“Dimenticare Palermo” di Francesco Rosi

(Italia/Francia, 1990)

Alla fine del decennio che ha segnato il definitivo arrivo tragico e implacabile della droga nella nostra società, il maestro Francesco Rosi ci regala una pellicola che fotografa i poteri forti che ci sono dietro agli enormi guadagni che il traffico illegale produce giornalmente.

Ispirandosi all’omonimo romanzo della francese Edmonde Charles-Roux (1920-2016) pubblicato nel 1967, Rosi scrive la sceneggiatura assieme ai suoi amici personali Tonino Guerra e Gore Vidal, attualizzandola e disegnando un profilo della mafia molto più limpido fedele e duro.

Così ci troviamo a New York dove Carmine Bonavia (un bravo James Belushi), figlio di immigranti palermitani, è un consigliere del Municipio di New York che sfida il sindaco uscente. Fra i suoi cavalli di battaglia ci sono i centri per la tossicodipendenza che ha creato in alcuni quartieri.

E proprio durante l’inaugurazione di uno di questi Bonavia incontra Gianna Magnardi (Carolina Rosi) una giornalista siciliana che vive a New York e lavora per la televisione italiana, che gli chiede, una volta eletto, cosa avrà davvero il coraggio di fare per sconfiggere la piaga della droga. Bonavia prende spunto dalle domande della donna e inizia una nuova campagna a favore della legalizzazione della droga – non della liberalizzazione – cosa che di fatto farebbe perdere i clamorosi introiti quotidiani alla criminalità organizzata.

Decide poi di spostare la meta del suo imminente viaggio di nozze con Carrie (Mimi Rogers) da Venezia proprio a Palermo, la terra dei suoi genitori che lui non ha mai visto. L’unico che si oppone alla cosa è suo padre che tenta in ogni modo e inutilmente di fargli cambiare idea.

Così Carmine e Carrie Bonavia arrivano nel grande e lussuoso albergo di Palermo dove vengono accolti da un cortese quanto ambiguo direttore Gianni Mucci (Philippe Noiret). Il primo impatto con il capoluogo siciliano è magico e pieno di arte millenaria, odori e profumi incredibili. Ma anche di originali e strani personaggi come il Principe (Vittorio Gassman) che da oltre quarant’anni vive nell’albergo senza mai uscire dal portone.

Ma la campagna di Bonavia a favore della legalizzazione delle sostanze stupefacenti non può non attirare la calda attenzione della grande e multinazionale criminalità organizzata che conosce bene le origini, il sangue e l’anima di Carmine incapace di …dimenticare Palermo.

Splendida e dura pellicola di Rosi che, come tutte le altre sue opere, ha il merito di fotografare e testimoniare in maniera lucida e schietta la nostra società nel momento in cui viene realizzata, rimanendo al tempo stesso efficace e – …purtroppo – sempre attuale. Dopo oltre trent’anni, infatti, questo film ancora colpisce al cuore lasciandoci confusi e amareggiati sulle note della bellissima colonna sonora firmata dal maestro Ennio Morricone.

“Dimenticare Palermo” nel nostro Paese, pagò un prezzo molto alto visto che chi sedeva allora a Palazzo Chigi riteneva che l’unica arma possibile da usare contro la droga fosse la massima e implacabile repressione, soprattutto sui tossicodipendenti, discostandosi non poco dagli ideali del Bonavia.

Da vedere e da far vedere a scuola.

“Fantasmi a Roma” di Antonio Pietrangeli

(Italia, 1961)

Questa commedia fantasy racchiude alcuni fra i più importanti pilastri del nostro grande cinema. Il soggetto, infatti, è firmato dal padre del nostro Neorealismo Sergio Amidei, mentre la sceneggiatura è scritta da mostri sacri come Ennio Flaiano, Ruggero Maccari, Ettore Scola e lo stesso Antonio Pietrangeli, che poi lo dirige.

Per non parlare degli interpreti, fra cui spiccano un fascinosissimo Marcello Mastroianni, un grande Eduardo De Filippo e un coriaceo Vittorio Gassman. Da ricordare anche i bravissimi Tino Buazzelli (purtroppo doppiato), Claudio Gora che incarna sempre superbamente l’antipatico per eccellenza, e Lilla Brignone in quello struggente di Regina.

Il genere fantasy, nel nostro Paese e in quegli anni, aveva un ambito alquanto ristretto e poco seguito (“Omicron” diretto da Ugo Gregoretti nel 1963, è forse l’unico esempio del genere che ebbe un certo riscontro di pubblico e critica). Così questo film, dopo l’uscita nelle sale, venne rapidamente – e ingiustamente – dimenticato. Ma ancora oggi rappresenta uno dei picchi della nostra grande commedia.

Anche nella struttura “Fantasmi a Roma” si distingue dal genere classico. Infatti, il suo protagonista scompare a metà del film, per riapparire solo marginalmente alla fine. Fra i pochissimi altri esempi riusciti con una dinamica simile c’è “Psyco” del maestro Hitchcock, tanto per dire.

Ma tornando alla pellicola di Pietrangeli, ancora oggi seguiamo con trasporto e nostalgia la vita grama che conduce Don Annibale (De Filippo), principe di Roviano, che pur di non vendere l’antico palazzo di famiglia soffre la fame e il freddo. Così come assistiamo al salvataggio dello stesso storico edificio e dei fantasmi che lo abitano dalle scellerate ambizioni dell’ultimo erede Federico (Mastroianni, in uno dei suoi tre ruoli).

Poco è cambiato nella nostra mentalità, che aspira ad ottenere la vil pecunia nel modo più rapido e becero possibile. Peccato che Pietrangeli scomparve prematuramente solo pochi anni dopo, senza avere il tempo di donarci altri grandi film come questo o come “Adua e le compagne” o “Io la conoscevo bene”.

Adolfo Celi

Il 19 febbraio del 1986 se ne andava Adolfo Celi.

Nato a Messina il 27 luglio del 1922 Celi, figlio di un prefetto, cresce girando l’Italia e nel 1942 approda all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica – che poi prenderà il nome del suo fondatore Silvio D’Amico – assieme a quelli che diventeranno alcuni dei più grandi attori teatrali italiani del secondo Novecento come per esempio Vittorio Gassman, con il quale allaccerà una profonda amicizia per tutta la vita.

Con il suo sguardo tagliente e l’espressione arcigna Celi approda anche al cinema, dove però gli vengono affidati solo ruoli secondari e da classico antipatico. La svolta, sia nella vita che nella carriera, arriva nel 1949 quando Aldo Fabrizi, approfittando di una propria tournée in America Latina gira “Emigrantes” – dedicato ai nostri connazionali che in quegli anni tentano la fortuna nel “nuovo Mondo” – e lo vuole nel cast.

Dopo le riprese Celi decide di stabilirsi in Brasile dove reciterà in teatro diventando direttore di vari teatri pubblici, ed esordendo alla regia anche nel cinema. Agli inizi degli anni Sessanta arriva una nuova svolta: il francese Philippe de Broca, dopo averlo notato proprio in Brasile, lo vuole come antagonista di Jean-Paul Belmondo nel suo “L’uomo di Rio”, film che ottiene un buon successo internazionale e porta Celi a tornare in Italia dopo quindici anni di assenza.

Grazie al film di de Broca, Celi viene chiamato a recitare in numerose pellicole tra cui “Il tormento e l’estasi” di Carol Reed dedicato al genio di Michelangelo Buonarroti, e “E venne un uomo” di Ermanno Olmi sulla vita di Papa Giovanni XXIII.

Ma è nel 1965 che Adolfo Celi impersona il cattivo che lo renderà famoso in tutto il mondo: è suo, infatti, il volto del perfido Emilio Largo, numero 2 della Spectre, antagonista di James Bond-Connery in “Agente 007 – Operazione Tuono (Thunderball)” di Terence Young.

Il successo è planetario, e i ruoli per Celi si moltiplicano, molti dei quali sempre secondari o in film di poco valore, ma alcuni invece che gli permettono di lavorare con grandi registi come Mario Monicelli in “Brancaleone alle crociate”, Luis Buñuel ne “Il fantasma della libertà”, Franco Zeffirelli in “Fratello sole, sorella luna”, Damiano Damiani ne “Il sorriso del grande tentatore”, o Nanni Loy in “Cafè Express”.

Celi torna anche dietro la macchina da presa nel 1969 con il film “L’alibi”, co-diretto con gli amici Vittorio Gassman e Luciano Lucignani.

Per quanto mi riguarda, sono il 1975 e il 1976 gli anni in cui Adolfo Celi lascia il suo segno indelebile nell’immaginario collettivo con alcuni ruoli che, anche se da comprimario, rimangono per sempre stratosferici.

Il primo è quello del perfido e glaciale professor Alfeo Sassaroli nel mitico “Amici miei” di Mario Monicelli. Il secondo è quello dello spietato alfiere della Compagnia delle Indie, il rajah Lord James Brooke che tenta in ogni modo di sopprimere il mito della mia infanzia, la sola e grande Tigre di Mompracem Sandokan, nell’omonimo – stellare, e se è tanto che non lo vedete, riguardatelo perché davvero merita – sceneggiato televisivo diretto da Sergio Sollima nel ‘76.

Lo stesso anno Celi, nel ruolo del giudice, partecipa anche a quello che ormai è considerato cronologicamente l’ultimo esemplare della commedia all’italiana: “Febbre da cavallo” di Steno. Potete pure arricciare il naso, peggio per voi, perché la pellicola di Steno ha davvero momenti di sfiziosa comicità e lascia intravedere profeticamente quello che diventerà la nostra società negli anni successivi.

Nonostante la florida carriera cinematografica, Celi non abbandona mai il teatro nel quale partecipa, da protagonista, a grandi e importanti allestimenti.

Poche ore prima della rappresentazione a Siena de “I Misteri di San Pietroburgo” tratto dall’opera di Fëdor Dostoevskij, Celi accusa un malore tale da dover essere ricoverato d’urgenza. Sul palco lo sostituisce l’amico Vittorio Gassman, che dello spettacolo è il regista.

Dopo alcune lunghe ore d’agonia, il 19 febbraio del 1986 Adolfo Celi muore per un attacco cardiaco. Quel giorno scompare uno dei più grandi attori italiani del Novecento, fra i pochi ad avere avuto una caratura internazionale, nel quale è stato secondo solo a Marcello Mastroianni e Ugo Tognazzi.

“In nome del popolo italiano” di Dino Risi

(Italia, 1971)

Oggi, 23 maggio, desidero ricordare l’infame attentato di Capaci di ventidue anni fa parlando di uno dei più belli e controversi giudici mai rappresentati sul grande schermo: Mariano Bonifazi, interpretato da uno stratosferico Ugo Tognazzi che, in questa pellicola diretta da Risi – e scritta da Age e Furio Scarpelli – vince ai punti contro un altrettanto cosmico Vittorio Gassman, che invece dona vita all’industriale corrotto e corruttore Lorenzo Santenocito.

Chi appartiene alla mia generazione e non ha visto questo film, forse non può comprendere a pieno la vera storia della nostra società e della nostra politica di questi ultimi cinquant’anni.

Fra poche settimane inizieranno i Mondiali di Calcio in Brasile, e la scena finale ce la dice lunga su quanto – e sé – gli italiani sono cambiati e sul perché delle loro scelte sociali e politiche.

Questo film è di fatto un documento storico e civile sul nostro Paese che andrebbe studiato a scuola!

“Testimone d’accusa” di Billy Wilder

(USA, 1957)

Questo film, che è uno dei migliori adattamenti cinematografici in assoluto fra tutte le opere di Agatha Christie, per l’intensità e i colpi di scena è stato spesso attribuito ad Alfred Hitchcock, ma a firmarlo invece è uno dei maestri indiscussi della commedia: Billy Wilder, che dimostra ancora una volta tutte le sue doti dietro la MDP.

Se un bravissimo Tyrone Power ci regala uno dei suoi rarissimi personaggi oscuri, Marlene Dietrich incarna una dark lady memorabile.

Ma in questa pellicola ad incastro perfetto spicca a un palmo sopra agli altri il grande e indimenticabile Charles Laughton – primo attore inglese nella storia ad essere ammesso alla Comédie-Française, e uno dei massimi interpreti e conoscitori delle opere di William Shakespeare, con il quale, per esempio, si confrontava anche Vittorio Gassman per le sue regie teatrali – che veste i panni di Sir Wilfred avvocato difensore di Leonard Vole/Tyrone Power.

A Laughton viene assegnato il David di Donatello come miglior attore straniero dell’anno, mentre  ad Elsa Lanchester sua moglie nella vita, nel ruolo della combattiva infermiera che se ne prende cura, il Golden Globe come miglior attrice non protagonista.

Da vedere e rivedere anche se già si conosce il finale!

“I mostri” di Dino Risi

(Italia, 1963)

Che il film diretto da Dino Risi – anche a distanza di 50 anni – sia una delle pietre miliari della cinematografia italiana – e non solo – è un dato di fatto. Scegliere fra i vari episodi è davvero difficile, ma visto che qui si parla anche di scrittura, stavolta mi soffermo su quello intitolato “La Musa”.

Uno stratosferico Vittorio Gassman “En Travesti” – come dicevano all’epoca dell’uscita della pellicola per non dire travestito – impersona una volitiva critica letteraria toscana che presiede la giuria di un noto premio di scrittura.

Nonostante le resistenze alla fine, con la sua parlantina e le sue punzecchiate personali, riesce a far votare tutti gli altri giurati a favore dell’opera prima di un giovane sconosciuto, considerata banale e grossolana.

L’episodio si chiude con il giovane vincitore che, nella sua camera d’albergo, viene sedotto dalla sua nuova Musa.

Ma non scherziamo! Figurati se negli anni Sessanta i premi letterari erano lottizzati e pilotati! …Ridicolo!

Si diceva in giro all’epoca – in maniera del tutto infondata, naturalmente… – che Gassman e Risi avessero intenzione di prendere in giro Maria Bellonci, la “madre” del Premio Strega… cattiverie gratuite e immotivate!

“C’eravamo tanti amati” di Ettore Scola

(Italia, 1974)

Ci sono film che riescono a fotografare un’epoca, un periodo o un Paese. “C’eravamo tanto amati” di Scola immortala, come pochi altri, i primi trent’anni di vita della Repubblica Italiana.

E lo fa attraverso la vita, l’amicizia e l’amore di tre uomini e una donna: Gianni Perego (Vittorio Gassman), Nicola Palumbo (Stefano Satta Flores), Antonio (Nino Manfredi) e Luciana Zanon (Stefania Sandrelli).

E, come nei ricordi, la parte più lontana è in bianco e nero e quella più recente a colori (il cambio di dal b/n al colore, sul madonnaro che disegna in terra, rimane una delle scene visivamente più intense del nostro cinema).

C’è una scuola di pensiero che lo considera l’ultimo grande esempio di commedia all’italiana. Ma comunque, oltre ad essere uno splendido film, “C’eravamo tanti amati” è un importante documento della nostra storia contemporanea, sia per quello che racconta sia per come lo racconta.

Da ricordare anche la dedica che Scola fa al grande Vittorio De Sica, scomparso proprio l’anno di uscita del film.

Un capolavoro assoluto e immortale, da rivedere a intervalli regolari.

“I soliti ignoti” di Mario Monicelli

(Italia, 1958)

Dimmi un po’ ragassolo, tu conosci un certo Mario che abita qua intorno?
– Qui de Mario ce ne so’ cento.
– Oh sì va bene, ma questo l’è uno che ruba…
– Sempre cento so’
!

Così si apre una delle colonne portanti della commedia all’italiana, e quindi della cinematografia planetaria. C’è poco da aggiungere sul film scritto da Age, Furio Scarpelli, Suso Cecchi D’Amico e dallo stesso Monicelli.

Oltre ad aver lanciato nella commedia Vittorio Gassman e nel cinema in generale Claudia Cardinale, continua ad essere oggi una fucina di situazioni e battute che sono entrate nella nostra vita quotidiana.

Insomma: una vera e propria opera d’arte.