“Hitchcock-Truffaut” di Kent Jones

(Francia/USA, 2015)

Nel 1962, dopo una fitta corrispondenza, Alfred Hitchcock accetta l’intervista propostagli dal giovane critico e cineasta francese Francois Truffaut.

Il regista inglese, reduce dal successo planetario del suo superbo “Psyco” che di fatto ha cambiato il modo di fare e vedere il cinema, è curioso dell’interesse di Truffaut – che ha al suo attivo, allora, solo tre film – uno dei rappresentati di spicco della Nouvelle Vague che dalla Francia, e dalle scrivanie della rivista “Cahiers du cinéma” fondata da André Bazin nel 1951, sta rivoluzionando il modo di pensare al cinema e, soprattutto, sta riscoprendo e rivalutando i “vecchi” maestri.

Negli Stati Uniti Hitchcock è considerato soprattutto un grande intrattenitore e, oltre al cinema, la sua fama è legata alle serie televisive che cura e presenta. Ma Truffaut vuole intervistare e conoscere alla radice la tecnica e la genialità di quello che lui – assieme ai cineasti della Nouvelle Vague – considera un vero e proprio maestro assoluto, e comprendere meglio anche il ruolo focale di Alma Reville, compagna di lavoro di Hitchcock dagli inizi e poi divenuta sua compagna di vita, che molti considerano geniale come il marito, soprattutto in sede di montaggio.

I due si vedranno in un ufficio degli studi dell’Universal per una settimana coadiuvati da Helen Scott che tradurrà dal francese all’inglese e viceversa. Finita la settimana e l’intervista fra i due grandi cineasti nascerà una profonda amicizia fatta di stima e affetto che proseguirà fino alla morte di Hitchcock avvenuta nel 1980. Per questo, nel corso degli anni, i due si scambieranno regolarmente lettere e telegrammi con opinioni e consigli sulle rispettive opere.

Sistemando il materiale scaturito da quella incredibile settimana, nel 1966 Truffaut pubblica il libro “Il cinema secondo Hitchcock” che diventa di fatto una pietra miliare e un testo fondamentale della letteratura cinematografica, indispensabile anche per chi semplicemente ama il cinema, e non solo quello del maestro inglese. Testo che con gli anni diventa un vero e proprio manuale per tutte le generazioni di cineasti.

A documentare quell’intervista ci sono le fotografie in bianco e nero scattate da Philippe Halsman e la registrazione audio. Questo ottimo documentario, scritto dallo stesso Kent Jones assieme a Serge Toubiana, la ripercorre con l’aggiunta di immagini di archivio e interviste a vari cineasti come Martin Scorsese, David Fincher, Peter Bogdanovich e Paul Schrader che raccontano l’impatto del libro nella loro carriera.

A pochi mesi dalla sua morte, a Hitchcock venne assegnato un prestigioso premio televisivo – sì, sì: televisivo e non …cinematografico, che rappresenta tristemente il suo unico vero riconoscimento pubblico ricevuto in vita – e per consegnarlo venne chiamato lo stesso Truffaut che disse: “…Voi qui lo chiamate semplicemente Hitch, ma noi in Francia invece lo chiamiamo …Monsieur Alfred Hitchcock!”.

Da vedere.

“Intrigo internazionale” di Alfred Hitchcock

(USA, 1959)

L’anno in cui all’Eliseo si insedia Charles de Gaulle come primo Presidente della V Repubblica Francese, e sulla RAI viene trasmesso il Primo Festival della Canzone del Bambino “La Zecchino d’Oro”, esce negli Stati Uniti “North by Northwest”, uno dei capolavori assoluti del maestro Alfred Hitchcock.

A partire dai titoli di testa, il film segna in maniera indelebile il cinema in generale, e quello d’azione nella specifico. Non è un caso quindi che i produttori di quella che diventerà una della saghe più longeve della storia del cinema, per il loro “007 Licenza di uccidere” volevano non solo Cary Grant come James Bond, ma soprattutto Hitchcock come regista.

Ma il genio inglese trapiantato a Hollywood rifiutò perché il progetto non lo stimolava, e soprattutto perché intento a preparare un’altra pietra miliare assoluta come “Psyco”. La sceneggiatura è firmata da Ernest Lehman – autore di script di pellicole come “Sabrina” di Billy Wilder, “West Side Story” e “Lassù qualcuno mi ama” di Robert Wise – che confeziona per il maestro del thriller un plot accattivante ma non particolarmente strutturato.

A farlo diventare un capolavoro è infatti il regista, che gira delle scene strepitose con delle immagini ancora oggi indimenticabili. E così dal classico – e molto caro a Hitchcock – scambio di persona arriviamo a scoprire un pericoloso e grave …intrigo internazionale. Ma i dialoghi hanno poco spazio rispetto alle immagini e alla superbe musiche firmate da Bernard Herrmann, musicista molto amato da Hitchcock e con cui collaborerà frequentemente, e autore di quelle di film come “Quarto potere” di Orson Welles, “Taxi driver” di Martin Scorsese, “Obsession – Complesso di colpa” di Brian De Palma, e di alcuni episodi delle prime stagioni di “Ai confini della realtà” di Rod Serling.

Ma non solo, proprio perché fra i preferiti di Hitchcock, Herrmann verrà chiamato anche da Truffaut per il quale firmerà la colonna sonora dei film “Fahrenheit 451” e “La sposa in nero”. E proprio nello splendido libro “Il cinema secondo Hitchcock” firmato dallo stesso Truffaut, che raccoglie una lunghissima intervista – durata alcuni decenni – al grande cineasta inglese fatta dall’indimenticabile cineasta francese, Hitchcock parla delle genesi di alcune scene di “North by Northwest”.

Come quella dell’agguato a Roger Thornhill/Cary Grant che in realtà all’inizio avrebbe dovuto consumarsi nel cuore della notte, in un luogo angusto e buio dei bassifondi della città. Ma Hitchcock in ogni fotogramma voleva sempre “alzare l’asticella” e così impose a Lehman di riscriverlo ambientandolo alla luce del sole e in un posto il più assolato e ampio possibile. O la scena finale in cui Thornhill/Grant tira sulla cuccetta superiore della scompartimento Eve Kendall, interpretata da Eva Marie Saint, che si chiude con il treno che entra in una galleria, allusione fin troppo esplicita di un rapporto sessuale.

Ogni fotogramma è infatti costruito in maniera impeccabile e al tempo stesso in perfetta simbiosi con quello che lo precede e con quello che lo segue. Se così de Gaulle e il Mago Zurlì oggi ci sembrano appartenere ad un passato abbastanza lontano questa pellicola, invece, continua a splendere nel firmamento dei grandi film della storia del cinema, tanto da essere continuamente imitata e citata.

Insomma, un vero e proprio capolavoro immortale.

Nel cast da ricordare anche James Mason nei panni del perfido Vandamm e Martin Landau in quelli del suo galoppino Leonard.

“L’ultimo metrò” di François Truffaut

(Francia, 1980)

Il maestro François Truffaut fatica non poco per trovare i finanziamenti necessari a produrre questo suo capolavoro. Alla fine degli anni Settanta, infatti, sembra poco interessante realizzare un film dedicato all’occupazione nazista della Francia del 1942, non concentrandolo sul tema politico.

Perché Truffaut e Suzanne Schiffmann (stretta e fidata collaboratrice e co-sceneggiatrice del regista) vogliono raccontare una storia di donne e uomini che mettono su uno spettacolo teatrale, che ha “solo” per sfondo l’occupazione nazista.

E’ la seconda opera del cineasta parigino, dopo lo splendido “Effetto notte” (incentrata sul cinema) dedicata al mondo dello spettacolo che, nei suoi progetti, avrebbe dovuto far parte di una trilogia. L’ultima pellicola, che però il regista non avrà mai il tempo di realizzare, avrebbe dovuto essere dedicata al musical.

Truffaut e Schiffmann basano il loro script sui diari personali di molti noti artisti dell’epoca e soprattutto sui loro ricordi personali. Il regista, durante l’occupazione, aveva dieci anni, mentre la Schiffmann quasi quattordici, ed essendo di religione ebraica, sul cappotto aveva cucita la stella di David che, per andare la sera al teatro, nascondeva sotto una sciarpa. Non è un caso quindi che nella pellicola, anche se in parti marginali, ci siano un bambino di dieci anni e una ragazza ebrea che usa lo stesso stratagemma della Schiffmann per andare al teatro.

L’occupazione delle truppe tedesche ha costretto molti artisti e intellettuali di origine ebraica a lasciare Parigi, fra questi c’è anche Lucas Steiner (Heinz Bennent) che in fretta e furia ha venduto il suo teatro, il “Montmartre”, alla moglie l’attrice Marion Steiner (una splendida Catherine Deneuve) ed è scappato in America Latina. Marion, assieme all’amico fidato l’attore Jean-Loup Cottin (Jean Poiret) decide di mettere in scena il dramma norvegese “La scomparsa”, opera che lo stesso Steiner aveva scelto e preparato per la rappresentazione.

Per il ruolo del protagonista maschile Cottin sceglie Bernard Granger (un bravissimo Gerard Depardieu) dopo averlo visto al lavoro al Teatro del Grand Guignol. Iniziano così i preparativi per lo spettacolo, durante i quali scopriamo l’anima più nascosta e profonda dei suoi protagonisti. Marion, nella cantina del teatro, nasconde il marito Lucas che non ha mai lasciato Parigi; Bernard ha stretti contatti con la Resistenza per la quale prepara ordigni esplosivi; Cottin, grazie alle sue conoscenze, riesce sempre a “sistemare le cose” rimediando visti o bolli; e così tutti gli altri, fino all’attrezzista. Ogni personaggio ha una vita nascosta e recita “pirandellianamente” anche fuori dal palcoscenico.

Al centro però rimane sempre l’amore, l’amore per un altro essere umano, l’amore per il teatro, l’amore per il potere ed il successo o l’amore per la propria nazione. E Truffaut, che di amore se ne intende, omaggia con rispetto e delicatezza anche quello omosessuale. Non è un caso, quindi, che per interpretare Cottin, la cui omosessualità è subito dichiarata, vuole Jean Poiret, noto attore teatrale nonché autore e interprete (insieme a Michel Serrault) della pièce “La Cage aux folles” che sbanca nei teatri francesi a partire dal 1973 e che poi Edouard Molinaro porterà sul grande schermo con titolo (in italiano) “Il vizietto” con il grande Ugo Tognazzi nel ruolo che sul palcoscenico era dello stesso Poiret.

Se è vero che l’opera di Poiret canzona gli omosessuali, è vero anche che lo fa con rispetto e affetto, diventando impietosa invece con quelli che hanno problemi o diventano moralmente ingerenti con chi ha gusti sessuali diversi dai propri.

Girato quasi tutto in interni, con luci deboli che ampliano il senso di pesantezza, metafora mentale dell’occupazione voluta dal regista, “L’ultimo metrò” è uno dei capolavori indiscussi della cinematografia mondiale che, come pochi altri, sbanca al botteghino esaltando al tempo stesso la critica. Merita di essere ricordata, infine, la struggente scena finale in cui Truffaut omaggia in maniera sublime il maestro (e suo amico personale) Alfred Hitchcock citando “Omicidio!”.

Da vedere ad intervalli regolari.

Il dvd contiene la versione restaurata del film col doppiaggio originale eseguito quando la pellicola venne distribuita nel nostro Paese. Inoltre è presente una ricca sezione degli extra con: una presentazione audio del film fatta da Serge Toubiana; le sequenze della premiazione dei César 1981 in cui il film trionfa in molte categorie; una breve ma preziosissima intervista a Truffaut sul suo rapporto con la lettura; una sequenza tratta da un’intervista televisiva del regista che parla del film; il trailer originale e una scena tagliata nel montaggio finale.

“L’amore fugge” di François Truffaut

(Francia, 1978)

Con questa pellicola il grande François Truffaut chiude il ciclo dedicato ad Antoine Doinel, il suo alter ego cinematografico, nato quasi vent’anni prima con lo splendido “I 400 colpi”.

Doinel (interpretato ovviamente e come in tutti i film del maestro francese da Jean-Pierre Léaud) e Christine (Claude Jade) divorziano consensualmente dopo cinque anni di matrimonio. Sono i primi a Parigi a poterlo fare con la nuova legge che rende tutto più rapido quando i coniugi scelgono di separarsi consensualmente.    

Antoine ha da tempo una relazione con Sabine (Dorothée), ma la sera stessa in cui il giudice emana la sentenza di divorzio, l’uomo incontra casualmente Colette, una sua ex fiamma. Attraverso flashback (costituiti da brevi sequenze di tutti i film e i cortometraggi che Truffaut ha realizzato con Doinel protagonista) riviviamo la storia fra Antoine e Colette, e soprattutto il rapporto profondo ma assai complicato dello stesso Antoine con tutte le donne, a partire da quello con la madre.   

Scritto da Truffaut insieme a Suzanne Schiffman (collaboratrice storica del regista), Marie-France Pisier (che in vari film dedicati a Doinel interpreta Colette) e Jean Aurel, “L’amore fugge” come tutti i film del grande cineasta francese prende dritto al cuore. Tocca le corde dell’animo umano parlandoci dell’amore. Non di quello dorato e onirico, ma dell’amore vero, egocentrico, viziato ma sempre e comunque sincero. Una sorta di rilettura struggente di “Alfredo Alfredo” del maestro Germi. 

Da ricordare anche la canzone che apre e chiude il film: “L’amour en fuite”, scritta da Laurent Voulzy e Alain Souchon, e interpretata dallo stesso Souchon.

Caro Truffaut, quanto ci manchi!

“E Johnny prese il fucile” di Dalton Trumbo

(Bompiani, 2016)

Cominciamo dalla fine: dopo aver letto l’ultima pagina di questo straodinario romanzo, ho avuto difficoltà nell’iniziarne un altro. Perché questo libro, pubblicato per la prima volta nel 1938, colpisce dritto al mento, facendo cedere la mascella e diventare le gambe molli.

Si tratta di uno dei più grandi romanzi contro la guerra mai scritti, e incredibilmente è anche l’unico firmato da Dalton Trumbo, che ha dedicato il resto della sua splendida penna al cinema. E il film che poi egli stesso ha girato (prima sognando di farlo dirigere a Luis Buñuel), l’unico che abbia mai diretto, era uno dei film preferiti dal grande Truffaut.

Il vent’enne Joe Bonham ripensa alla sua breve vita. Ricorda la sua infanzia, la sua famiglia e la sua adolescenza non ancora finita. E poi si ricorda: si ricorda che il suo Paese è entrato in guerra e lui è stato reclutato. Dopo un breve addestramento è stato portato insieme ai suoi commilitoni in Europa dove “si combatte per la democrazia”.

E lì, nel 1918 quando il conflitto sembrava al termine, è stato ferito. Una granata lo ha preso in pieno. E allora Johnny si chiede se è ancora vivo, perché nessuno è mai sopravvissuto… nel limbo senza fondo in cui si è ritrovato capisce l’atroce verità: l’esplosione gli ha portato via gli occhi, il naso, le orecchie, la bocca, le gambe e le braccia. E capisce anche di essere il frutto di un accanimento terapeutico che lo rende “un pezzo di carne in vita”. Potendo solo muovere la testa, Johnny passa il tempo a cercare di capire chi lo sta facendo sopravvivere e perché…

Ispirato alle esperienze di inviato di guerra della stesso Trumbo, ma soprattutto dal suo profondo antimilitarismo, “E Johnny prese il fucile” è uno dei romanzi simbolo del Novecento breve e sanguinario (e non è che il 2000 sia iniziato meglio…) e venne pubblicato per la prima volta poche ore dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Le prefazione che l’autore scrisse nella riedizione del romanzo dei primi anni Settanta ci aggiorna tragicamente sui numeri relativi ai giovani deceduti o gravemente menomati sia nel secondo conflitto mondiale che in quello, allora contemporaneo, del Vietnam.

Oltre che nelle scuole, questo libro dovrebbe essere letto da chi pensa che la forza sia sempre la soluzione migliore.

Per la chicca: per realizzare il loro inquietante video “One”, i Metallica hanno usato vari spezzoni originali del film tratto da questo libro.

“Mica scema la ragazza!” di François Truffaut

(Francia, 1972)

François Truffaut non si discute: si ama.

Così come tutti i suoi film. E questo “Mica scema la ragazza!”, che apparentemente sembra uno dei meno caratteristici della sua cinematografia, deve essere amato come tutti gli altri. Perché se è vero che Truffaut era l’uomo che amava le donne, è vero altrettanto che era anche l’uomo che capiva davvero le donne.

E così ci racconta una storia al femminile, al cui centro c’è la bella e carnale Camille (che ha il volto e il corpo voluttuoso di Bernadette Lafont, fra le attrici simbolo della Nouvelle Vogue, e che nel 2013 venne premiata per la sua interpretazione nella commedia graffiante “Paulette”).

Del trattato “Criminalità al femminile” opera prima del professore Stanislao Prévine (un giovanissimo e impacciatissimo André Dussollier) si sono perse le tracce. Eppure il manoscritto era quasi pronto per andare in stampa, ma…

Con un flashback torniamo indietro di un anno quando Prévine, per il suo libro, si reca per la prima volta nel carcere femminile per intervistare alcune detenute. Fra i vari casi da esaminare, tra cui donne molto violente, Prévine sceglie quello di Camille Bliss, accusata di aver ucciso il suo amante (Charles Denner).

Con scetticismo, visto che la Bliss è considerata una semplice e banale “sgualdrina”, la Direzione dell’Istituto acconsente. Il giovane professore incontra così Camille che gli inizia a raccontare, con un bel linguaggio franco e colorito, la sua vita. Figlia unica di contadini, è cresciuta con un padre violento che non perdeva occasione per picchiarla. Tanto che a neanche dieci anni, stufa dei violenti calcioni, la piccola sposta la scala al padre, salito sul sottotetto della stalla, facendolo precipitare mortalmente nel vuoto.

Camille finisce dritta al riformatorio dal quale dopo qualche anno riesce a fuggire, e sposa il primo uomo che la carica in macchina. Per il resto della sua esistenza dovrà fare i conti, nel bene e nel male, con quello che gli uomini vogliono da lei e soprattutto dal suo corpo, Prévine compreso…

Scritto da Truffaut assieme a Jean-Loup Dabadie, e tratto dal romanzo dell’americano Henry Farrell “Such a Georgeous Kid Like Me” del 1967, il film ci descrive bene, nonostante il tono allegro e scanzonato, come la maggior parte degli uomini vedano e considerino le donne, e soprattutto come le donne possano sopravvivere e affermare se stesse in un mondo maschilista, patriarcale e ipocrita. Ovviamente generalizzare è sbagliato, ma quasi cinquant’anni fa una donna attraente, di per sé, era già rea di una grave colpa, e quindi o doveva essere sottomessa o era una imperdonabile …sgualdrina.

Nella nostra società del 1972 questo concetto di fondo del film, nonostante il ’68 appena passato, non poteva essere accettato né discusso, e così la scelta del titolo “Mica scema la ragazza!”, che in maniera sottilmente ironica scarica tutte le colpe sulla protagonista.

Quello originale “Une belle fille comme moi” è molto diverso, e rifacendosi al titolo originale del romanzo, ci lascia in bocca un sapore ben più acre. Tanto per ribadire la totale mancanza reale di una rivoluzione sociale e culturale – troppe volte sbandierata e festeggiata – che da noi ha mantenuto pochissime delle promesse fatte.

“Millennium Actress” di Satoshi Kon

(Giappone, 2001)

Attenzione, non vi fate fregare da vostri pregiudizi sui film d’animazione, qui parliamo di un grandissimo film, del puro e raro “cinema nel cinema” di alta qualità.

“Millennium Actress” – e mi assumo serenamente tutta la responsabilità! – di Satoshi Kon è un film che sicuramente sarebbe piaciuto al grande Francois Truffaut e che non sfigura accanto al suo capolavoro “Effetto notte”.

Il responsabile di un’emittente televisiva giapponese decide di realizzare uno speciale su Chiyoko Fujiwara, famosissima attrice cinematografica della metà del Novecento, che adesso, settantenne, vive una vita riservata insieme alla sua governante.

Nel corso dell’intervista Chiyoko rievoca, catapultandoci dentro il suo intervistatore e persino il cameramen, i fatti salienti della sua carriera legati inesorabilmente a quelli della sua vita privata che è ruotata attorno all’amore della sua vita: un giovane pittore sovversivo che lei per una notte ha nascosto e del quale non ha mai saputo il nome. L’unica cosa che lui le ha lasciato è stata una piccola chiave, la cui corrispettiva serratura lei ha sempre cercato…

Dov’è la linea di demarcazione fra la vita e il set per una grande e famosa attrice cinematografica? …Satoshi Kon – scomparso troppo presto – ce lo racconta molto bene e con una eleganza e uno stile da grande autore.

Una lezione di cinema a tutti gli effetti.

Da vedere.

“Boyhood” di Richard Linklater

(USA, 2014)

Vincitore di un Oscar, a Patricia Arquette come miglior attrice non protagonista; due Golden Globe, ancora alla Arquette e a Richard Linklater come miglior regista e dell’Orso d’Argento a Berlino, oltre ad altri numerosi quanto prestigiosi premi nei festival di tutto il mondo, questo “Boyhood” percorre 12 anni di vita del giovane Mason (un bravissimo Ellar Coltrane), che conosciamo a 8 anni, e percorriamo con lui i dodici anni che lo porteranno alla soglia dei 20.

Il viaggio lo facciamo letteralmente, perché questo film è stato realizzato proprio in dodici anni.

Il cast si è ritrovato a scadenze fisse, per brevi periodi e quasi annualmente.

Un’esperienza simile, solo per fare l’esempio che amo di più, a quella di Francois Truffaut con il “suo” Jean-Pierre Léaud.

Ma a caratterizzare questa pellicola non è solo questo virtuosismo, è la storia minimalista e quotidiana di un bambino che deve diventare adulto in mezza alle solite, comuni ma non per questo più facili problematiche adolescenziali.

E su questo il regista Richard Linklater ricorda nuovamente Truffaut, che aveva per i bambini e gli adolescenti uno sguardo d’amore vero e sincero, senza falsi paternalismi o fastidiosi sentimentalismi.

Davvero un bel film.

Francois Truffaut

Il 21 ottobre del 1984 se ne andava per un rapido quanto implacabile tumore al cervello uno dei più grandi cineasti del Novecento, l’indimenticabile Francois Truffaut.

In molti, in questi, giorni lo stanno ricordando. Ma la prima cosa che farei per omaggiarlo è andare a Parigi e vedere la mostra a lui dedicata promossa dalla Cinematheque Francaise, in cui oltre a brani di suoi film rieditati, fotografie e manifesti c’è la ricostruzione del suo studio privato con tanto di scrivania e libreria.

La seconda – che è logisticamente ed economicamente molto più fattibile per le mie attuali finanze – è rivedere tutti i suoi film.

Anche se qualcuno lo conosco quasi a memoria, ogni volta che li rivedo scopro un angolo struggente che prima avevo ignorato.

Ricordare una morte è comunque triste, ma ogni volta che penso che quel cavolo di tumore che ci ha privato delle opere che avrebbe realizzato nel corso degli anni, divento ancora più triste.

E poi lui era l’unico che poteva parlare con gli extraterrestri, anche secondo Spielberg!

“Il ragazzo selvaggio” di François Truffaut

(Francia, 1970)

Per scrivere la sceneggiatura di questo struggente film, Truffaut e Jean Gruault si rifecero direttamente al vero diario del dottor Jean Itard, il medico che accolse in casa sua il ragazzo trovato in una foresta francese nel 1798.

Come molti altri film di François Truffaut, anche “Il ragazzo selvaggio” è un inno in difesa dei bambini, dei ragazzi e di tutti i più piccoli e deboli della società.

Lui, che passò molto tempo della sua giovinezza in riformatorio, con la sua cinematografia ha contribuito a creare quell’attenzione all’infanzia – e anche alla disabilità – che oggi sembra scontata ma che fino a poco tempo fa non lo era affatto.

Per questo, per esempio, ogni volta che vado all’Ikea ed entrando nel reparto bambini leggo la scritta “Per i più importanti del mondo” penso al maestro François Truffaut.

Aggiungo, infine, che nulla mi toglie dalla testa che David Lynch si sia ispirato a questa indimenticabile pellicola per girare dieci anni dopo il suo “The Elephant Man”, e non solo per il bianco e nero.