sorriso del grande tentatore”, o Nanni Loy in “Cafè Express”.

Celi torna anche dietro la macchina da presa nel 1969 con il film “L’alibi”, co-diretto con gli amici Vittorio Gassman e Luciano Lucignani.

Per quanto mi riguarda, sono il 1975 e il 1976 gli anni in cui Adolfo Celi lascia il suo segno indelebile nell’immaginario collettivo con alcuni ruoli che, anche se da comprimario, rimangono per sempre stratosferici.

Il primo è quello del perfido e glaciale professor Alfeo Sassaroli nel mitico “Amici miei” di Mario Monicelli. Il secondo è quello dello spietato alfiere della Compagnia delle Indie, il rajah Lord James Brooke che tenta in ogni modo di sopprimere il mito della mia infanzia, la sola e grande Tigre di Mompracem Sandokan, nell’omonimo – stellare, e se è tanto che non lo vedete, riguardatelo perché davvero merita – sceneggiato televisivo diretto da Sergio Sollima nel ‘76.

Lo stesso anno Celi, nel ruolo del giudice, partecipa anche a quello che ormai è considerato cronologicamente l’ultimo esemplare della commedia all’italiana: “Febbre da cavallo” di Steno. Potete pure arricciare il naso, peggio per voi, perché la pellicola di Steno ha davvero momenti di sfiziosa comicità e lascia intravedere profeticamente quello che diventerà la nostra società negli anni successivi.

Nonostante la florida carriera cinematografica, Celi non abbandona mai il teatro nel quale partecipa, da protagonista, a grandi e importanti allestimenti.

Poche ore prima della rappresentazione a Siena de “I Misteri di San Pietroburgo” tratto dall’opera di Fëdor Dostoevskij, Celi accusa un malore tale da dover essere ricoverato d’urgenza. Sul palco lo sostituisce l’amico Vittorio Gassman, che dello spettacolo è il regista.

Dopo alcune lunghe ore d’agonia, il 19 febbraio del 1986 Adolfo Celi muore per un attacco cardiaco. Quel giorno scompare uno dei più grandi attori italiani del Novecento, fra i pochi ad avere avuto una caratura internazionale, nel quale è stato secondo solo a Marcello Mastroianni e Ugo Tognazzi.

“Omicron” di Ugo Gregoretti

(Italia, 1963)

Di questo film, oggi, se ne parla incredibilmente poco, anche se è uno dei più citati nei manuali e nei tomoni sulla storia del cinema, proprio nei capitoli dedicati alla grande commedia all’italiana. Certo, sembra strano per un film di fantascienza, ma è così.

Il cadavere di Trabucco (Renato Salvatori), operaio di una grande e premiata fabbrica di automobili torinese, viene trovato apparentemente senza vita. Al momento di effettuare l’autopsia, il Trabucco inaspettatamente si risveglia avendo però un inspiegabile e scarso controllo del proprio corpo.

Questo perché in realtà l’extraterrestre Omicron, esploratore in missione per conto del pianeta Ultras, si è impossessato del suo corpo, attraverso il quale deve raccogliere più informazioni possibili per preparare il suo pianeta all’invasione della Terra.

Ovviamente nessuno è al corrente del diabolico piano e l’operaio, nonostante non abbia riacquistato la parola, viene reintegrato al suo posto di lavoro dove, grazie alle capacità di Omicron, riesce a svolgere il lavoro di suoi sei colleghi messi insieme.

La cosa attira le calde attenzioni della dirigenza che cerca subito di adattare gli standard lavorativi sulle sue capacità scatenando l’ira e le rappresaglie degli altri lavoratori. Ma, inaspettatamente, la coscienza del vero Trabucco riesce a svegliarsi – grazie anche agli incontri/scontri con gli altri esseri umani che Omicron suo malgrado è costretto a vivere – portando il suo ospite all’agonia. Ma il “potere costituito”…

Strepitosa e graffiante parodia italiana de “L’invasione degli ultracorpi”, che con la scusa della fantascienza – che allora permetteva di dire quasi tutto – e di far ridere, scatta una grande e purtroppo profetica fotografia delle lotte di classe che in quel decennio avranno il loro apice nel famigerato ’68, che ci regalerà poi gli splendidi ed edonistici anni Ottanta.

La cosa più triste nel riguardare il film di Gregoretti, prodotto dal grande Franco Cristaldi, è che ci si chiede come fece una pellicola del genere ad arrivare nelle sale senza cadere nelle maglie della censura dei produttori prima e in quella ufficiale poi, visto che oggi – sigh! – sarebbe quasi impensabile il contrario…

“The Hateful Eight” di Quentin Tarantino

(USA, 2015)

Dite quello che vi pare, ma quel “pazzo” sanguinario (in senso di splatter e sangue nei suoi film) di Quentin Tarantino è sempre un genio.

Come scelta, prima di vedere un film, non leggo nessuna recensione perché nel nostro Paese, al 90%, si pensa che basti raccontare la trama e mettere un pollice verso l’alto o uno verso il basso per scrivere un articolo.

E così mi è capitato di leggere fior fiori di pezzi che rivelavano finali o colpi di scena, tanto per dimostrare di aver visto il film in questione, con la desolante certezza che non serviva altro. Così, appena visto il film al cinema, mi sono dedicato a leggere divertentissime critiche che stroncavano quest’ultima fatica di uno dei più geniali cineasti viventi.

Per me, invece, l’ottava fatica di Tarantino è un gran film, scritto e diretto superbamente. Oltre che grande cinema, è una grande critica agli elementi fondanti gli Stati Uniti d’America, molti dei quali in questi giorni – per esempio – sono presi ad esempio e manifesto per le campagne elettorali primarie in vista delle presidenziali che si terranno in autunno.

E poi c’è la grandiosa colonna sonora firmata dal maestro Ennio Morricone. A partire dai titoli di testa, Morricone ci prende per lo stomaco e ci porta dritti dritti a quelli di coda. Se quest’anno non vince l’Oscar sarebbe un vero delitto insopportabile, visto come sarebbero tristi le nostre esistenze senza le sue musiche immortali…

“Il Vizietto” di Edouard Molinaro

(Italia/Francia, 1978)

Sono passati quasi quarant’anni dalla sua uscita nelle sale cinematografiche, e da allora sono stati girati innumerevoli film sull’omosessualità, ma questa pellicola di Edouard Molinaro rimane davvero tanto attuale.

Sia per la straordinaria bravura dei suoi protagonisti Ugo Tognazzi e Michel Serrault, sia per la sua sceneggiatura fresca, ironica e tagliente, con battute straordinarie.

Nel 1973 debutta al Palais-Royal – edificio seicentesco e storico di Parigi ospitante il Consiglio di Stato e il Consiglio Costituzionale, oltre che un teatro della Comédie-Française – la commedia/farsa “La cage aux folles” (che letteralmente sarebbe “La gabbia delle matte”) scritta dall’attore Jean Poiret, che la interpreta accanto a Michel Serrault.

Il successo è strepitoso e le repliche si protraggono per cinque anni. In Italia furoreggiano le Sorelle Bandiera, battezzate e portate in televisione da Renzo Arbore, e così alcuni produttori pensano di adattare la commedia per il grande schermo.

Michel Serrault mantiene la sua parte di Albin/Zazà, mentre il ruolo che era di Jean Poiret viene affidato a Ugo Tognazzi che impersona Renato Baldi. La sceneggiatura viene scritta dallo stesso Poiret assieme a Molinaro, Marcello Danon e Francis Veber (che poi firmerà altre sceneggiature di grandi incassi come “La capra” e “La cena dei cretini”).

Il successo al cinema è clamoroso e pochi mesi dopo l’uscita nelle sale viene messo in cantiere il primo sequel (che non è all’altezza del primo, così come sarà mediocre il terzo episodio “Matrimonio col Vizietto” del 1985).

La coppia Serrault-Tognazzi si dimostra come una delle migliori del cinema comico, e nella nostra versione non può non essere ricordato insieme a loro Oreste Lionello che doppia straordinariamente Serrault.

Nel rivederlo oggi, io che bambino lo vidi al cinema divertendomi per quegli uomini stranamente vestiti da donna, comprendo adesso il grande rispetto che Tognazzi e Serrault misero nel portare sullo schermo i vizi, le debolezze ma anche l’infinita tolleranza e il coraggio degli omosessuali di allora.

I veri ridicoli nel film sono i bigottoni degli Charrier, il cui capofamiglia è interpretato da uno strepitoso Michel Galabru – scomparso solo poche settimane fa – ma soprattutto i due giovani che vogliono sposarsi e che sono disposti a calpestare i sentimenti dei genitori – questo vale soprattutto per Laurent che deride e critica aspramente il padre Renato per il suo stile di vita – pur di realizzare il loro sogno d’amore.

A tal proposito, è giusto ricordare come lo stesso Tognazzi, all’uscita del film in Italia, protestò per il titolo scelto “Il Vizietto”, che sembrava riferirsi con accezione negativa all’omosessualità dei protagonisti.

E anche se ufficialmente il vizietto è quello di Renato che una volta ogni vent’anni viene colto dalla voglia di avere un rapporto sessuale con una donna, il titolo del film divenne nel nostro Paese, per qualcuno, il termine becero e stereotipato per riferirsi a un omosessuale.

Immortale, e  non solo per i numerosi premi vinti come il Golden Globe, il David di Donatello, il Cèsar e le due candidature all’Oscar come Miglior Regia e Miglior Sceneggiatura Non Originale.

“La ricompensa del gatto” di Hiroyuki Morita

(Giappone, 2002)

La Lucky Red di Andrea Occhipinti – fra i più oculati e attenti distributori italiani – cura, per il nostro benessere intellettuale ed emotivo, una splendida nuova – e purtroppo molto breve – uscita nelle nostre sale dei capolavori prodotti dallo Studio Ghibli nel corso degli ultimi trent’anni.

Ieri e oggi tocca a “La ricompensa del gatto” di Hiroyuki Morita, vero e proprio spin-off dell’altrettanto splendido “I sospiri del mio cuore” diretto da Yoshifumi Kondō e scritto da Hayao Miyazaki e ispirato al manga per ragazze “Sospiri del cuore” di Aoi Hiiragi.

Ed è lo stesso Miyazaki ad avere l’idea per un cortometraggio che poi si svilupperà in un lungometraggio di cui curerà il progetto ed affiderà la regia a Hiroyuki Morita.

Haru è un’adolescente goffa e solitaria che spesso si caccia in situazioni scomode e imbarazzanti. Un pomeriggio, mentre torna a casa dalla scuola, salva eroicamente un gatto che sta per essere investito da un camion.

La notte stessa, davanti alla sua porta, si ferma un imponente corteo di gatti che camminano sulle zampe posteriori. E’ il corteo reale condotto dal re dei gatti in persona venuto a ringraziarla per aver salvato la vita al suo unico figlio.

Come ricompensa Haru dovrà sposare lo stesso principe ereditario e vivere per sempre nel paese dei felini. Confusa e preoccupata Haru cerca qualcuno che le creda e, soprattutto, l’aiuti. L’unico che sembra poterlo fare è il gatto Baron…

Bellissimo, da far vedere a scuola, e immancabile per chi ama il maestro giapponese e gli animali.

“Le vacanze di monsieur Hulot” di Jacques Tati

(Francia, 1953)

Sono profondamente legato a questo film perché mi ricorda tanto la mia infanzia.

Così come i capolavori di Charlie Chaplin o le “comiche” di Stanlio e Ollio, anche quest’opera splendida del mimo, attore e regista Jacques Tati mi passava spesso davanti agli occhi quand’ero piccolo.

Purtroppo oggi Tati è praticamente dimenticato, ma riguardando questa pellicola si capisce quanto all’artista francese debbano i comici delle generazioni successive, fino ad arrivare a Rowan Atkinson col suo Mr Bean e passando per Paolo Villaggio e il suo Fantozzi, anche se Tati possiede una poesia e una delicatezza ancora più rare.

In una piccola località balneare sull’Atlantico francese si consumano le ferie estive del goffo e solitario Monsier Hulot che, col suo modo stravagante ma sincero di approcciarsi alla vita, crea scompiglio e confusione.

Una fotografia in bianco e nero di un mondo che forse già allora, nel 1953, non c’era più, ma che rimane per sempre nella storia del cinema con una colonna sonora indimenticabile.

Da vedere soprattutto una sera in cui si è particolarmente tristi o malinconici.

Nel 2013 Laurent Witz e Alexandre Espigares realizzano il corto animato “Mr Hublot“, che fra i numerosi premi vince anche l’Oscar, ispirato proprio al Monsieur Hulot di questa pellicola.