“Senza piume” di Woody Allen

(La Nave di Teseo, 2023)

Pubblicato per la prima volta nel 1976 e in italiano col titolo “Citarsi addosso”, “questo libro “Senza piume” – curato in questa edizione da Daniele Luttazzi – contiene brevi pezzi e racconti che Woody Allen ha scritto fino ai primi anni Settanta, periodo in cui ha deciso di dedicarsi quasi completamente al cinema.

Già adolescente Woody Allen era uno dei più noti e ben pagati autori di battute per artisti del cabaret, della radio e della televisione. Rileggere i suoi scritti, sempre e comunque divertenti ed esilaranti, non stanca mai.

Certo, la sua arte col corso dei decenni – e anche a seguito delle sue vicissitudini personali – è cambiata evolvendosi. Ma il genio newyorkese rimane sempre ironico e pungente. Fra i racconti c’è quello che poi, modificato dalla stesso autore, è diventato il soggetto del suo film “Ombre e nebbie”, così come è semplice – e al tempo stesso godibilissimo – scovare in battute o gag accenni o riferimenti a sue successive sue opere cinematografiche.

Nonostante la grande ironia che permea ogni pagina, non si può che condividere quello che lo stesso Allen disse in un’intervista qualche anno fa, sostenendo di essere un autore di tragedie – nel senso classico del termine – e non di commedie, e che il suo pubblico ormai da decenni commette un inspiegabile …errore.

“Mia nonna saluta e chiede scusa” di Fredrick Backman

(Mondadori, 2016)

Checché se ne dica, la vita non è semplice per nessuno. Neanche per una bambina di sette anni che ama l’intera saga di Harry Potter e che tutti considerano una tipa strana, molto matura e forse anche per questo …molto “diversa”.

Così la scuola per Elsa non è un ambiente sereno. Non capita giorno in cui non venga bullizzata da alcune compagne di classe che proprio non sopportano la sua eccentricità e la sua intelligenza. Ma a sua madre Ulrika non può certo raccontare quello che le capita quotidianamente perché non capirebbe, e poi ha bisogno di tutta la serenità possibile visto che sta portando a termine la gravidanza alla fine della quale nascerà il suo fratellastro.

Perché Elsa vive con la madre e con George, il nuovo compagno, dato che il matrimonio con il suo papà è naufragato ormai da qualche tempo. L’unica persona che la capisce completamente è sua nonna materna che, guarda caso, anche lei è stata sempre un tipo molto “originale”. Era un chirurgo e ha girato tutto il mondo, è stata in posti di guerra e di dolore dove ha salvato decine di vite umane. Ma questo l’ha tenuta per molto tempo lontana da casa e così sua figlia Ulrika è cresciuta la maggior parte del tempo senza di lei.

Ora che ha settantasette anni la nonna non vuole commettere lo stesso errore con sua nipote e così la sostiene con tutti i mezzi possibili. Il segreto più grande fra loro due è Miamas, il mondo fantastico che si può visitare mentre ci si addormenta la sera. Ma la nonna, fumatrice incallita, sta perdendo la sua battaglia contro un implacabile tumore, e così lascia ad Elsa una serie di lettere da consegnare agli abitanti del condominio in cui loro due, assieme ad Ulrika, vivono.

Per Elsa sarà un viaggio per conoscere alcuni aspetti della nonna, di sua madre e anche di se stessa impensabili ed incredibili…

Pubblicato per la prima volta nel 2013, questo piacevole romanzo anticipa alcuni dei temi che Backman svilupperà nel suo libro successivo e certamente più famoso “L’uomo che metteva in ordine il mondo“, come la perdita di un affetto centrale nella propria esistenza e l’emarginazione che provoca l’essere emotivamente e caratterialmente “diversi” dalla massa.

Così come gli altri scritti di Backman, anche questo è un inno alla tolleranza e all’inclusione, che ci racconta di un mondo dove nessuno è perfetto, o buono o cattivo al 100%, e dove l’impresa più ardua è quella di riuscire a convivere con se stessi.

D’altronde, come dice un antico proverbio cinese: “L’albero storto vive la sua esistenza nel bosco, quello dritto finisce sul tavolo del falegname”.

“Yoga” di Emmanuel Carrère

(Adelphi, 2021)

Emmanuel Carrère è per me l’autore di uno dei libri più affascinanti e al tempo stesso terribili e inquietanti degli ultimi decenni come “L’avversario“, pubblicato per la prima vota nel 2000. Amo molto il suo modo di scrivere e raccontare le vicende e le storie degli altri. E così ho iniziato assai curioso la lettura di questo suo recente libro dove la storia narrata è, invece, la sua.

Il libro sostanzialmente è diviso in due parti, la prima è quella in cui ci racconta la nascita e lo sviluppo del suo rapporto decennale con lo yoga e la meditazione in generale. Il suo approcciarsi alla disciplina orientale quasi per caso fino a divenire un assiduo frequentatore di corsi e seminari sparsi in tutto il mondo, soprattutto da quando il pensiero orientale lo ha aiutato a trovare un equilibrio personale.

La seconda inizia proprio durante un seminario fra le montagne, dove era assolutamente proibito avere contatti col mondo esterno così come con gli altri partecipanti, ma nonostante ciò Carrére viene travolto dalla realtà e soprattutto dalla parte più oscura e abissale del proprio essere. Nei giorni in cui lui era immerso nella natura a meditare, due terroristi legati ad Al-Quaeda entrano nella redazione del giornale satirico “Charlie Hebdo” a Parigi e, armati di Kalasnikov, uccidono 12 persone e ne feriscono altre 11.

Carrère viene colpito profondamente dalla tragedia sia perché da ragazzo era un assiduo lettore del giornale satirico, sia perché conosceva e frequentava direttamente più di una delle vittime. Il ritorno brusco a una realtà violenta contribuisce a far vacillare l’equilibrio dello scrittore che lentamente, ma inesorabilmente, inizia a precipitare nel baratro della depressione, con la quale da sempre ha dovuto combattere.

Grazie a sua sorella viene ricoverato in una clinica parigina specializzata, dove però i farmaci non sembrano sortire l’esito sperato e così ai medici non rimane altro che la terapia elettroconvulsivante, una volta chiamata elettroshock. Fortunatamente per lui, e anche per noi lettori, le sedute di questa dura cura alla fine funzionano e riescono a ridare a Carrère una certa stabilità – grazie anche al supporto di nuovi farmaci – che gli permette di terminare il libro dedicato allo yoga, che da tempo aveva in mente.

Un viaggio crudo e doloroso in una patologia, come la depressione – termine naturalmente generico e superficiale per una malattia che ha invece numerose sfaccettature e intensità – la cui causa per lo scrittore rimane “sconosciuta”. Perché la vita di Carrère, sottolinea a se stesso come a noi lettori, è stata fortunata e piena di successi, anche economici, oltre che di affetti.

Non certo come quella di alcuni giovani migranti minorenni a cui lui stesso propone un corso di scrittura creativa mentre sono “ospiti”, in Grecia, in un centro di accoglienza per profughi in attesa di essere “ridistribuiti” in Europa.

E, guardando quei ragazzi che hanno dovuto lasciare tutto e vivere spesso esperienze terrificanti per raggiungere le porte del nostro continente in cerca solo di sopravvivere – come ci ha raccontato superbamente Matteo Garrone nel suo splendido “Io Capitano” – Carrère si chiede se davvero quella che per loro rappresenta la “Terra Promessa” alla fine non li tradirà lasciandoli soli senza speranza e senza dignità – come si è sentito lui, anche se per ragioni completamente diverse, travolto dalla depressione – rendendoli facili prede di fanatici e subdoli terroristi.

Tragicamente attuale.

“La Taverna di mezzanotte – Tokyo stories vol. 7 ” di Yaro Abe

(Bao Publishing, 2023)

Eccoci nuovamente, per la settima volta, nella taverna più originale e affascinante di Tokyo.

Nel quartiere di Shinjuku, nei pressi dell’omonima stazione, il nodo ferroviario più trafficato al mondo, tutti i giorni – o meglio tutte le notti – c’è un piccolo ristorante che apre da mezzanotte alla sette del mattino. Il proprietario, chef e allo stesso tempo cameriere, è un taciturno uomo di mezza età con una vistosa cicatrice sull’occhio destro.

Al muro del piccolo locale è affisso il menu fisso, ma lo chef è disponibile a cucinare qualsiasi cosa i clienti desiderino a patto di avere gli ingredienti o che gli stessi avventori li forniscano. E così, gli invitanti aromi ed effluvi del cibo preparato e servito nella taverna, non solo aprono lo stomaco dei clienti ma anche la loro anima: per ogni ricetta preparata lo chef ci racconta la storia di uno o più dei suoi clienti che, nel bene o nel male, ha uno snodo proprio dentro al suo locale e grazie o a causa ad un piatto lì elaborato.

Come nella vita, però, non tutte le storie finiscono bene e non sempre il lieto fine chiude la vicenda. Tanto che a volte alcuni clienti decidono di non mangiare più, per il resto della loro esistenza, una pietanza alla quale invece prima erano profondamente legati proprio perché ricordava loro una persona o un evento fondamentale nella loro vita. Yaro Abe ci sottolinea, se davvero ce ne fosse bisogno, che lo stomaco forse non sarà importante come il cervello, ma è lui spesso a indirizzarci nei bivi della vita.

Come gli altri tomi della serie dedicata alla Taverna, anche questo – in cui si parla pure di rugby, sport molto amato nella terra del Sol Levante – è da leggere e “assaporare” fino all’ultima pagina, e non è necessario aver letto tutte le passate ricette per goderselo a pieno. Anche se io le consiglio caldamente.

Su Netflix è disponibile la serie giapponese “Midnight Diner: Tokyo Stories” deliziosa e saporita come il manga da cui è tratta. Abe, nel corso degli anni, ha pubblicato anche: “La Taverna di mezzanotte – Tokyo Stories vol.1“, “La Taverna di mezzanotte – Tokyo Stories vol.2“, “La Taverna di mezzanotte – Tokyo Stories vol.3” e “La Taverna di mezzanotte – Tokyo Stories vol.4“, “La Taverna di mezzanotte – Tokyo Stories vol.5“, “La Taverna di mezzanotte – Tokyo Stories vol.6“.

“Holly” di Stephen King

(Sperling & Kupfer, 2023)

2021, Holly Gibney è la titolare dell’agenzia di investigazioni private “Finders Keepers”, fondata dall’ex poliziotto Bill Hodges, ormai defunto ma vero faro illuminante nella vita della donna che, grazie a lui, è riuscita a crearsi una vita emotivamente indipendente da sua madre.

Sono state sempre molti le considerazioni e le valutazioni diametralmente opposte fra lei e Charlotte, sua madre, le ultime delle quali sulla natura ed il pericolo reale del Covid. Così Charlotte, a differenza di sua figlia, non si è voluta vaccinare né tanto meno ha mai voluto prendere tutte quelle precauzioni necessarie per evitare il contagio. E quando l’infame virus l’ha attaccata, a Charlotte non è rimasto che il tempo di morire da sola nella Rianimazione di un ospedale, pieno di altri gravi pazienti affetti dalla polmonite fulminate come lei.

Ma la morte di Charlotte non chiude il rapporto irrisolto con la figlia, che dovrà fare i conti con un lascito ingombrante e inatteso, in tutti i sensi. Proprio mentre Holly si prepara ad affrontare questa nuova e dolorosa parte della sua esistenza, alla porta della “Finders Keepers” si presenta Penelope Dahl, che tutti chiamano “Penny”, con la foto di sua figlia Bonnie Rea Dahl, una giovane e avvenente studentessa universitaria.

Bonnie è scomparsa il 1° luglio, poco più di tre settimane prima, e di lei è rimasta solo la sua bicicletta abbandonata in strada, con sul sellino un laconico biglietto di addio. Penny naturalmente si è rivolta alla Polizia ma, vista la mancanza di prove di una qualsivoglia violenza e soprattutto la situazione che sta creando il Covid, che colpisce anche il personale della Polizia cosa che rende sempre più complicato gestire l’ordine pubblico, le indagine su Bonnie sono ad un punto morto.

Holly accetta il caso e inizia a ripercorrere e studiare le ultime settimane conosciute di vita della ragazza, prima che svanisse nel nulla, a partire proprio dal rapporto conflittuale con la madre, molto simile sotti alcuni punti di vita a quello che lei aveva con la sua. Ma l’indagine costringerà Holly ad affrontare un terrificante e insolito predatore che, purtroppo, molto prima della scomparsa di Bonnie ha iniziato ad assecondare la sua “fame” di sangue…

Il Re ci regala un altro grande libro che ci tiene inchiodati alla pagine fino all’ultima riga, post fazione compresa. Narrandoci della caccia a un serial killer, King ci pennella in maniera netta e cruda la metafora di un aspetto duro e doloroso della nostra società contemporanea: lo scontro fra le generazioni più mature e quelle più giovani. Scontro che negli ultimi anni sta acquistando toni e dinamiche nuove, anche perché le prime hanno privilegi e diritti che le seconde, molto probabilmente, non potranno ottenere mai.

E se qualcuno avesse ancora dubbi sulla grandezza di Stephen King come scrittore puro, e non solo come un superbo autore dell’orrore, si legga i brani in cui, in poche semplici righe, ci descrive con sublime tristezza e profondo rispetto il vile morbo dell’Alzheimer. Per non parlare del concetto di scrittura su cui il Re ci dona delle splendide e indimenticabili riflessioni grazie al personaggio di Olivia Kingsbury, una famosissima poetessa quasi centenaria. 

In poche parole: un vero e proprio Maestro della parola scritta.

La Gibney appare per la prima volta nel romanzo “Mr Mercedes” – dove incontra Bill Hodges – del 2014 e nei successivi “Chi perde paga” (2015), “Fine turno (2016), “The Outsider” e nel racconto breve “Se scorre il sangue”, compreso nell’omonima raccolta di racconti del 2020.

“L’assassino che è in me” di Jim Thompson

(Fanucci, 2010)

Dopo aver pubblicato lo strepitoso “Nulla più di un omicidio” nel 1949, ed alzato l’asticella del romanzo noir americano che in quel momento sta vivendo il suo periodo d’oro, Jim Thompson viene contattato da alcuni redattori della Lion Books che vogliono che il suo romanzo successivo, il quarto, sia pubblicato dalla loro casa editrice.

Arnold Hano e Jim Bryans della Lion, al primo incontro con Thompson, gli consegnato cinque brevissime sinossi, dei semplici spunti sui quali costruire un romanzo. Dopo averli letti Thompson si sofferma su quello che “…riguardava un poliziotto di New York che ha una relazione con una prostituta e finisce per ucciderla” e dice ai due: “Prendo questo”.

Nell’arco di poche settimane sulla scrivania di Hano e Bryans arrivarono le cartelle con la prima versione del romanzo che avrebbe preso il titolo “L’assassino che è in me”. Thomson aveva usato solo il banale spunto della relazione fra un uomo di legge e una prostituta, per poi cambiare tutto, ambientando la vicenda nella sua “solita” Capital City, e soprattutto costruendo un protagonista e una storia terrificanti.

Il vice sceriffo Lou Ford è considerato da tutti i suoi concittadini un brav’uomo, tollerante e sempre pronto a dare una mano ha chi ne ha bisogno. Per questo lo sceriffo Bob Maples lo considera il suo pupillo. Ma Lou Ford nasconde un terribile segreto, che risale alla sua infanzia, e che suo padre, uno dei medici più stimati di Capital City, ha sempre tenuto nascosto a tutti.

Anche Lou ha fatto di tutto per nascondere e contenere la sua “malattia”. Ma quando Chester Conway, il fondatore e proprietario della Conway Construction, la più grande società edile della città e pilastro economico dell’intera contea, gli affida un lavoro “fuori orario”, la diga inesorabilmente crolla.

Perché Chester Conway ha chiesto al giovane e promettente vice sceriffo Ford di convincere l’avvenente e assai accessibile Joyce Lakeland a lasciare la città e soprattutto suo figlio Elmer Conway. La cosa deve avvenire nella maniera più discreta possibile visto il cognome del ragazzo. Ma quando Lou incontra di persona Joyce inizia per lui, e per chi gli sta vicino come la sua storica fidanzata Amy, una terrificante e inesorabile discesa agli inferi.

Travolti dal racconto diretto di Lou viviamo un’escalation di sangue e violenza per mano di una mente lucida e coerente, ma al tempo stesso folle, criminale e senza freni. Lo stesso Hano raccontò che lette le prime cartelle rimase letteralmente sconvolto e ogni volta che la sera a casa, nel buio della notte, le rileggeva, oltre a comprendere il genio assoluto di Thompson, i peli delle sua braccia spesso si rizzavano.

Anche Stanley Kubrik, una volta letto il libro uscito nel 1952, ne rimase talmente colpito da volere Thompson come cosceneggiatore per i suoi capolavori “Rapina a mano armata” e “Orizzonti di gloria”. E non è un caso, quindi, che fra i più grandi ammiratori di Thompson ci sia anche il maestro Stephen King – i cui mostri più terrificanti non sono quelli fantastici, ma quelli “ordinari” che appartengono al genere umano – che lo considera uno dei maggiori scrittori del Novecento, chiamandolo “Big” Jim Thompson.

Nella sua autobiografia “Bad Boy”, Thompson racconta l’episodio vero dal quale prese spunto per creare Lou Ford. L’evento si consumò, durante la sua giovinezza, in un luogo isolato fra lui ed un poliziotto, noto in tutta la cittadina per essere una brava persona assai tollerante con tutti. Per convincerlo delle proprie “ragioni”, il poliziotto con una calma glaciale, ed infilandosi i guanti di pelle, disse al giovane Thompson come lo avrebbe ucciso con le proprie mani senza che poi nessuno avrebbe sospettato di lui, vista la sua fama e il suo ruolo.

Sconvolto, il giovane Thompson si lasciò convincere e assecondò docilmente il poliziotto, rimanendo per tutta la vita con la certezza che quell’uomo lo avrebbe potuto davvero massacrare rimanendo impunito.

Un capolavoro ancora oggi agghiacciante e indimenticabile.

Nel 1975 Burt Kennedy dirige l’adattamento cinematografico con Stacy Keach nei panni di Lou Ford, che chi lo ha visto considera il peggior adattamento in assoluto di un’opera di Thompson. Nel 2010 Michael Winterbottom firma “The Killer Inside Me” con Casey Affleck nel ruolo di Ford, Jessica Alba in quello di Joyce e Kate Hudson in quello di Amy.

“Quasi un santo” di Anne Tyler

(TEA, 2005)

Ian Bedloe è un adolescente che vive al numero 8 di Waverly Street a Baltimora, agli inizi degli anni Sessanta. I suoi genitori, Bee e Doug, amano la casa piena di persone e amici, soprattutto quelli dei figli. Ian è il fratello minore di Claudia e Danny. La prima, alla soglia dei quaranta, è sposata con prole e in attesa del nuovo genito.

Danny, invece, è uno scapolo impenitente, che vive ancora a casa dei suoi. Lavora in un ufficio postale e ama passare le serate a parlare col fratello minore sulla soglia della sua stanza. Ian frequenta Cicely, una sua compagna di scuola.

Un giorno Danny torna a casa con una notizia sconvolgente: al lavoro ha incontrato Lucy una donna che a breve sposerà. Tutti i Bedloe ne sono entusiasti conoscendola, ma quando i novelli sposi presentano loro Agatha e Tommy, i due bambini nati nel primo matrimonio di Lucy, Bee non riesce a nascondere a marito e figli la sua perplessità.

Sette mesi dopo le notte nasce Daphne, e quando la piccola viene portata a casa Bedloe la prima volta, tutti non possono fare a meno di notare che non si tratta affatto di una “prematura”. Ian, intanto, è diventato il babysitter ufficiale di Agatha e Tommy e subito viene promosso anche a quello di Daphne.

Il giovane è attratto da Lucy, ma allo stesso tempo la trova misteriosa – della sua vista passata non esistono foto o documenti – e poco affidabile, visto che lui si deve occupare dei bambini quando lei esce con le amiche, che però nessuno conosce. Dopo aver preso il diploma Ian si è iscritto al college e quando il week end torna a casa, Danny gli chiede sempre di stare con i tre bambini, soprattutto per lasciare del tempo libero a Lucy.

Ian è convinto ormai che la cognata sia una fedifraga incallita e così declina ogni volta l’invito. Ma un sabato pomeriggio lo stesso Danny lo prega di occuparsi dei tre piccoli, perché lui ha una cena con gli amici e Lucy deve vedere la sua storica amica. Anche se Ian è stato invitato da Cecily a cena, dove consumeranno finalmente il loro primo rapporto sessuale, alla fine per assecondare il fratello accetta, visto poi che la cognata gli promette che rientrerà a casa abbondantemente prima dell’ora di cena.

Ma col passare del tempo Ian si rende conto che Lucy non manterrà la promessa e ad ogni telefonata di Cicely, che protesta perché la cena si sta rovinando, lui diventa sempre più furente. Così quando finalmente Lucy torna a casa quasi la ignora uscendo. Ma sulla porta incontra Danny, rientrato dalla sua cena che, nonostante sia un pò alticcio, si offre di accompagnarlo a casa con la sua auto.

Arrivati un Waverly Street, Ian sempre più indignato per la sua serata andata in fumo e per la patetica ingenuità del fratello pronuncia una frase secca e dura che segnerà per sempre la vita di Danny, quella di Lucy, di Agatha, Tommy, Daphne, Bee e Doug, ma soprattutto la sua, visto che passerà il resto della sua esistenza a tentare di vivere con l’incolmabile senso di colpa che quelle parole gli apriranno nell’anima…

La Tyler possiede la grande e rara capacità di raccontare in maniera sublime il passare del tempo all’interno delle mura della casa dove vivono le diverse generazioni di una famiglia. Come in molti altri suoi romanzi – come ad esempio “Ristorante Nostalgia” o “Una spola di filo blu” – anche in questo la grande casa di Waverly Street è il fulcro delle vicende dei Bedloe e di Ian che ne rappresenta l’anima tormentata e ferita.

L’autrice di “Lezioni di respiro” – vincitore del Premio Pulitzer nel 1989 – e “Le storie degli altri” – fra i miei romanzi preferiti in assoluto – ci ricorda che molto spesso sono le nuove generazioni ad arginare ed alleviare i terribili sensi di colpa che affliggono storicamente le loro famiglie, e che, soprattutto, col passare del tempo alla fine possiamo diventare più indulgenti con noi stessi.

Da leggere, come tutte le opere di Anne Tyler.

“A testa bassa” di Stephen King

(Sperling & Kupfer, 1994)

Apparso per la prima volta nella primavera del 1990 sul “The New Yorker” questo “A testa bassa” è uno degli scritti più atipici del Re Stephen King. E’ lui stesso, nella breve introduzione di tre righe, a dircelo.

Il Re ci comunica che quello che stiamo per leggere non è un suo “solito” racconto, ma un saggio. Così ci troviamo sul campo con la squadra di baseball della Bangor West che milita in una delle categorie minori della Little League, la federazione che cura i campionati giovanili americani.

I giocatori della Bangor West hanno tutti fra i dodici e i tredici anni, e rappresentano la scuola omonima che frequentano. Fra questi c’è un ragazzino che a soli tredici anni è già alto abbondantemente sopra il metro e ottanta, si chiama Owen King, ed il padre è uno scrittore di “…una qualche rilevanza”, come ci descrive l’autore stesso.

La Bangor West è arrivata alle finali statali solo molti anni prima, e così nella stagione 1988-1989 non parte certo fra le più favorite, visto poi che sulla carta non ha nessun giovanissimo talento in lista, come invece altre scuole del Maine. Ma il genitore/accompagnatore Stephen King, come d’altronde lo staff tecnico della squadra, intuisce che fra i ragazzi si potrebbe creare quell’alchimia che in campo sportivo può portare molto lontano…

Il Re ci racconta, in maniera travolgente, l’epilogo della stagione sportiva di una squadra giovanile i cui membri si devono dividere fra i compiti, le rispettive dinamiche familiari – alcuni saranno costretti a mancare le partire più importanti per seguire i propri cari in vacanza – e il diamante del campo.

Ma soprattutto King ci racconta l’anima dello sport, quello giocato su campi in pozzolana, rappezzati e al limite del regolamento, da squadre che indossano divise raffazzonate e mangiano panini preparati molte ore prima dai genitori.

E’ fra loro che si può respirare però la purezza dello sport nel senso più alto, dove non ci sono premi in denaro da vincere, ma al massimo un hamburger e delle patatine fritte offerte dal coach dopo la partita. Lo stesso scrittore ci ricorda come, in quegli anni, il mondo auro del baseball professionistico americano di prima grandezza, è stato travolto da scandali e corruzione, un mondo lussuoso dove l’opulenza spesso soffoca il vero spirito sportivo.

Nonostante gli anni, questo “A testa bassa” ancora ci fa riflettere sullo sport contemporaneo, ormai troppo spesso diventato una ricca multinazionale. Ma ogni tanto anche noi, abituati a ingaggi multimilionari di giocatori di calcio (per esempio), rimaniamo incantati dalla performance di un atleta o di una squadra che superano magistralmente tutti gli altri in una disciplina che troppi chiamano ancora “minore”.

Ma il termine “minore” è legato nel nostro Paese soprattutto al giro economico che ruota intorno alla disciplina. E così siamo abituati a considerare “minori” alcuni sport in cui noi italiani furoreggiamo e brilliamo da decenni, come la scherma ad esempio. Ma forse proprio lì, dove girano pochi soli o non ne girano affatto, possiamo ritrovare il vero e sano spirito sportivo che porta un essere umano, anche soli di tredici anni, a mettere piede su un campo o su una pedana e provare a spostare anche solo di un centimetro in avanti i propri limiti.

Questo “saggio” può fare da contraltare al bellissimo “Open – La mia storia” di André Agassi, in cui il campione statunitense ci parla con lucida freddezza degli enormi sacrifici che ha dovuto affrontare per diventare un grande campione.

Da leggere, come tutte le opere del Re.

“Il porto delle nebbie” di Georges Simenon

(Mondadori, 1958)

Pubblicato per la prima volta nel 1932 questo “Il porto delle nebbie” è il quindicesimo romanzo che il maestro Simenon dedica al suo commissario Maigret.

Fra le strade di Parigi viene ritrovato un uomo in evidente stato confusionale. Sulla testa ha una grande cicatrice ben curata, sulla quale i capelli sono stati accuratamente rasati. Ma a parte un cordiale sorriso, l’uomo non sa esprimersi.

Partono così i fonogrammi e i telegrammi in tutto il Paese per verificare se sia una delle persone scomparse denunciate. Ma solo quando la sua fotografia appare sui giornali la Polizia riesce a identificarlo. Si tratta del capitano della marina mercantile Yves Joris, scomparso qualche mese prima dalla piccola località di Ouistreham, che di fatto è il porto Caen, città capoluogo del dipartimento del Calvados in Normandia.

Maigret così lo riaccompagna a casa assieme a Julie, la sua governante e colei che lo ha riconosciuto. Ma proprio la notte del suo rientro Joris viene avvelenato. Per Maigret è una sfida personale nella tragedia: proprio sotto i suoi occhi è stato commesso un crimine ai danni di una persona indifesa e ormai incapace di nuocere a chiunque.

Sotto un cielo cupo, piovoso e tetro si consuma l’inchiesta del commissario che, anche questa volta, dovrà indagare nell’anima dei sospetti, nelle loro debolezze e nei loro più profondi segreti, per scoperchiare la vicenda e individuare il colpevole.

Ma le difficoltà sono molte, a partire dal fatto che lui è un “contadino” – come si auto definisce – che deve impicciarsi e fare domande fra l’insondabile gente di mare che lo osserva sempre con molta diffidenza.

Ouistreham si è sviluppata attorno alla chiusa del “Canal de Caen à la Mer”, da cui passano tutte le imbarcazioni e i mercantili che raggiungono o lasciano il capoluogo del Calvados. E così tutta, o quasi, l’azione del romanzo si consuma intorno ad essa, come nel bellissimo “La casa dei Krull” che Simenon scriverà pochi anni dopo.

“L’uomo che metteva in ordine il mondo” di Fredrik Backman

(Mondadori, 2014)

Lo svedese Fredrik Backman (classe 1981) è stato l’autore di un blog il cui protagonista era un sessantenne solitario e irascibile. Il blog ha riscosso un di enorme successo tanto da diventare un libro uscito in Svezia nel 2012 e, negli anni successivi, in molti altri paesi.

Ove ha 59 anni e vive da solo nella sua villetta a schiera in una città della Svezia. Molti lo considerano solo un vecchio rompiscatole, burbero e intollerante. Ma la sua vita non è stata sempre così.

Fino a circa sei mesi prima Ove era sposato con Sonja, il suo grande amore e l’unica persona, almeno fino al quel memento, che veramente aveva compreso tutto il suo essere e la sua essenza profonda.

Ma Sonja è stata stroncata da un tumore inesorabile, che ha lasciato Ove ancora più arrabbiato di prima. Quando poi nella società in cui lavora lo obbligano ad andare in pensione, Ove decide di farla finita e raggiungere così la sua tanto amata Sonja.

Ma a rovinare i piani funesti ci pensa Parvaneh, la sua nuova vicina. La donna, di origini iraniane, si è appena trasferita nella villetta accanto assieme a suo marito Patrick e alla sue due figlie e di tre e sette anni, e in grembo ha il terzo genito in arrivo.

L’uragano che si è trasferito nella casa adiacente alla sua costringe così Ove ad accettare di convivere anche con il disordine. L’ordine è stato sempre alla base della sua esistenza, è stata sempre la cosa a cui fare riferimento per non perdere la bussola e la linea dell’orizzonte.

Perché di tempeste Ove, fin da bambino, ne ha dovute affrontare tante. E proprio quando sembrava che l’esistenza non fosse altro che una lunga serie di terribili nubifragi, sulla sua strada è apparsa come in una favola Sonja. Per non parlare poi, molto tempo dopo, del gatto…

Delizioso romanzo che ci racconta, con una narrazione destrutturata, un uomo complicato che ha dovuto affrontare una vita davvero difficile. Ma Backman, come il suo implacabile protagonista, non da spazio a inutili sentimentalismi o a fronzoli emotivi, e con una godibilissima ironia ci disegna l’ottica di un uomo limpido e lineare – purtroppo per lui… – che stenta a integrarsi in una società che limpida e lineare non è.

E non azzardatevi a commuovervi, cazzarola …altrimenti Ove se la prenderebbe!

Da questo romanzo sono stati tratti i film “Mr. Ove” del 2015 diretto da Hannes Holm con Rolf Lassgård, e “Non così vicino” del 2023 di Marc Forster con Tom Hanks.