(Grecia, 2013)
Alcuni film riescono a sconvolgere lo spettatore non tanto per ciò che mostrano esplicitamente, ma per il mondo oscuro che lasciano intravedere dietro le apparenze. “Miss Violence”, diretto da Alexandros Avranas e presentato alla 70ª Mostra del Cinema di Venezia, rientra a pieno titolo in questa categoria.
La pellicola si apre con una scena che toglie immediatamente il fiato: Angeliki, una ragazzina di undici anni, durante la sua festa di compleanno si getta dalla finestra di casa, con un sorriso ambiguo che segna l’inizio di una discesa negli abissi dell’animo umano. Da quel momento, Avranas costruisce un thriller psicologico cupo e soffocante, dove l’apparente normalità nasconde una realtà di abusi e violenze indicibili.
La forza del film sta nel suo impianto visivo e narrativo: Avranas sceglie di mantenere un approccio stilistico glaciale, quasi clinico. La casa dove si svolge gran parte della vicenda è immacolata, ordinata in maniera ossessiva, specchio di una famiglia che sembra, agli occhi del mondo, perfettamente in controllo. Ma proprio in questo controllo si annida il male, come il regista greco ci svela gradualmente con una regia fatta di inquadrature statiche e silenzi assordanti. Ogni sguardo, ogni gesto quotidiano è impregnato di tensione.
Il cast, guidato da un magistrale Themis Panou (che non a caso vince la Coppa Volpi per la sua interpretazione), è perfetto nel rendere l’atmosfera malsana e opprimente che pervade il film. Panou interpreta il patriarca con un’aura di calma autorità che nasconde una violenza subdola e totalizzante. I membri della famiglia sembrano pedine in un gioco malato, costretti a obbedire a regole non dette, ma ferree.
“Miss Violence” non fa sconti e non lascia spazio a vie di fuga, né per i personaggi né per chi guarda. La violenza non è mai spettacolarizzata, ma permea ogni scena in modo quasi invisibile, insinuandosi sotto la pelle dello spettatore, fino a rivelare una realtà agghiacciante e dolorosamente plausibile.
La critica alla società greca è evidente, ma Avranas – che vince anche il Leone d’Argento per la sua regia – riesce a creare un racconto universale: in qualsiasi contesto culturale, dietro l’apparente perfezione di certe famiglie possono celarsi dinamiche di controllo e sottomissione che difficilmente riusciamo a immaginare.
Non è un film facile da affrontare, né da dimenticare. La sua narrazione asciutta, priva di facili spiegazioni, lascia aperte domande che continuano a tormentare a lungo: fino a che punto possiamo davvero conoscere chi ci sta accanto? E quanto possiamo ignorare prima di ammettere che il male, a volte, è proprio dove meno ce lo aspettiamo?