“C’era una volta a… Hollywood” di Quentin Tarantino

(USA, 2019)

Quel genio folle e unico di Quentin Tarantino non sbaglia un colpo. Alla suo nona prova da regista ci regala un grande film sul cinema, sulla televisione e sulle loro reciproche contaminazioni nella vita reale.

Nato come un romanzo, “C’era una volta a…Hollywood” è diventato un film dopo quasi cinque anni di lavorazione; e ci racconta la storia di Rick Dalton (un bravissimo Leonardo DiCaprio) e della sua fedele controfigura Cliff Booth (un altrettanto bravo Brad Pitt).

Siamo alla fine degli anni Sessanta e la citta è Los Angeles. Dalton è un attore la cui carriera, dopo una serie tv Western di successo, è ormai in fase calante. L’unico vero amico che ha, oltre all’alcol, è Cliff che 24 ore al giorno gli guarda le spalle.

Ma Rick Dalton possiede un’altra peculiarità: abita accanto al 10500 di Cielo Drive, dove da qualche tempo risiedono i Polanski: il geniale ed eclettico regista di origine polacche Roman e la sua giovane moglie Sharon Tate (Margot Robbie).  

Purtroppo sappiamo tutti cosa accadde tragicamente la notte fra l’8 e il 9 agosto del 1969, grazie alla follia omicida allucinata di Charlie Manson e della sua Family che massacrarono la Tate e altre quattro persone. Ma Quentin Tarantino non ci sta, la magia del cinema glielo consente, e così come solo davanti alla macchina da presa, su un palcoscenico o in un libro è possibile fare: cambia la storia.

I vili aguzzini della Family commetteranno quindi l’errore di sbagliare casa…

Per noi italiani questo film ha anche un altro merito: quello di omaggiare la nostra grande cinematografia passata. A partire dal titolo, Tarantino cita e onora alcuni nostri grandi cineasti, che invece da noi, per molti, sono caduti da anni nel dimenticatoio.

Per la chicca: ad impersonare Linda Kasabian, una delle ragazze della Family che però fugge al momento della strage – e che poi nella realtà sarà il testimone chiave nei processi contro Manson e i suoi – è Maya Hawke, figlia di Ethan Hawke e …Uma Thurman.  

“The Hateful Eight” di Quentin Tarantino

(USA, 2015)

Dite quello che vi pare, ma quel “pazzo” sanguinario (in senso di splatter e sangue nei suoi film) di Quentin Tarantino è sempre un genio.

Come scelta, prima di vedere un film, non leggo nessuna recensione perché nel nostro Paese, al 90%, si pensa che basti raccontare la trama e mettere un pollice verso l’alto o uno verso il basso per scrivere un articolo.

E così mi è capitato di leggere fior fiori di pezzi che rivelavano finali o colpi di scena, tanto per dimostrare di aver visto il film in questione, con la desolante certezza che non serviva altro. Così, appena visto il film al cinema, mi sono dedicato a leggere divertentissime critiche che stroncavano quest’ultima fatica di uno dei più geniali cineasti viventi.

Per me, invece, l’ottava fatica di Tarantino è un gran film, scritto e diretto superbamente. Oltre che grande cinema, è una grande critica agli elementi fondanti gli Stati Uniti d’America, molti dei quali in questi giorni – per esempio – sono presi ad esempio e manifesto per le campagne elettorali primarie in vista delle presidenziali che si terranno in autunno.

E poi c’è la grandiosa colonna sonora firmata dal maestro Ennio Morricone. A partire dai titoli di testa, Morricone ci prende per lo stomaco e ci porta dritti dritti a quelli di coda. Se quest’anno non vince l’Oscar sarebbe un vero delitto insopportabile, visto come sarebbero tristi le nostre esistenze senza le sue musiche immortali…

“Django Unchained” di Quentin Tarantino

(USA, 2012)

Il grande, geniale e folle Quentin Tarantino ci regala un’altra stupenda pellicola da godere fotogramma per fotogramma.

E, come sempre, nei fiotti splatter di sangue, Tarantino ci mette un tema duro e spietato come il razzismo e le atroci persecuzioni che hanno subito i neri nell’America della prima metà dell’Ottocento.

Come accade spesso nella storia i più spietati non sono solo i padroni viziati e arroganti come Calvin J. Candie (un bravissimo, come sempre, Leonardo DiCaprio), ma i kapò come il “negro Stephen” (uno stratosferico Samuel L. Jackson da triplo Oscar), vera mente oscura di Candyland.

Ma con l’arrivo del dottor King Schultz (un affabile e implacabile Christoph Waltz che si aggiudica la sua seconda statuetta come miglior attore non protagonista) e dell’uomo libero Django (Jamie Foxx) le cose cambieranno per sempre.

Oscar (ovviamente) anche come miglior sceneggiatura originale, “Django Unchianed” è l’ennesimo omaggio del cineasta statunitense al grande cinema italiano (almeno c’è lui che si ricorda chi siamo stati…) che ha il suo apice nella scena con Franco Nero e lo stesso Foxx, che gli dice il suo nome:

– Django …la D è muta – dice Foxx.

– Lo so! – risponde stizzito Franco Nero.

EDDAJE (stavolta la D non è muta!)