“Assassinio a bordo” di George Pollock

(UK, 1964)

Ultima avventura della Jane Marple interpretata dall’indimenticabile Margaret Rutherford.

Dopo “Assassinio sul treno“, “Assassinio al galoppatoio” e “Assassino sul palcoscenico“, la criminologa più geniale e impicciona d’Inghilterra, creata da Agatha Christie, torna ad indagare su un omicidio commesso proprio davanti ai suoi occhi.

In quanto nipote di un famoso ammiraglio della flotta di Sua Maestà, noto per aver fondato un’associazione benefica a favore dei ragazzi più poveri, Mrs. Marple entra a far parte del consiglio d’amministrazione della stessa virtuosa società. Proprio durante la prima riunione, mentre la Marple termina il suo discorso di insediamento, uno dei consiglieri – che aveva molta fretta di comunicare una notizia al consesso – crolla morto dopo aver sniffato il suo tabacco.

Per il medico e la Polizia si tratta di un infarto, ma il fiuto più sagace d’Inghilterra intuisce che si tratta invece di un omicidio. E siccome al centro delle attività della società benefica c’è il vascello Battledore, vera e propria nave scuola per instradare i giovani meno abbienti alla carriera nella marina militare di Sua Maestà, Mrs. Jane Marple, con l’aiuto del fedele Mr. Stringer (Stringer Davis, compagno di vita della stessa Rutherford) decide di recarsi a bordo per scoprire il movente e soprattutto il colpevole.

Sulla nave viene ricevuta con tutti gli onori dal comandante Sydney De Courcy Rhumstone (Lionel Jeffries, uno dei più noti caratteristi britannici degli anni Sessanta e Settanta) che però mal dissimula la sua insofferenza all’ingerente ospite. E’ nello staff che gestisce la nave scuola, fra cui spiccano la capo infermiera di prima classe Alice Fanbraid (Joan Benham) e il tenete Compton (Francis Matthews) che la Marple è convinta si nasconda il colpevole, ma…

A differenza dei primi tre film della serie con la Rutherford, questo non è tratto da un racconto o da un romanzo della Christie ma, come dichiarato nei titoli di testa, ispirato alle sue opere. Opere che David Pursall e Jack Seddon hanno usato per creare e strutturare questo giallo.

Se la sceneggiatura ha qualche limite e un pò troppi snodi narrativi “alla Agata Christie” – essendo il frutto di un progetto che vide realizzare “Assassino sul palcoscenico” e “Assassinio a bordo” in un’unica produzione – questo film merita di essere visto per la sua grande e intramontabile protagonista che ancora oggi affascina e incanta.

Nella nostra versione, l’arte della Rutherford è amplificata da Lola Braccini che le dona superbamente la voce. Da ricordare anche il grande Luigi Pavese che doppia in maniera irresistibile Lionel Jeffries.

“Noi due senza domani” di Pierre Granier-Deferre

(Francia/Italia, 1973)

Julien Maroyeur (Jean-Louis Trintignant) è sposato con Monique (Nike Arrighi) che è all’ultimo mese di gravidanza, e insieme hanno già una figlia di sette anni. Come tutti i suoi connazionali d’oltralpe, nel maggio del 1940, viene travolto dalla notizia dell’invasione dal Belgio da parte della Germania nazista. Vivendo nelle Ardenne, a pochi chilometri dal confine col Belgio, decide di fuggire verso sud.

L’unico mezzo a sua disposizione è il treno che parte dalla stazione del piccolo paese in cui vive. Se Monique, visto il suo stato, e la loro bambina vengono ospitate in prima classe, lui si deve arrangiare in uno degli ultimi vagoni merci, come fanno tutti gli altri.

Inizia così un lungo viaggio fatto di attese sotto l’ombra tragica della guerra sempre più vicina. Sul vagone Julien incrocia gli occhi splendidi ma al tempo stesso addolorati di Anna (Romy Schneider), una donna sola che sta fuggendo anche lei dalla guerra. Durante una delle innumerevoli fermate una notte il treno viene diviso e, senza che Julien se ne accorga, il vagone di prima classe con Monique e la piccola viene attaccato ad un altra locomotiva e parte per un’ignota destinazione.

Intanto fra lui e Anna nasce una relazione che li fa diventare, nel micromondo del vagone, una vera e propria coppia. Anna le confessa di essere fuggita dalla Germania perché ebrea. Due anni prima suo marito, il direttore di un’importante quotidiano liberale, è stato prelevato dalle forze dell’ordine del III Reich e sparito nel nulla. Pochi giorni prima della sua fuga i nazisti hanno arrestato anche i suoi genitori.

Dopo parecchie settimane finalmente Anna e Julien riescono a raggiungere l’ospedale dove ha appena partorito Monique, ma Anna…

Tratto dal bellissimo romanzo “Il treno” pubblicato dal maestro Georges Simenon nel 1961 questo film, scritto dallo stesso Pierre Granier-Deferre assieme a Pascal Jardin, ci racconta in maniera indiretta la tragedia della guerra non dal punto di vista di chi la combatte in prima linea, ma da chi la subisce passivamente cercando solo un rifugio per se i per i suoi affetti più cari. Argomento che drammaticamente, purtroppo, non diventa mai obsoleto anche nel nostro Paese.

Rispetto alla storia e ai personaggi disegnati superbamente dal maestro Simenon, Granier-Deferre inserisce alcune differenze che trovano il loro apice nella struggente scena finale. Da ricordare l’ottima interpretazione dei due protagonisti: il “solito” bravissimo Trintignant nel ruolo di un uomo pacato e apparentemente passivo, e la Schneider col suo sguardo bellissimo ma al tempo stesso fragile e tormentato.

Nella nostra versione a curare l’adattamento dei dialoghi è Sandro Continenza.

“Oscar insanguinato” di Douglas Hickox

(UK, 1973)

Il premio Oscar, in realtà, con questo film non ha nulla a che fare. E’ stato il genio – fin troppo spesso incompreso… – dei nostri distributori a infilarcelo tentando di rendere la pellicola più accattivante per un pubblico nostrano che evidentemente reputava troppo basico per apprezzare un “semplice” premio teatrale inglese.

Perché il riconoscimento in questione è, infatti, un ambitissimo Emmy che una squadra di critici teatrali, spocchiosi e presuntuosi, assegna ogni anno all’artista del palcoscenico che ritiene più degno.

Un paio di anni prima il veterano Edward Lionheart (un grande Vincent Price), noto attore shakespeariano, era convinto di meritarlo ma alla cerimonia, vedendo premiare un giovane e secondo lui inesperto collega, aveva dato in escandescenza presentandosi poi nella casa di uno dei critici per protestare. Lì, però, era stato sbeffeggiato tanto che alla fine Lionheart aveva deciso gettarsi dal terrazzo direttamente nel Tamigi.

In maniera assai cruenta vengono uccisi inesorabilmente i critici della giura e solo Peregrin Devlin (Ian Hendry) uno di essi, intuisce che le modalità degli omicidi ricalcano quelle di alcune famose opere del grande William Shakespeare, unico autore mai interpretato da Lionheart. Ma l’attore è morto ormai da tempo, anche se il suo cadavere non è mai stato ritrovato.

Così Devlin e la Polizia si rivolgono a Edwina Lionheart (Diana Rigg, che solo qualche anno prima aveva impersonato la sfortunata coniuge dell’agente 007 James Bond) che di mestiere fa la truccatrice. Ma per la giovane è solo un inutile motivo per riaprire una ferita ancora non del tutto cicatrizzata…

Deliziosa pellicola divenuta un vero e proprio cult – il cui titolo originale è “Theatre of Blood” – grazie soprattutto al suo indimenticabile protagonista e ai versi dell’immortale Bardo che fanno da sottofondo a uno dei temi più efficaci e irresistibili della storia umana: la vendetta. “Il conte di Montecristo” docet…

Il tema della spietata e cruenta vendetta è il centro anche della pellicola “L’abominevole Dr. Phibes” sempre con un grande Vincent Price, prodotta e realizzata sempre in Gran Bretagna due anni prima.

Scritto da John Kohn, Stanley Mann e Anthony Greville-Bell questo “Oscar insanguinato” ha un cast di prim’ordine composto oltre che dal protagonista anche dai migliori caratteristi del cinema britannico del momento come Harry Andrews, Robert Morley, Joan Hickson e Michael Hordern.

Anche se a volte la regia psichedelica e frenetica rimane troppo legata alla moda del periodo storico in cui è stato realizzato, questo film merita di essere visto anche solo per ascoltare una delle voci cinematografiche e teatrali più famose del Novecento – come era quella di Vincent Price, che non a caso Quincy Jones e Michael Jackson vollero nel brano “Thriller” – interpretare i versi fra i più belli mai prodotti dalla civiltà umana, e recitati con barocca e spietata bellezza.

E poi diciamoci la verità, ovviamente solo moralmente e non certo fisicamente come nel film, ma ogni tanto alcuni sedicenti e boriosi “critici” non se la meriterebbero una bella strigliata?

Nella versione distribuita nei nostri cinema, noi italiani abbiamo la grande fortuna di poter godere di un altro grande indimenticabile artista: Emilio Cigoli che doppia superbamente Price ricordandoci, se davvero ce ne fosse bisogno, la grandezza del Bardo anche nella nostra lingua.

“Non per soldi… ma per denaro” di Billy Wilder

(USA, 1966)

Se nel nostro immaginario lo stereotipo dell’avvocato arraffone e opportunista è l’Azzeccagarbugli de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni, nella cultura americana è senza dubbio lo scaltro Willie Gringrich – il cui cognome significa letteralmente “diventa ricco” – interpretato superbamente in questo film da un eccezionale Walter Matthau, che non a caso vince l’Oscar come miglior attore non protagonista.

Siamo a metà degli anni Sessanta e la società americana, come quella di tutto l’Occidente, sta cambiando molto rapidamente. Questo soprattutto – o purtroppo, dipende dai punti di vista… – grazie al nuovo mezzo di comunicazione di massa che è diventata la televisione. Nella storia della civiltà umana, dopo i racconti verbali tramandati per millenni, solo la radio era riuscita ad entrare capillarmente in ogni focolare domestico. Ma la scatola dei sogni ha anche le immagini e così sbaraglia ogni concorrenza e, soprattutto, ogni resistenza.

Altro grande pilastro sociale negli Stati Uniti è da sempre lo sport, e proprio in quegli anni, molto prima che da noi, qualcuno ha già pensato ai ricchi profitti che il connubio tv/sport può alimentare. E così approdiamo a Cleveland, la patria della squadra di football americano dei Cleveland Browns, proprio durante una partita del massimo campionato ripresa in diretta dalla CBS.

A riprendere i giocatori da bordo campo c’è l’esperto cameraman Harry Hinkle (Jack Lemmon) che proprio alla fine di un’azione di gioco viene travolto involontariamente dal giocatore dei Browns Luther “Boom Boom” Jackson (Ron Rich). Harry, rovinando sulla matassa del telo che copre il campo, perde conoscenza e viene portato in ospedale.

Al suo capezzale si precipitano sua madre (Lurene Tuttle) sua sorella Charlotte (Marge Redmond) e suo marito Willie Gringrich che sente subito l’odore di un risarcimento a sei zeri. Appena ripresosi Harry si sente solo indolenzito, ma Willie lo convince a fingere di avere perso l’uso di una gamba e di un braccio proprio a causa del trauma, visto poi che Charlotte gli ha raccontato che da bambino suo lui, cadendo dal tetto, si è incrinato una vertebra.

Hinkle si rifiuta categoricamente di mentire, ma il suo diabolico cognato alla fine riesce a convincerlo che il suo stato certamente farebbe tornare la sua ex moglie Sandy (Judi West), scappata un anno prima con un musicista per far decollare la sua carriera di cantante. Intanto, all’ospedale arriva trafelato e turbato “Boom Boom” Jackson, che non riesce a perdonarsi le gravi menomazioni che ha apparentemente causato a Harry.

Nonostante il prestigioso ed esperto studio legale – con tanto di investigatore privato fornito di macchina da presa e microfoni perimetrali – incaricato dall’assicurazione di verificare l’autenticità dei danni subiti da Hinkle, Willie Gringrich riesce ad organizzare un piano a prova di bomba. L’avvocato ha pensato proprio a tutto, tranne all’anima di suo cognato che è un illuso sì, ma onesto…

Superba commedia firmata dal grande Billy Wilder maestro indiscusso del genere hollywoodiano, che rappresenta una neanche troppo velata critica alla televisione e soprattutto al lato voyeuristico e opportunistico che questa fomenta nella società. Ne sono un esempio il morboso spionaggio di Chester Purkey (Cliff Osmond), l’investigatore privato che riprende ed ascolta 24 ore su 24 Hinkle per conto dello studio legale dell’assicurazione; e l’illusione di Sandy di poter diventare un’artista famosa solamente presentandosi “come si deve” in televisione.

Come tutte le opere del maestro Billy Wilder: graffiante e sempre attuale. La pellicola sancisce la definitiva ascesa di Walter Matthau nell’olimpo delle stelle di prima grandezza del firmamento del cinema americano. La bravura di Matthau, in questo ruolo, oscura anche quella del grandissimo Lemmon.

Per la chicca: il titolo originale del film è “The Fortune Cookie” e si riferisce al biscotto della fortuna che Harry apre e nel quale c’è la famosa frase di Abraham Lincoln – che lo stesso Willie Grigrich definisce: “un ottimo presidente, ma un pessimo avvocato…” – che dice: “Potete ingannare tutti per qualche tempo e alcuni per sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre”. Frase che forse Wilder e I.A.L. Diamond, autori della sceneggiatura, volevano riferire anche alla televisione? …Ai posteri l’ardua sentenza.

Da ricordare, nella nostra versione, gli stratosferici Renato Turi ed Emilio Cigoli che donano, come sempre superbamente, le voci rispettivamente e Walter Matthau e Jack Lemmon.

“Balle spaziali” di Mel Brooks

(USA, 1987)

La saga di “Star Wars”, nel corso dei decenni, ha ispirato centinaia di parodie, nonché di fan movie. Lo stesso George Lucas, almeno fino a quando è stato in possesso dei diritti commerciali della sua opera più famosa, ha sempre dichiarato di guardare piacevolmente ogni fan movie e ogni parodia, senza poi mai chiedere alcuna royalty.

Il maestro delle parodie e del cinema comico americano Mel Brooks decide così di contribuire al filone e firmare un’intera pellicola dedicata al mondo creato da Lucas e al cinema di fantascienza in generale più famoso, come quello di “Star Trek” e “Alien”.

Scritto dallo stesso Brooks assieme a Ronny Graham – che nel film interpreta l’alto prelato preposto a celebrare il matrimonio fra la principessa Vespa e il principe Valium – e Thomas Meehan questo “Balle spaziali” ci porta in una galassia “…molto, molto, molto, molto” lontana dove viveva la spietata razza nota come Spaceballs.

Sul pianeta Druida si sta per celebrare il matrimonio fra la principessa Vespa (Daphne Zuniga) e il principe Valium, ma la ragazza alla fine preferisce fuggire assieme alla sua droide nonché damigella Dorothy.

La principessa viene però catturata dalle truppe di Lord Casco Nero (Rick Moranis) che, assecondando l’ordine del presidente degli Spaceballs Scrocco (lo stesso Mel Brooks) intende ricattare re Rolando (Dick Van Patten) per rubargli 10.000 anni di aria pura e fresca, visto che il pianeta Spaceball è ormai al collasso a causa dell’inquinamento.

Ma re Rolando chiama in suo aiuto il mercenario Stella Solitaria (Bill Pullman) e il suo fedele amico mezzo umano e mezzo cane Rutto (John Candy). Così i due sfidano i potenti e implacabili Spaceballs per liberare Vespa e l’intera galassia…

Forse non fra i migliori film di Mel Brooks, probabilmente anche a causa di un doppiaggio in italiano dove molte battute e gag verbali si sono inesorabilmente perse a favore di facili allusioni sessuali e banali parolacce. Ma rimane comunque una pellicola da vedere per tutti gli amanti della saga creata da Lucas e dei famigerati e intramontabili – …ahimé – anni Ottanta.

Per la chicca: nella versione originale a doppiare il robot Dorothy – che nella nostra ha la voce di Emanuela Rossi che imita quella della grande Tina Pica – è Joan Rivers: la prima grande stand up comedian americana, ancora oggi citata e omaggiata. Nella parte del perfido Pizza Margherita, il boss caricatura di Jabba The Hutt, c’è Dom DeLuise.    

“Wagon-lits con omicidi” di Arthur Hiller

(USA, 1976)

Dopo essersi incontrati durante la produzione di “Mezzogiorno e mezzo di fuoco” di Mel Brooks, Gene Wilder e Richard Pryor formano finalmente una coppia cinematografica efficace e molto divertente.

Il loro mancato esordio davanti alla macchina da presa nel film di Brooks, dove Richard Pryor aveva collaborato alla sceneggiatura, fu causato dalla condotta lavorativa imprevedibile e inaffidabile dell’attore afroamericano. Tanto che anche per questa pellicola la casa di produzione fece non poche difficoltà prima di scritturarlo.

La dinamica della coppia Wilder-Pryor è semplice quanto efficace: il primo è un ingenuo sognatore mentre il secondo è un disilluso realista. E questo sottolinea, già in quegli anni, come il colore della pelle incida in maniera determinate nella formazione del carattere di una persona che nasce e vive negli Stati Uniti. Wilder, avendo la pelle rosea, può permettersi di sognare e illudersi, Pryor con la sua pelle più scura ha dovuto imparare fin da piccolo come il mondo possa essere duro e ingiusto.

Così Wilder è George Caldwell, un piccolo editore reduce dal naufragio del suo matrimonio che decide di raggiungere Chicago in treno, partendo da Los Angeles. Il viaggio dura tre giorni, rispetto alle poche ore di quello in aereo, ma Caldwell lo preferisce perché sente di avere il bisogno di stare solo con i propri pensieri.

Nel vagone ristorate dove si reca a cenare George incontra l’esuberante commesso viaggiatore Bob Sweet (Ned Beatty) che gli rivela che sul quel treno, data la lunghezza del viaggio, è frequente vivere fugaci storie d’amore. Ancora preso dalle parole di Sweet, Caldwell s’imbatte nell’avvenente Hilly Burns (Jill Clayburg al suo primo ruolo cinematografico da protagonista) la giovane segretaria del professor Schreiner, un noto esperto internazionale d’arte.

Il fato vuole che le loro cabine siano adiacenti e così, dopo cena, George viene invitato da Hilly nella sua. Proprio mentre sono sul letto baciandosi, Caldwell vede il cadavere di un uomo precipitare davanti al finestrino. Dalla descrizione che fa a Hilly sembra proprio si tratti di Schreiner, ma al mattino dopo i due incontrano l’uomo vivo e vegeto in compagnia del mercante d’arte Roger Devereau (un diabolico Patrick McGoohan). Ma…

Divertente commedia dai toni accentuati del thriller, con chiari ed espliciti omaggi al maestro Hitchcock, ma con situazioni e gag che ancora oggi divertono. Soprattutto dall’entrata in scena di Pryor che veste i panni del ladruncolo Grover T. Muldoon, che aiuterà suo malgrado Caldwell a scoprire la verità.

Se il film è per la prima parte divertente, diventa irresistibile con la comparsa appunto di Pryor che crea con Wilder un’alchimia davvero unica. Alchimia grazie alla quale i due interpreteranno insieme altri tre film, due dei quali veri e propri campioni d’incassi come “Nessuno ci può fermare” e “Non guardarmi, non ti sento“.

Nel cast c’è anche Richard Kiel con già la sua dentatura in acciaio, che poi lo renderà il famigerato “Squalo” in alcuni film di 007; saga alla quale partecipa anche Clifton James nei panni di uno sceriffo un pò imbranato ruolo, guarda caso, che interpreta anche in questa pellicola.

“Non guardarmi, non ti sento” di Arthur Hiller

(USA, 1989)

La coppia Gene Wilder-Richard Pryor torna davanti alla macchina da presa per interpretare un altro successo al botteghino – dopo “Wagon-lits con omicidi” e quello straordinario di “Nessuno ci può fermare” – ma, soprattutto, un film che nonostante i decenni passati rimane sempre un’ottima commedia brillante e tagliente.

Perché il tema affrontato nel film – scritto da Earl Barret, Arne Sultan, Marvin Worth, Eliot Wald, Andrew Kurtzman e lo stesso Gene Wilder – in maniera schietta e senza false ipocrisie è la disabilità, o meglio il rapporto che una parte della società ha con la disabilità, e soprattutto che alcune persone hanno con la propria disabilità.

Non è un caso quindi che i due protagonisti, prima di iniziare le riprese, abbiano frequentato centri medici e di riabilitazione rispettivamente per non vedenti e non udenti, proprio per interpretare al meglio il loro personaggio, senza cadere nel pietismo o nella macchietta.

Dave Lyons (Gene Wilder) è un ex attore che per sbarcare il lunario gestisce un’edicola in un grande palazzo commerciale di Manhattan. Durante l’adolescenza è stato colpito da una forma molto grave di scarlattina che nel corso degli anni successivi gli ha compromesso l’apparato uditivo. Otto anni prima, ha definitivamente perso anche l’ultimo residuo di suono, precipitando nella sordità più assoluta.

L’evento lo ha costretto ad abbandonare le assi del palcoscenico, sulle quali riusciva a barcamenarsi grazie alla lettura delle labbra, ma soprattutto ha sancito la rottura definitiva con sua moglie che, a causa della sua disabilità, lo ha abbandonato.

Grazie all’inserzione messa sul giornale per cercare un assistente, all’edicola di Dave si presenta Wally Karue (Richard Pryor), un non vedente che ha perso la vista dopo essere stato investito da un ubriaco. Entrambi cercano in ogni modo di dissimulare la propria disabilità, ma alla fine comprendono che per lavorare insieme è inutile fingere, come fanno invece di solito col resto del mondo.

Il primo giorno di Wally però, proprio davanti all’edicola di Dave, si consuma un efferato delitto: un uomo viene ucciso dall’avvenente quanto letale Eve (la topmodell Joan Savarence) con la complicità di Mr. Kirgo (un giovane e cattivissimo Kevin Spacey). Il fatto che nessuno sia stato presente al delitto e le disabilità dei due – Dave era voltato di spalle, mentre Wally ha potuto solo sentire la sparo – li rendono i sospetti principali.

Ma Dave e Wally decidono di reagire e così, con goffaggine e tanta fortuna, riescono a evadere dalla centrale della Polizia dove erano stati portati. Ma Eve e Kirgo sono sulle loro tracce…

Esilarante commedia che, al di là della trama creata sul più classico scambio di persona, non risparmia un colpo con battute e gag soprattutto contro tutti i pregiudizi e gli stereotipi a scapito dei disabili. E’ opportuno ricordare che proprio a Richard Pryor, nel 1986, venne diagnosticata una forma di sclerosi multipla che negli anni successivi lo costrinse, anche sui set, ad usare ausili come le sedie a rotelle.

Negli anni in cui uscì questo film nel nostro Paese, per molti e soprattutto al cinema, la disabilità era ancora un tabù che andava raccontato – se proprio non si poteva farne a meno… – con pietà e commiserazione, fatte salvo alcune rare eccezioni.

Sempre divertente e attuale.

“Nessuno ci può fermare” di Sidney Poitier

(USA, 1980)

La collaborazione artistica fra Gene Wilder e Richard Pryor inizia ufficialmente nel 1974 quando si trovano entrambi nella produzione di “Mezzogiorno e mezzo di fuoco” diretto da Mel Brooks. Infatti, a scrivere la sceneggiatura lo stesso Brooks vuole il giovane Pryor, caustico esponente della stand up comedy che sta riscuotendo molto successo in numerosi locali del Paese. Dati i suoi clamorosi ritardi e le sue discusse abitudini la produzione, però, lo reputa troppo inaffidabile e non lo vuole nel sul set sostituendolo con Cleavon Little nel ruolo del protagonista Bart, lo sceriffo afroamericano di Rockridge.

Ma negli anni successivi l’affermazione delle carriere cinematografiche di entrambi li porta finalmente a recitare insieme in “Wagon-lits con omicidi” diretto a Arthur Hiller nel 1976. Il successo della pellicola consacra definitivamente la coppia come una delle più esilaranti ed efficaci del cinema americano.

Nel 1980 i due tornano a recitare insieme in “Nessuno ci può fermare”, che rappresenterà il maggior incasso americano dell’anno solo dopo “Star Wars: L’impero colpisce ancora” e “Dalle 9 alle 5 orario continuato“.

Dietro la macchina da presa c’è una vera e propria leggenda di Hollywood: Sidney Poitier. Scritta da Bruce Jay Friedman e Charles Blackwell, la pellicola ha per protagonisti Skip Donahue (Wilder) e Harry Monroe (Pryor), rispettivamente un commediografo e un attore che sognano di conquistare Broadway, ma che in realtà non riescono a mantenere un lavoro, lontano dalle assi di un palcoscenico, per più di qualche settimane.

Il fatto che la Grande Mela “non li voglia aiutare”, fa venire in mente a Skip di fare come gli antichi pionieri: attraversare l’intero Paese per raggiungere la California e lì tentare la fortuna a Hollywood. L’idea all’inizio non piace a Harry, che non è un ingenuo sognatore come l’amico, visto poi che essendo afroamericano ha dovuto affrontare prove che Skip, grazie al roseo della sua epidermide, ha potuto serenamente evitare. Ma l’insistenza dell’amico e l’impossibilità di sfondare a Broadway alla fine lo convincono.

Ma sulla strada che li porta in California i due vengono presi per due spietati rapinatori di banche, catturati e condannati a 30 anni da scontare in carcere. L’impatto dietro le sbarre è devastante, e al tempo stesso irresistibile.

Ma, in maniera del tutto inaspettata, Skip viene selezionato dal direttore del carcere per gareggiare nel rodeo annuale delle prigioni, dove girano molti soldi soprattutto legati alle scommesse clandestine. Grazie all’amicizia di alcuni detenuti, Skip e Harry intravedono una insperata occasione nel rodeo…

Questa esilarante commedia, nonostante l’apparenza del classico meccanismo dello scambio di persone, ci parla in maniera anche poco velata dell’atroce piaga del razzismo negli Stati Uniti. Se a dirigerla è uno dei volti simbolo della lotta al razzismo come Sidney Poitier, ad interpretarla c’è quello ironico ma anche segnato dal dolore di una vita passata a lottare contro l’arroganza del razzismo in un Paese che allora, come purtroppo in buona parte ancora oggi, doveva fare i conti con la parte più ottusa e violenta dell’integralismo razziale.

Non è un caso quindi che nei suoi spettacoli, già dagli anni Settanta, Richard Pryor parlasse dei soprusi e delle violenze che gli afroamericani subivano quotidianamente, anche da parte di chi li avrebbe dovuti proteggere come per esempio la Polizia.

I due grandi comici torneranno a recitare insieme nell’esilarante “Non guardami, non ti sento” del 1989.

“Sunshine Cleaning” di Christine Jeffs

(USA, 2008)

L’eredità che i genitori lasciano ai proprio figli molto spesso incide in maniera determinante nella loro vita. Questo vale per le cose materiali ma, soprattutto, per quelle immateriali che riguardano la sfera sentimentale ed emotiva.

E l’eredità di un genitore può essere trasmessa ai figli anche prima di morire. Come nel caso di Rose (una bravissima Amy Adams) e sua sorella minore Norah (Emily Blunt) nate e cresciute ad Albuquerque da Joe (un sempre grande Alan Arkin) alla ricerca perenne dell’affare del secolo, e dalla loro madre che però, quando erano ancora due bambine, si è tolta la vita.

Se Rose al liceo era la stella delle cheerleader nonché fidanzata col quoterback della squadra di football, una volta preso il diploma la sua vita ha iniziato inesorabilmente a franare. Madre single di Oscar, sbarca il lunario facendo le pulizie per una ditta locale e non riesce a smettere di essere l’amante di Mac (Steve Zahn), il suo fidanzatino del liceo che ora fa il poliziotto, che però è felicemente sposato con un’altra donna.

Anche sua sorella Norah non riesce a mantenere un lavoro per più di una settimana, come non riesce ad avere una relazione stabile e soddisfacente. Proprio durante uno dei settimanali incontri clandestini con Mac, a Rose viene l’idea di creare una società per la pulizia dei luoghi scene di un crimine o di una morte violenta, nicchia di mercato assai redditizia e poco sfruttata.

Ma Rose, assieme a Norah che suo malgrado l’aiuta, scoprirà che si tratta di un lavoro molto duro e faticoso, che comprende anche il ripulire le case di persone morte suicide o da molto tempo prima che qualcuno le abbia ritrovate.

Grazie anche a Winston (Clifton Collins Jr.), il commesso dell’emporio che vende i prodotti professionali per le pulizie, Rose inizia per la prima volta, dopo tanto tempo, ad avere fiducia in se stessa, ma…

Non si possono scegliere i propri genitori, ma si può scegliere di prendere distacco da loro, soprattutto dalle loro scelte più funeste o egoiste.

Scritto da Megan Holley, questo “Sunshine Cleaning” – il cui titolo richiama forse alla pulizia del proprio essere dalle tossine che qualcun altro vi ha lasciato… – ci ricorda quanto possa essere delizioso il cinema indipendente americano.

“Brittany non si ferma più” di Paul Downs Colaizzo

(USA/Canada, 2019)

Brittany Forgleris (una brava Jillian Bell, nota soprattutto negli Stati Uniti come comica e autrice di vari show televisivi tra cui il mitico “Saturday Night Live”) è una 27enne che vive e lavora a New York.

Sbarca il lunario alla reception di un piccolo cinema/teatro Off Broadway, e vive in affitto dalla sua amica Gretchen (Alice Lee) che, a differenza di lei, ha un certo seguito fra gli uomini e sui social. Ma quando Brittany era arrivata nella Grande Mela, solo qualche anno prima, le premesse erano assai diverse.

Era stata scelta per uno stage presso una delle più rinomate agenzie pubblicitarie della città, ma le sue insicurezze hanno fatto naufragare quella incredibile possibilità e Brittany si è lasciata andare. Così ha imparato ad accontentarsi, rinunciando a molti sogni. Per arginare la tristezza e quell’insopportabile senso di vuoto che inesorabilmente l’ha assalita, Brittany ha iniziato a bere e mangiare senza freno.

Il suo carattere gioviale e accomodante l’ha resa l’amica ideale del sabato sera, quella che con una battuta – spesso su se stessa e sul suo aspetto – fa sempre ridere. Insomma, una compagna ideale per far divertire tutti, tranne se stessa. E più il vuoto aumenta e più Brittany mangia e beve. Fino a un pomeriggio quando il medico dal quale è andata per farsi prescrivere dei sonniferi, non solo si rifiuta di farlo ma le apre gli occhi sulla sua situazione medica. Anche se ha solo 27 anni soffre già di ipertensione e l’obesità rischia di compromettere le sue funzioni vitali nonché le sue capacità motorie.

L’unica soluzione è quella di cambiare stile di vita, alimentazione e, soprattutto, fare quotidianamente del moto. Brittany cade nello sconforto buttandosi disperatamente e ancora più voracemente sul cibo. Mentre è preda di una crisi di pianto alla sua porta bussa Catherine (Michaela Watkins) che fa la fotografa e che ha il suo studio alla porta accanto. Brittany l’ha sempre considerata una ricca viziata arrogante e così rimane stupita e perplessa del suo interesse, anche se alla fine bruscamente la caccia via.

Combattendo strenuamente contro tutte le sue insicurezze e scalando tutti i suoi alibi Brittany inizia a fare footing intorno al palazzo. Dopo le prime devastanti e dolorosissime volte, la ragazza riesce a trovare una certa stabilità e così accetta l’invito di Catherine che fa parte di un gruppo di corsa che si vede regolarmente ogni sabato mattina per fare una mini maratona da pochi chilometri.

Lì Brittany incontra Terrence (Dan Bittner) anche lui un neofita della corsa, che ha deciso di unirsi al gruppo perché suo figlio di pochi anni lo ha preso in giro per il suo fiato corto mentre giocavano. Gli appuntamenti del sabato diventano un punto fisso e irrinunciabile per Brittany che gli altri giorni, compatibilmente col suo lavoro, si allena appena può.

I vestiti iniziano a essere sempre più larghi e la bilancia comincia incredibilmente a tornare indietro così Brittany è sempre più motivata e decisa, e le rinunce di cibo o alcol pesano sempre meno. All’orizzonte si staglia l’evento che ogni corridore sogna: la Maratona di New York; e così Catherine, Terrence e Brittany decidono di parteciparvi insieme.

La tassa d’iscrizione è molto alta e così Brittany decide di fare un secondo lavoro e casualmente trova un posto come dogsitter presso una lussuosa abitazione di Park Avenue. Nelle dodici ore del giorno deve provvedere al cane e alla casa, la notte il suo stesso compito spetta a Jern (Utkarsh Ambudkar) che però, per risparmiare e approfittando della lunga assenza dei proprietari, si è clandestinamente trasferito nella grande casa.

Il drastico cambio di stile di vita così come quello della considerazione che lei ha di se stessa portano inesorabilmente Brittany a dover affrontare il mondo che la circonda non potendo più accettare le persone che si approfittano di lei e delle sue debolezze. Il giorno della maratona si avvicina, ma…

Struggente commedia che ci racconta la piccola storia di una grande ragazza che affronta con coraggio e dolore la parte più oscura di se stessa, e ci riesce grazie anche all’aiuto di amici sinceri e leali. Scritta e diretta da Paul Downs Colaizzo, e prodotta anche da Tobey Maguire, la pellicola ci racconta la vera storia di Brittany O’Neill, che appare nelle sequenze finali.

“Brittany Runs a Marathon”, nel titolo originale, è un ottimo esempio del cinema indipendente statunitense, non a caso premiato al Sundance Film Festival. Consigliato a tutti ma soprattutto a chi, come me, ha scalato impervie montagne e guadato mari sconfinati per trovare se stesso.