“Una meravigliosa domenica” di Akira Kurosawa

(Giappone, 1947)

Nel Giappone devastato del primissimo secondo dopoguerra hanno la “sfortuna” di vivere i due giovani fidanzati Yuzo (Isao Numasaki) e Masako (Chicko Nakaklita). Il loro amore è nato prima dello scoppio della guerra ed è una delle poche cose rimaste in piedi nella terra del Sol Levante.

Ma la situazione sociale ed economica del Paese è tragica e così i due, che lavorano incessantemente dal lunedì al sabato in cambio di un misero stipendio, vivendo ospiti da una sorella lei e da un amico lui, posso vedersi solo la domenica.

In tasca hanno 35 yen in totale, cosa che gli permetterà ben pochi svaghi. Ma l’amore sembra l’unica cosa che conta. Durante il passare delle ore però, la loro grave indigenza li opprime sempre più. Anche il feroce cinismo di un orfano di guerra vagabondo, che ricorda incredibilmente i due protagonisti dello splendido “La tomba delle lucciole” di Isao Tahakata, non fa che accrescere il rancore di Yuzo. Rancore che esplode in rabbia quando i due non possono far altro che riconoscere che nel loro Paese, al momento, stanno diventando ricchi solo spregiudicati e criminali.

Yuzo, rabbioso, impone a Masako un ultimatum: o lei lo seguirà a casa del suo amico, dove è sottinteso che consumeranno il loro primo rapporto sessuale, oppure lui se ne andrà per gli affari suoi. La ragazza, che sogna da sempre romanticamente il loro primo rapporto in altre più serene e felici contingenze prima rifiuta ma poi, per paura di perderlo, accetta.

Ma nel vedere il suo amore cedere disperata, Yuzo riacquista la ragione e propone di andare a prendere un tè. Mentre vagano per la città, che ormai sta diventando preda della sera, i due si fermano in un auditorium all’aperto desolato. Yuzo decide di dirigere un’orchestra immaginaria alla quale fa suonare “L’incompiuta” di Franz Schubert, che proprio nel pomeriggio non sono riusciti ad andare ad ascoltare a causa dei bagarini.     

La musica magicamente invade l’aria fino a quando la stessa Masako, guardando fissa la macchina da presa, esige decisa un applauso del pubblico per tutta la sua generazione che sta vivendo il periodo più buio nella storia del Giappone. Perché senza una speranza e senza un lavoro e un vero e giusto stipendio non c’è dignità. Ma grazie all’amore e alla stima di Masako, Yuzo riacquista la sua.  

Bellissima pellicola scritta dallo stesso Kurosawa assieme a Keinosuke Uekusa, che ci racconta di un Giappone piegato dal conflitto e ormai terra di conquista culturale e morale. Ed è soprattutto quest’ultimo concetto che Kurosawa sottolinea superbamente attraverso anche la scenografia che ci descrive infiniti ruderi sui quali troneggiano numerose scritte in inglese poste dai vincitori o messe proprio in loro onore.    

Un vero e proprio film neorealista nipponico dove, non a caso, Masako e Yuzo assomigliano tanto a Carmela e Antonio dello splendido “Due soldi di speranza” che Renato Castellani girerà nel 1952.

Da vedere.

La versione in italiano presente nel dvd è quella doppiata recentemente, visto che questo film Kurosawa lo realizzò prima di riscuotere il successo planetario con lo straordinario “Rashomon” nel 1950, e da noi non venne mai distribuito nelle sale cinematografiche. Nella sezione extra sono presenti, tra gli altri, la filmografia del regista e alcune sue sfiziose massime sulla settima arte.

“Radioactive” di Marjane Satrapi

(UK/Ungheria/Rep. Pop. Cinese/Francia/USA, 2020)

Maria Salomea Skłodowska è stata una delle personalità più rilevanti del Novecento, e non solo. La Skłodowska, grazie al suo genio e alla sua costanza di scienziata, ha segnato il suo tempo e quello successivo alla sua morte avvenuta nel 1934.

Ma la Skłodowska aveva un grande e imperdonabile “difetto”, secondo la stragrande maggioranza dei suoi contemporanei: era una donna. Basta pensare che il mondo non la ricorda col suo vero nome, ma con quello francesizzato di Marie, e col cognome del marito Pierre Curie.

Perché la Skłodowska nasce a Varsavia, allora Polonia Russa, nel 1867 e nel 1891 si trasferisce a Parigi per studiare e conseguire la laurea in fisica e matematica. E’ in questa fase della sua vita che inizia il racconto del film “Radioactive”, diretto dalla franco-iraniana Marjane Satrapi, scritto da Jack Thorne e tratto dal graphic novel “Radioactive. Marie e Pierre Curie. Una storia d’amore e contaminazione” dell’americana Lauren Redniss.

A causa del suo carattere forte e indipendente – che allora dotti medici e sapienti chiamavano vergognosamente “isteria” – e nonostante il suo genio indiscusso di scienziata, Maria Salomea Skłodowska (interpretata da una bravissima Rosamund Pike da Oscar) è mal tollerata alla Sorbona, dove mezzi e risorse vengono dedicati soprattutto ai suoi colleghi maschi. All’ennesima richiesta di spazi e fondi la Skłodowska viene invitata a lasciare il suo laboratorio.

L’unico che le offre un posto è Pierre Curie (Sam Riley) ben conscio delle grandi capacità di scienziata della donna. In breve tempo i due uniscono le loro ricerche e le loro vite, sposandosi e dividendo il laboratorio. Insieme i Curie scopriranno due nuovi elementi chimici, il radio e il polonio – chiamato così in onore alla terra natia di Marie – perfezionando anche il concetto di radioattività.

Il mondo scientifico cambia in maniera rapida e inarrestabile e la coppia di scienziati è acclamata e applaudita ovunque. Ma quando arriva il Premio Nobel per la Fisica, sulla menzione c’è scritto solo il nome di Pierre Curie. Sia perché ha appena partorito, ma soprattutto perché indignata per la cosa, Marie non accompagna il marito a Stoccolma a ritirare il prestigioso premio.

Lo studio del radio e della sua radioattività inizia a provocare gravi danni agli scienziati che lo maneggiano e i Curie cominciano a domandarsi se l’umanità fosse stata davvero pronta per una scoperta così importante.

Quando, investito da una carrozza, nel 1906 Pierre muore, Marie rimane sola con i suoi dubbi ed i suoi demoni. E così, affrontando la vita sempre da donna libera e indipendente – causando fin troppo spesso le ire e le proteste dei più ipocriti benpensanti – Marie non potrà fare a meno di incrociare l’equipaggio dell’Enola Gay che lancerà la bomba su Hiroshima nel 1945 o il pompiere che per primo entrerà nel reattore danneggiato a Chernobyl nel 1986. Ma incrocerà anche, però, il bambino che per primo a Cleveland nel 1957 si sottoporrà alla radioterapia per sconfiggere il cancro che lo sta uccidendo…

Un bel film su una grande scienziata che ha rivoluzionato il mondo, e non solo quello della scienza, senza mai tradire la sua natura di donna libera.

Da vedere e da far vedere a scuola.

“Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders

(Germania Est/Francia, 1987)

Come quasi tutti i film realizzati dai fondatori del Nuovo cinema tedesco, anche questa bellissima pellicola di Wim Wenders è colma del senso di colpa e di disperazione figli dell’immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale, dove la Germania di Hitler ebbe un ruolo – insieme al Regno d’Italia di Mussolini, ovviamente – cruciale e drammaticamente attivo.

Così la Berlino che ci racconta Wenders è prima di tutto la città tagliata in due dal muro, muro che è presente in quasi ogni scena (e che viene ricostruito dove non è possibile girare per motivi di sicurezza). Dopo otto anni passati negli Stati Uniti, Wenders torna a Berlino il cui cielo è pieno di angeli, che hanno il compito soprattutto di ricordare. Uno di questi, Damiel (Bruno Ganz), innamoratosi di Marion (una felliniana artista circense interpretata da Solveig Dommartin) decide di abbandonare i suoi celestiali abiti e diventare umano per amarla. A convincerlo è l’attore Peter Falk (che veste i panni di se stesso) a Berlino per girare un film ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, e che gli rivela di essere stato, trent’anni prima, anche lui un angelo…

Una indimenticabile e struggente metafora della vita e soprattutto della voglia di vivere.        

Fra i personaggi memorabili che anche l’anziano Homer, interpretato dall’attore tedesco Curt Bois, anziano poeta non vendete che vaga per la città in cerca di Potsdamer Platz, una delle piazze più belle della città prima del conflitto, ed ora divenuta solo un grande spazio vuoto attraversato da alcune superstrade.  

Bois è stato uno dei più longevi artisti tedeschi che recitò per la prima volta davanti ad una macchina da presa a soli sette anni, arrivando a essere diretto anche dal maestro Ernst Lubitsch nel suo indimenticabile “La principessa delle ostriche”. Nel 1934, a causa delle leggi razziali imposte da Hitler, Bois di religione ebraica lasciò la Germania per gli Stati Uniti dove continuò la sua carriera e nel 1942 recitò in “Casablanca” di Michael Curtiz, interpretando un elegante borseggiatore che nella nostra versione venne doppiato da un giovane Alberto Sordi.

Per scrivere il film Wenders si è consultato durante le riprese con Peter Handke, suo vecchio amico, nonché (contestato) Premio Nobel per la Letteratura nel 2019. Come per “Paris, Texas” anche per questo film Wenders prima di iniziare le riprese non aveva una vera e propria sceneggiatura, ma solo un’idea.

Per la chicca: nel 1998 venne prodotto a Hollywood il remake “City of Angels – La città degli angeli” diretto da Brad Silberling e interpretato da Nicholas Cage e Meg Ryan che ha davvero molto poco a che fare con l’opera di Wenders, e di cui i posteri ricorderanno soprattutto la canzone “Iris” interpretata dai Goo Goo Dolls, tratta dalla colonna sonora.

La confezione contiene due dvd, uno col film e la versione in italiano con il grande Riccardo Cucciolla che dona la voce a Damiel, e l’altro con una ricca sezione di contenuti extra contenente un divertente spot con lo stesso Wenders che insieme a Curt Bois presenta una retrospettiva a lui dedicata; le scene tagliate e commentate dal regista; un’intervista a Wenders e alla Dommartin (scomparsa prematuramente nel 2007) fatta sull’Intercity Roma-Bologna da Mario Canale nel dicembre del 1987; un’intervista a Peter Falk fatta durante il Festival di Cannes del 1987 in cui parla del suo rapporto col cineasta tedesco; il trailer originale e quello in italiano; e il breve ma imperdibile documentario con le riprese a colori effettuate dalle truppe Alleate nel luglio del 1945 che ci raccontano di una Berlino quasi rasa al suolo, ancora senza muro, e le cui riprese aeree ricordano molto quelle del film.    

“Onward – Oltre la magia” di Dan Scanlon

(USA, 2020)

Sono, dal lontano 1995, un fan sfegatato della magica Pixar che ha saputo rivoluzionare il mondo del cinema d’animazione – e non solo – grazie alla computer grafica, ma soprattutto grazie a storie e a sceneggiature innovative, e molto spesso coraggiose.

Come è capitato nel 2009 per lo splendido “Up” di Pete Docter, fantastica metafora di come si sceglie di affrontare la vecchiaia, che però fece storcere il naso ai produttori di giocattoli e gadget che si rifiutarono – sbagliando e rimettendoci gran bei soldoni… – di farne per il film, vista la trama che consideravano “troppo triste”. Ma la vita, fin troppe volte, è davvero triste.

E così questa volta la casa di produzione fondata da John Lasseter, ci porta in un mondo fantastico abitato da creature magiche come unicorni, centauri ed elfi. Solo che la magia, in questo mondo, è stata lentamente accantonata a favore delle classiche comodità della vita moderna. Comodità che assomigliano molto alle nostre.

Entriamo così in casa Lightfoot dove vivono i due fratelli adolescenti Ian e Barley, assieme alla loro madre Laurel. Il loro padre Walden è morto quando Ian, il fratello minore, era ancora un lattante e così, a differenza di Barley, lui non ne ha un vero e proprio ricordo.

Forse per il suo passato, il carattere di Ian è molto chiuso e introverso, mentre quello del fratello è più espansivo, ma tutto concentrato su un gioco di ruolo che ripercorre l’era di quando il loro mondo era dominato dalla grande magia.

Il giorno del suo sedicesimo compleanno Ian riceve un regalo molto speciale. Sua madre, infatti, gli porge uno strano plico stretto e lungo, confezionato da Walden poco prima di morire con la richiesta di donarlo ai propri figli solo quando Ian avrebbe compiuto i sedici anni. Si tratta di un bastone magico con una pietra fatata da incastonarci dentro. Seguendo le istruzioni dell’incantesimo scritte dallo stesso Walden è possibile farlo tornare in vita per un solo giorno.

Se il bastone magico in mano a Barley non sortisce effetto, fra le dita di Ian invece inizia a brillare e lentamente la pietra magica si consuma facendo apparire prima i piedi e poi le gambe di Walden. Ma Ian, che non ha mai creduto alla magia e soprattutto in se stesso, non riesce a portare a termine l’incantesimo e la pietra si consuma lasciando il padre dalla vita in giù. C’è solo una cosa da fare: trovare un’altra pietra magica e così Ian e Barley partono alla sua ricerca, ma…

Malinconica e al tempo stesso deliziosa metafora di come un adolescente è costretto ad affrontare il lutto legato alla perdita del padre, del quale ha pochi o nessun ricordo. La storia è legata all’esperienza personale del regista Dan Scanlon – che ha scritto la sceneggiatura insieme a Keith Bunin e Jason Headly – costretto, suo malgrado e senza la magia, ad affrontare l’adolescenza senza il padre, come tantissimi altri, a cui questo film è indubbiamente dedicato.

Un storia triste, ma vera, con un epilogo malinconico ma che inneggia però alla vita e alla voglia di affrontarla.

“Minivip & Supervip. Il mistero del Via Vai”

(Bao Publishing, 2018)

Per festeggiare i cinquant’anni dall’uscita nelle sale del mitico lungometraggio animato “VIP: mio fratello superuomo“, Minivip e Supervip sono tornano in una godibilissima avventura a fumetti.

Il nostro pianeta è quasi totalmente vittima dell’inquinamento dovuto all’uso sconsiderato dei combustibili fossili per assecondare gli spostamenti delle persone e delle merci. La situazione sembra senza speranza, anche per i fratelli supereroi Minivip e Supervip, visto poi che quest’ultimo è depresso dopo essere stato lasciato dalla sua storica compagna Lisa che lo considerava un ostacolo alla sua carriera di giornalista d’assalto.

Minivip invece è felice, nonostante la grave situazione del pianeta, perché la sua compagna Nervustrella è incinta. Ma il terribile inquinamento ha reso la Terra anche l’ambiente ideale per ospitare le uova della terribile Fertile Sempiterna, un gigantesco lucertolone che vive sul pianeta Sparky, che invece a causa della sua crescente umidità è diventato inadatto. Così la diabolica Fertile Sempiterna, grazie ai Via Vai – degli strumenti a forma di torcia elettrica in grado di spostare cose e esseri viventi in qualsiasi luogo dell’universo, senza l’ausilio di alcuna energia – decide di portare le sue uova sulla Terra dove, una volta schiuse, prenderanno il controllo totale. Ma sulla sua strada, il diabolico lucertolone, si imbatterà loro malgrado nei fratelli Vip…   

Sfizioso sequel per i due fratelli supereroi nati dalla penna geniale di Bruno Bozzetto. La sceneggiatura di questo volume è stata scritta dallo stesso Bozzetto prendendo spunto dallo script per un film – mai prodotto – che aveva redatto insieme a Nicola Ioppolo. I disegni, davvero belli, sono firmati da Gregory Panaccione.

E’ proprio nei momenti più difficili e complicati che abbiamo bisogno dei supereroi. Minivip & Supervip magari non riusciranno a sconfiggere tutti i mali, ma almeno ci fanno ridere e sorridere, medicina fra le più importanti della storia.   

“Parigi o cara” di Vittorio Caprioli

(Italia, 1962)

Il metodo migliore per ricordare una grande artista come Franca Valeri, secondo me, è quello di parlare della sua arte attraverso le sue opere, e questo film, a cui lei ha partecipato anche come sceneggiatrice, è stato sempre uno dei suoi preferiti e giustamente più amati.

Delia Nesti (una stratosferica Franca Valeri) è una prostituta che vive ed “esercita” a Roma. E’ la stessa Roma del “Il sorpasso” di Dino Risi (realizzato lo stesso anno) con l’inarrestabile speculazione edilizia che ne divora la campagna circostante creando enormi quartieri dormitorio, fatti di giganteschi palazzi con le strade però ancora sterrate. Delia è riuscita a comprare un appartamento in uno di questi nuovi quartieri e con i suoi guadagni è riuscita anche a mettere su una “ditta” di strozzinaggio, insieme ad altri soggetti che come lei vivono al limite della società (soggetti che saranno molto cari al maestro Fabrizio De Andrè).

Per uno scherzo del portiere dell’ufficio Telefoni della SIP (interpretato da Gigi Reder, che nel decennio successivo vestirà i panni dell’implacabile Rag. Filini dell’Ufficio Sinistri nella saga del mitico Fantozzi Ragionier Ugo) di piazza San Silvestro, Delia dopo molti anni parla con suo fratello Claudio, trasferitosi a Parigi quando lei era ancora una bambina. Quella breve e quasi sconclusionata telefonata pianta nell’anima della donna un seme. Da quel momento tutto sembra parlarle della grande capitale francese dove un animo distinto e incompreso come il suo può finalmente trovare individui in grado di comprenderla e valorizzarla. Delia decide così di trasferirsi nella Ville Lumière dove le sue attese verranno certamente ripagate.         

Ma, purtroppo per lei, Delia Nesti ha una sua morale. Una morale invisibile per quella parte ipocrita della società che la considera solo una donna impresentabile e perduta, società che però fa uso e abuso quotidiano di persone come lei pur di mantenere il suo equilibrio perbenista. E così Delia, a causa della sua indole pura e tollerante, non riuscirà ad afferrare le occasioni che Parigi le offre…

Scritto dalla stessa Valeri assieme a Renato Mainardi, Silvana Ottieri e Vittorio Caprioli (autore del soggetto) “Parigi o cara” è una delle commedie all’italiana più amate e citate degli ultimi decenni. Un film così attuale e innovativo, anche se indubbiamente incardinato nel genere che allora spopolava, non poteva però riscuotere troppo successo e così non venne distribuito all’estero. L’unico riconoscimento ufficiale fu la candidatura della Valeri ai Nastri d’Argento come migliore attrice.

Ma la sua grande interpretazione, l’ottima sceneggiatura e l’originale ed elegante caratterizzazione di personaggi spesso molto grotteschi, ne hanno fatto giustamente un film cult per le generazioni successive, che hanno saputo coglierne la vera essenza e la grande e raffinata ironia. “Parigi o cara” è uno dei pochissimi film di quegli anni, infatti, dove l’omosessualità (incarnata da Claudio Nesti) non è derisa o usata come scusa per becere e offensive gag, ma un elemento integrante della società.

Ed è sempre una delle poche commedia dove una prostituta racconta candidamente degli abusi subiti durante l’infanzia, abusi che inesorabilmente l’hanno portata a “fare la vita”, come si diceva allora. Anche a questo si riferisce il titolo del film, che riprende sagacemente un verso de “La Traviata” di Giuseppe Verdi. Scomparso per decenni, questo gioiello del nostro cinema solo nel 2010 è tornato sul mercato nella versione restaurata.           

Il dvd riporta tale versione del film, e nella sezione extra è presente il trailer originale con la voce narrante dell’indimenticabile Nando Gazzolo e una galleria con foto di scena.

“Radio Days” di Woody Allen

(USA, 1987)

Molti critici, soprattutto quelli italiani, hanno paragonato giustamente questa malinconica e divertente pellicola di Woody Allen ad “Amarcord” di Federico Fellini.

Infatti il genio newyorkese, che non appare nel film anche se è sua la voce narrante (doppiata come sempre in maniera sublime da Oreste Lionello nella nostra versione) ci trasporta agli inizi degli anni Quaranta nel Queens, quartiere periferico della Grande Mela dove è nato e cresciuto.

E attraverso gli occhi del giovane Allan Stewart Königsberg alias Joe (Seth Green) riviviamo quegli anni funestati dall’ombra della guerra che si combatteva in Europa, e il cui centro nevralgico emozionale e culturale era la radio.

Così seguiamo la routine quotidiana che si consuma nella casa dove vive Joe assieme ai suoi genitori (la madre è interpretata da Julie Kavner, attrice che collaborerà molto con Allen e che dal 1989 dona la voce originale a Marge Simpson nei mitici “I Simpsons“) condivisa per pure ragioni economiche con gli zii Abe (Josh Mostel, figlio di Zero Mostel attore vittima del maccartismo e che con Allen ha interpretato un ruolo semi-autobiografico su quegli anni ne “Il prestanome” di Martin Ritt) Ceil e la loro figlia adolescente, zia Bea (Dianne West) eternamente in cerca della sua anima gemella e i nonni.

L’unico grande mezzo di fuga dalle fatiche e dalle delusioni della vita quotidiana è la radio attraverso la quale si possono vivere avventure e viaggi fantastici, e i cui protagonisti in realtà sono, loro malgrado, molto reali come per esempio Sally White (Mia Farrow) che da semplice venditrice di sigari nei nightclub diventa incredibilmente la protagonista di un programma radiofonico di gossip tutto suo. Cameo pregiato per Diane Keaton che si esibisce come cantante in una serata radiofonica.

Memorabile, e molto “felliniana”, è la scena in cui Joe viene portato per la prima volta al cinema ed entra nel maestoso e splendido “Radio City Music Hall” nel quale proiettano “Scandalo a Filadelfia” di George Cukor.

Per amanti di Woody Allen e nostalgici doc.

“Il ragazzo dai capelli verdi” di Joseph Losey

(USA, 1948)

Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi forse – e purtroppo… – non c’è stato un momento più adatto per rivedere questa struggente e al tempo stesso ottimista pellicola firmata dal maestro Joseph Losey.

La guerra è finita da poco e anche nei Paesi che l’hanno vinta ci sono gravi lutti e incolmabili dolori. E’ il caso del piccolo Pietro (che nella versione originale è Peter, e che ha il volto di un giovanissimo Dean Stockwell che nel corso dei decenni successivi parteciperà a grandi film come lo splendido “Paris, Texas” di Wim Wenders o a produzioni televisive di successo come “Quantum Leap”) i cui genitori medici si sono trasferiti dagli Stati Uniti in Europa per portare soccorso ai milioni di bambini tormentati dalla guerra e che, proprio mentre curavano i loro piccoli pazienti a Londra, sono periti durante un bombardamento.

L’unica cosa che rimane al piccolo è una lettera scritta dal padre poco prima di morire, che lui dovrà aprire raggiunti i sedici anni. Nessuno ha il coraggio di dargli le terribile notizia e lui, con l’ingenua convinzione che i genitori siano ancora in viaggio, viene trasferito – insieme alla sua lettera chiusa – da un parente all’altro fino a quando approda a casa di un lontano parente del padre che lui chiama nonno Fry (Pat O’Brien). Il carattere giovale e scherzoso dell’uomo sembra tranquillizzare Pietro che lentamente ricomincia a vivere una vita adatta alla sua età.

Partecipando a una raccolta fondi per gli orfani della guerra Pietro incappa in alcuni manifesti che riportano le desolanti fotografie di bambini vittime del conflitto, e ne rimane particolarmente colpito. Un suo compagno, vedendolo turbato per quei bambini sconosciuti, tenta di consolarlo raccontandogli la verità: anche lui è un orfano di guerra e per questo non dovrebbe essere tanto sconvolto.

La sera nonno Fry, per allentare la tristezza di cui è vittima il piccolo, gli racconta del suo unico e grande amore, ragione per la quale ha lasciato l’Irlanda per gli Stati Uniti. Era una splendida e affascinante acrobata che una sera perì cadendo dal trapezio. Amava molto la vita e la sua passione era una piccola pianta che teneva in casa. Quel verde, ricorda commosso Fry, le donava la gioia di vivere e le regalava la speranza per affrontare ogni nuovo giorno.

La mattina dopo Pietro, lavandosi il viso, si accorge che i suoi capelli sono diventati tutti verdi. Nonno Fry lo porta dal dottore che dopo averlo esaminato lo tranquillizza: Pietro sta bene e non è vittima di alcun veleno o temibile malattia. Semplicemente i suoi capelli sono diventati verdi. La reazione dei suoi concittadini, così come quella dei suoi compagni di classe, è però gretta e becera: c’è chi imputa il colore dei suoi capelli al latte avvelenato o chi a una grave malattia contagiosa. C’è anche chi è convinto che la cosa sia un funesto presagio delle gravi calamità che a breve colpiranno la cittadina.

Pietro decide di fare una passeggiata nel bosco e lì, fra i ruderi di una vecchia abitazione, incontra i ragazzi che il giorno prima ha visto sui manifesti. E uno di loro gli rivela il motivo del colore dei suoi capelli: lui è il simbolo della sofferenza che la guerra ha inflitto e continua a infliggere soprattutto ai bambini. La sua chioma è la bandiera del dolore e delle privazioni che subiscono i bambini di tutti i Paesi a causa dei conflitti, e lui dovrà mostrarla a tutti per ricordarglielo.

Ma la becera paura del diverso e dello sconosciuto portano i suoi compagni a tentare un agguato per tagliargli i capelli. Agguato dal quale Pietro riesce a scappare, ma tornato a casa vi trova un Fry triste e rassegnato che lo convince ad andare dal barbiere per tagliarsi i capelli. Dalle vetrine del negozio tutta la città osserva attenta il taglio di capelli di Pietro, alla fine del quale tutti si dileguano senza dire una parola.

Nel cuore della notte Pietro, deluso e arrabbiato, scappa dalla casa di nonno Fry che lo ha profondamente deluso. A ritrovarlo sono degli agenti che lo portano in commissariato dove lo consegnano al medico dei bambini il dottor Evans (Robert Ryan) che, ascoltata attentamente la sua storia, lo esorta a non mollare e ad adempiere al suo compito con la speranza che una volta ricresciuti i suoi capelli siano ancora verdi. Ad attenderlo fuori il distretto c’è un disperato e pentito nonno Fry che gli chiede perdono e gli legge la lettera del padre, che gli lascia l’alto compito di far ricordare a tutti l’orrore della guerra e la sofferenza di tutti bambini.   

Scritto da Ben Barzman e Alfred Lewis Levitt (e tratto da un racconto di Betsy Beaton) “Il ragazzo dai capelli verdi” è un vero e proprio manifesto contro ogni tipo di guerra, a favore di tutte le vittime e contro ogni razzismo o pregiudizio. Non è un caso quindi che lo stesso Losey, poco più di due anni dopo aver girato questo film, in pieno maccartismo, venne inserito nella famigerata lista nera di Hollywood per essere sospettato di attività anti-americane. L’antimilitarismo, la spinta verso la pace e il considerare i bambini al di là del loro Paese d’origine tutti uguali, costrinsero Losey a rimanere in Gran Bretagna, dove si trovava in quel momento a girare un film.

Da ricordare nel cast anche Robert Ryan, che nella sua carriera impersonò molti “maledetti cattivi” ma che nella vita reale fu un grande paladino dei diritti civili.  

Da vedere e da far vedere nelle scuole.

Esiste ormai un’unica versione restaurata e colorata di questo film, cosa che andava di moda negli anni Ottanta per ridistribuire le pellicole che qualcuno in quel momento considerava erroneamente invendibili così come erano nel loro splendido bianco e nero. Di solito considero la colorizzazione di un film in b/n un vero e proprio scempio, ma bisogna comunque ricordare che grazie a tale iniziativa, fra gli anni Ottanta e i Novanta, vennero “salvate” numerose pellicole che altrimenti sarebbero andate perdute. E poi, anche se il colore rovina l’atmosfera che solo il b/n può creare in questo specifico caso in cui il verde dei capelli di Pietro è davvero centrale nella narrazione, la cosa diventa tollerabile.

“L’istituto” di Stephen King

(Speling & Kupfer/Mondadori, 2019)

Maledetto di uno Stephen King che anche questa volta non mi hai fatto dormire per finire di leggere il tuo romanzo!

Fin da quando lessi la prima volta “La zona morta”, caro il mio Fedele Scrittore, per poi passare a ”L’ombra dello scorpione”, allo strepitoso “It”, al claustrofobico “Il gioco di Gerald” – e potrei continuare per molto… – mi hai inchiodato alle tue pagine fino all’ultimo rigo. E anche questa volta non mi hai deluso.

In questo angosciante libro ci porti in uno degli incubi di quasi tutti i ragazzini: essere rapiti e allontanati dai propri genitori. Così il dodicenne Luke Ellis, bambino intellettualmente superdotato, in una oscura notte viene rapito dalla sua casa a Minneapolis per risvegliarsi in una sorta di Istituto, perso nei boschi del Maine, dove insieme ad alcuni suoi coetanei viene sottoposto a numerosi e misteriosi esami medici, che sono anche delle vere e proprie torture fisiche e mentali.

Coloro i quali tentano di ribellarsi vengono violentemente picchiati, e per renderli il più possibile remissivi, viene elargito loro alcol e tabacco. Luke non riesce a comprendere come degli adulti possano torturare e picchiare dei bambini e poi la sera tornare a casa come se nulla fosse. Ma la storia, purtroppo, gli ricorda come gli essere umani riescano ad abituarsi a tutto, come quando nazisti e fascisti sterminavano ebrei, disabili, omosessuali o zingari per poi tornare a casa e cenare o giocare con i propri figli.

Ma soprattutto Luke scopre che il motivo per cui è stato rapito non è il suo incredibile intelletto, ma un’altra cosa, che lui ha sempre considerato secondaria. E così i suoi aguzzini a commettono l’errore di considerare secondaria la sua straordinaria intelligenza…

Il Re ci regala un grande e inquietante romanzo che come ritmo e ansia si allinea ai suoi scritti migliori.

E adesso che ho finito questo tuo romanzo, caro Stephen King, come mi addormento?

“Miyo – Un amore felino” di Jun’ichi Satō e Tomotaka Shibayama

(Giappone, 2020)

L’adolescenza non è mai semplice, soprattutto se si è figli unici ed i propri genitori si sono separati. Ma la giovane e solitaria Miyo affronta la sua vita sempre col sorriso sulle labbra, nonostante i drammi interiori che l’affliggono.

La sua vita sembra finalmente avere un senso quando una sera incontra un enorme e magico gatto che le offre una maschera da felino che potrà indossare a suo piacimento che le consentirà di diventare un piccolo felino. La sera stessa Miyo la prove e finisce casualmente fra le braccia di Hinode, un suo compagno di classe.

Hinode prende a ben volere la piccola gattina che battezza Tarō – in ricordo del suo cane ormai scomparso da anni – e alla quale confida tutti i suoi segreti e problemi. Conoscere intimamente Hinode porta Miyo ad innamorarsi di lui, ma diventa sempre più difficile per la ragazza conciliare la vita diurna da adolescente e quella notturna da gatto.

Fra la madre che l’ha abbandonata quando era ancora una bambina, e la nuova compagna del padre con la quale Miyo non riesce ad instaurare un vero rapporto, oltre ai soliti bulli a scuola, la vita felina sembra essere l’unica sostenibile. E così quando il grosso gatto le propone lo scambio definitivo fra la maschera da gatto e quella da umana, Miyo accetta. Ma tutto ha un costo, e spesso molto alto…

Delizioso anime all’insegna della grande tradizione nipponica che li vede fra i più efficaci mezzi per parlare dei travagli dell’adolescenza, soprattutto quelli delle ragazze. Scritto da Mari Okada, il film ci parla con garbo e delicatezza di una delle fasi più complicate della nostra vita.

E ovviamente, visto che è Giapponese, nel film non potevano mancare i gatti, così come nei deliziosi “I sospiri del mio cuore” e il suo spin-off “La ricompensa del gatto“.